Un mare di arte
Monaco in riva al mare è un’opera realizzata, tra il 1808 e il 1810, dal pittore tedesco Caspar David Friedrich, grande esponente del Romanticismo. In essa, il paesaggio sembra completamente assorbire la microscopica figura che assiste, probabilmente in preghiera, al soverchiante spettacolo della natura.
L’immagine rivela da sé tutto il suo profondo significato e, ad essa, possono legarsi le parole dell’artista italiano Claudio Parmiggiani quando afferma, in merito alla propria opera, che
«l’alfabeto della pittura non appartiene né alla parola né al pensiero logico. L’arte non ha bisogno di alcuna risposta: è una domanda che vuol restare tale. Iniziare a parlare del proprio lavoro significa cominciare a tacere perché l’opera è un’iniziazione al silenzio».
C. Parmiggiani, Stella sangue spirito, p. 80.
Il monaco osserva, silenzioso, un immenso mare cupo, come noi silenziosamente contempliamo la medesima scena e, cento anni dopo, possiamo chiederci se, il mare di fronte a cui prega, sia rimasto lo stesso che ci troviamo davanti oggi.
L’arte non ci fornirà una risposta, non è questo il suo scopo, ma ci spingerà a riflettere e ad affrontare sempre nuove questioni in relazione al nostro tempo. Se, agli inizi dell’Ottocento, la riflessione innescata dal quadro di Friedrich verteva sulla questione dell’individualità del soggetto, che scopre se stesso di fronte al Sublime in una natura densa di spiritualità, oggi guardiamo il mare con occhi diversi. Tanto differenti quanto quelli degli artisti che hanno impiegato il mare come mezzo e oggetto della loro riflessione.
Nonostante l’assenza del mare nell’opera site-specific di Ai Weiwei del 2016, Reframe, possiamo quasi sentire il rumore delle onde che i ventidue grandi gommoni appesi alle pareti di palazzo Strozzi a Firenze richiamano. Inizialmente essi appaiono quasi come una nuova decorazione (questo il senso del titolo) dell’edificio di stile rinascimentale a cui sono attaccati. In realtà, i gommoni intendono denunciare, esplicitamente, la tragica fine dei profughi che, ogni giorno, tentano di raggiungere l’Europa rischiando la loro vita: un tema che non può passare sotto silenzio nel lavoro dell’artista cinese, tanto attento alle problematiche sociali e politiche più attuali.
Infatti, pur essendo innanzitutto ambiente naturale, il mare in quanto spazio navigabile che unisce o separa la terra può essere letto come metafora, un «serbatoio di memoria»1 in cui le storie del passato e del futuro vengono conservate. Questo il senso di Vertigo Sea, opera video a tre canali presentata da John Akomfrah, regista e sceneggiatore britannico, alla 56esima Biennale di Venezia del 2015. La sua intenzione originaria era quella di «offrirsi come una poetica meditazione sul rapporto che unisce l’uomo al mare e, nel contempo, come amara riflessione sullo spazio marittimo trasformato in luogo di conflitti, migrazioni, traffici di merci e di esseri umani, condanne a morte, abusi sull’ambiente, stragi di balene e altri animali»2. La poeticità delle immagini rappresentate, nonché la loro potenza, strettamente legate alla colonna sonora del video, innescano, nello spettatore, la dinamica descritta da Parmiggiani: l’opera parla da sé; chi osserva, in silenzio, non può far altro che interrogarsi e riflettere sulla tragicità delle questioni che essa mette in atto.
Altrettanto immersiva è l’opera Cosmo-Eggs, nata dalla collaborazione tra un artista, un compositore, un antropologo e un architetto, presentata alla Biennale di Venezia del 2019 per il padiglione del Giappone. Composta da quattro filmati di Motoyuki Shitamichi, incentrati sulle tsunami-ishi, le pietre giganti spazzate a riva dalle profondità dell’oceano, dalle composizioni di Taro Yasuno, una serie di suoni automatizzati, prodotti meccanicamente, che ricordano il canto degli uccelli, e dai racconti allegorici di Toshiaki Ishikura in riferimento al folklore locale relativo allo tsunami, essa intende creare uno spazio per riflettere sull’ecologia condivisa da umani e non, e su dove e come viviamo. Il curatore di questa piattaforma, Hiroyuki Hattori, pone la domanda alla base dell’opera: «l’arcipelago giapponese, un’area frequentemente colpita da disastri naturali, ha conosciuto le distorsioni della modernizzazione nel disastro, provocato allo stesso tempo dalla natura e dall’uomo, della centrale nucleare di Fukushima causato da uno tsunami conseguente al grande terremoto che ha colpito il Giappone orientale nel 2011. In un’epoca in cui noi, come esseri umani, abbiamo esteso il teatro della vita urbana allo spazio limitato dell’intero pianeta, come dobbiamo valutare l’impatto significativo che le nostre azioni hanno sull’ambiente?»3.
I resti di un mare che ha dovuto subire gli effetti dell’intervento umano, si rivelano in tutta la loro materialità, e appaiono come relitti di una battaglia che l’uomo intraprende ogni giorno contro l’ambiente stesso in cui vive e che, ormai, non può più essere ignorata. Le piante, come dimostrano le fotografie, prendono possesso di questi luoghi, sono in grado di adattarsi. Tuttavia ci chiediamo: l’uomo è in grado di adattarsi come loro al cambiamento?
Se invece rivolgiamo uno sguardo al mare candido rappresentato nelle fotografie di Massimo Vitali, nonostante non intenda presentare una denuncia contro le problematiche attuali, esso rappresenta, comunque, gli effetti tossici dell’azione umana sull’ambiente.
Le spiagge di Rosignano Solvay e le attività dei bagnanti costituiscono, infatti, il soggetto prediletto delle sue fotografie, nonché il linguaggio che egli adotta per realizzare la copertina del numero di settembre 2021 di Vogue.
In un’intervista per Domus, l’artista ha affermato «L’acqua è un elemento che unisce, intorno all’acqua la gente sente di avere qualcosa in comune, tutti questi gruppi di persone, apparentemente isolati, si sentono parte di una stessa scena»4. Ma qual è la vera scena di cui essi fanno parte? Dietro la patina di grazia e bellezza delle fotografie, infatti, si cela la realtà, molto meno poetica, degli scarichi estremamente inquinanti di carbonato di calcio da parte dell’industria Solvay, che produce, non molto lontano dalla spiaggia, carbonato di sodio.
Il mare sembra essere una silenziosa presenza nelle fotografie, tuttavia, basta interrogare le immagini e cambiare la propria prospettiva per trovare risposte diverse, le quali, a loro volta, possono sollevare nuove questioni.
L’arte è una domanda che vuole restare tale: è compito dello spettatore continuare a sollecitarla, per non lasciare che il mare resti muto davanti alla silenziosa preghiera dell’uomo.
Note
- N. M. Alter, John Akomfrah, p.6.
- P. Valenti, Gli “spettri” della black diaspora nell’opera di John Akomfrah, p.120.
- https://www.inexhibit.com/it/case-studies/cosmo-eggs-padiglione-giapponese-alla-58a-biennale-arte-venezia/
- https://www.domusweb.it/it/arte/2022/02/25/le-spiagge-di-massimo-vitali–la-normalit-delle-nostre-vite.html