Vacanze sui social: nuove metriche di benessere
Settembre arriva e un’altra estate volge al termine. A precedere i nuovi inizi c’è sempre un bilancio: com’è andata l’estate 2022? Complici i ricordi di Instagram e un pizzico di nostalgia, siamo sempre un po’ portati a paragonare le nostre esperienze con le simili che le hanno precedute, nonché con quelle degli altri, al fine di giungere ad una valutazione conclusiva, quasi stilando una sorta di pagella.
In questo pericoloso innesco comparativo, un ruolo determinante è giocato dalle vacanze e dai viaggi. Se per una strada usiamo i chilometri, per misurare la memorabilità di un’estate usiamo i posti che abbiamo visitato o i giorni che abbiamo trascorso lontano da casa. Questo è il metro di giudizio che siamo soliti tirare fuori dalla tasca quando qualcuno ci chiede: com’è andata la tua estate? Quasi fossimo vittime di un automatismo, il nostro pensiero sembra andare subito lì. Ci sentiamo compiaciuti se abbiamo preso qualche aereo, salutato casa per due settimane e visto un mare cristallino; ci sentiamo imbarazzati se abbiamo trascorso tre giorni in montagna o non ci siamo mai allontanati dalla pianura padana.
Mi azzardo a sostenere che questo meccanismo valutativo sia incrementato per azione delle affordances dei social media, ossia da ciò che questi permettono agli utenti di fare o non fare. Pensiamo, per esempio, alla possibilità di taggare i luoghi in cui ci troviamo, possibilità che, soprattutto per noi della Generazione Z, è assolutamente banale. Un espediente estremamente facile e veloce per far sapere ai nostri followers dove ci troviamo: per noi è qualcosa di perfettamente normale. I miei genitori, invece, già storcono un po’ il naso mentre mi chiedono se sia davvero così necessario informare gli altri sui nostri spostamenti.

Il punto è che noi siamo cresciuti dentro a questi meccanismi: sono la nostra comfort zone, sono ciò che reputiamo “normalità”. Dobbiamo invece sforzarci di guardare al mondo dell’online con quello sguardo estraneo proprio di chi non ci è nato né tantomeno cresciuto. Allora, forse, scopriremmo che, prima dell’avvento dei social, la vacanza era un momento personale, condiviso solo con coloro che lo vivevano in prima persona. Solo mamma e papà, forse qualche zio, avrebbero saputo del mio viaggio nella riviera romagnola. E al massimo, in differita, quelle poche intime amiche alle quali avrei spedito luccicanti cartoline postali, o i miei compagni di scuola informati al rientro di settembre. Oggi, invece, basta una foto del mare di Riccione, con rispettivo tag, per comunicare a tutti, in diretta, della mia vacanza.
Sono poche le persone, specialmente della mia generazione (anche se credo che i boomers siano stati largamente contagiati da questa mania), che decidono consapevolmente di non pubblicare la propria posizione, anche se potrebbero farlo dalle Maldive o da un resort di Cortina. O, meglio, che lo fanno senza desiderio di ostentazione, per il puro gusto della condivisione. Questo perché i social sono diventati la nostra vetrina: siamo morbosamente attratti dal piacere di mettere in mostra cosa facciamo, dove andiamo, cosa mangiamo. I viaggi sono solo una piccola parte di un universo di contenuti che decidiamo di rendere pubblici nel tentativo di comunicare, o costruire, un vero e proprio status sociale.
I social hanno reso le vacanze ancora di più una questione di status symbol. Tra giugno e agosto, siamo bombardati dai contenuti sui social di persone in ferie. C’è chi inquadra i suoi aperitivi in riva al mare, chi mostra il nuovo costume Calzedonia a bordo di una barca nella costiera amalfitana, chi pubblica il bianco delle spiagge caraibiche e chi della neve in alta quota.

Non riusciamo proprio a resistere alla tentazione: perché non far sapere a chi mi segue che ho preso l’aereo e sono andato a Parigi? O addirittura, per i più “maniaci”: perché non far sapere che l’anno scorso ero a New York? Persino le esperienze passate sono ottimo materiale da esporre in vetrina. Ecco che allora pubblicare istantanee delle Tour Eiffel o, ancora, imbrigliarsi nelle catene di Instagram per mostrare l’”august dump”, diventano meccanismi spontanei, naturali, di cui ci serviamo per mostrare a tutti chi siamo, cosa ci siamo potuti permettere di fare, dove il nostro status economico ci ha permesso di mettere piede. Oserei dire poi che l’ultima funzione di Instagram, ossia quella del “tocca a te”, è davvero perfetta per chi soffre di mania di ostentazione: con una sola storia, puoi mostrare a tutti le vacanze, i luoghi, le esperienze che hai collezionato in viaggio. Non soltanto noi ci pieghiamo verso i social, ma anche loro verso di noi.

Insieme, utenti e piattaforme, trasformano dunque un intero immaginario collettivo, quello delle vacanze. Il risultato è che, ciò che prima era intimo e privato, un momento per “staccare” dalla routine e ritirarsi in una meritata privacy, ora è l’esatto opposto: il pretesto perfetto per rimanere ancora più online, ancora più connessi, sempre più dipendenti dal bisogno di pubblicare e rendersi pubblici. Pensate che la parola “vacanza” deriva dal latino vacare, che significa “essere vuoto”. I social hanno quindi completamente sovvertito anche l’etimologia: ciò che, per sua natura, dovrebbe essere vuoto, ossia rilassato e libero, in realtà risulta pieno, teso e affollato. Nel 2022, di foto, storie, tag; perché, come erroneamente si dice, “se non lo posti, non l’hai fatto”.
La conseguenza diretta di questo nuovo modo di intendere le vacanze è la costante tendenza al paragone. Come ho accennato in apertura, i social ci obbligano ad assistere alle vite di tante altre persone e a instaurare continui confronti tra la nostra vita e la loro. “Quest’anno ho fatto una vacanza di soli sette giorni, mentre la mia compagna di università ha visitato tre nazioni diverse in due mesi”.
Adesso, oggettivamente, pensieri simili possono apparire infantili. Molti sono, infatti, quelli che sostengono quanto simili paragoni non possano che provenire da menti poco intelligenti. Eppure, sono molto più diffusi di quanto pensiamo, anche solo nel nostro subconscio, anche se non li esplicitiamo ad alta voce. Non a caso, in ambito psicologico, si inizia a discutere di depressione post vacanza da social network. Ne parla il presidente dell’Associazione Internazionale di Cyberpsicologia, Giuseppe Riva: «Sui social network le vacanze si usano per segnalare il proprio status sociale, per far vedere che si è arrivati e si è felici. Ma sono foto avulse dal contesto. I conoscenti non sanno cosa c’è intorno. Questo genera depressione. Se uno è andato in vacanza tardi o non ci è andato proprio, vede le foto delle vacanze degli altri su Facebook, fa i confronti e si commisera1».
Questo meccanismo è estremamente pericoloso, anche perché il termine di paragone cambia da persona a persona e, soprattutto, è destinato ad accrescere in dimensioni. Un anno mi vergogno perché non sono andato in vacanza, l’anno dopo mi vergogno perché ho viaggiato per “soli” cinque giorni, l’anno dopo ancora mi vergogno perché non ho lasciato l’Italia. E così via, fino a che punto? Fino a che punto sapremo dirci soddisfatti di quello che abbiamo potuto fare?
Ciò non è pericoloso solo per questo. È insidioso anche perché non dobbiamo dimenticare che ognuno di noi può decidere cosa mostrare delle proprie vacanze e cosa no, ossia nascondere quello che ritiene non aesthetic o instagrammabile, innescando un circolo vizioso che ci porta a paragonarci vicendevolmente in maniera tossica. Ci valutiamo usando un metro, ma non sempre questo metro è corretto ed autentico. Ad ogni modo, paragonando la nostra estate a quella degli altri, possiamo finire per sentirci insoddisfatti o sentirci in colpa perché non abbiamo avuto uno stile di vita all’altezza.
«Il paragone con gli altri è già complesso da gestire nella realtà, ma la dimensione virtuale lo inasprisce ancora di più: non ci confrontiamo più con le persone attorno a noi, ma con quello che loro decidono di mostrare della propria vita – quindi la versione idealizzata».
«Le vacanze che facciamo finiscono per diventare una misura del nostro valore, del successo che abbiamo raggiunto, della nostra disponibilità economica. Determinano uno status che va il più possibile ostentato e diventano quasi un dovere sociale», scrive Factanza in uno dei suoi brillanti post2.
Senza contare che la spettacolarizzazione delle vacanze genera ansia da prestazione anche in chi al mare ci va, e che pure non è interessato a vivere esperienze particolari e dispendiose. Si tratta sempre di compiere un incredibile sforzo per raggiungere uno standard, un livello, per rientrare in un framework ritenuto accettabile in società e bello sui social. Ci sentiamo quindi forzati a partire, anche se quello che vogliamo è, in realtà, goderci le nostre quattro mura. E anche una volta partiti e sbarcati, ci sentiamo in dovere di riempire i nostri giorni di attività, escursioni, visite, insomma esperienze.
I social hanno originato una vera e propria spettacolarizzazione delle vacanze, unita ad un pericoloso ideale di ferie perfetto ed irraggiungibile. Vedere sui social le foto degli altri in vacanza porta spesso a un paragone ossessivo tra noi utenti, che il più delle volte genera insoddisfazione. E spesso l’insoddisfazione si tramuta in cattiveria da “leoni da tastiera”.

Tuttavia, è altresì vero che le differenze di status si materializzavano nelle vacanze anche prima dei social (vedi Fantozzi e Filini in campeggio). Le persone si sentivano inadeguate anche senza Facebook e Instagram. Mi ricordo perfettamente quando a scuola, al rientro a settembre, c’era chi raccontava della sua esperienza al resort sardo e chi semplicemente spiegava di essere rimasto a casa. Le vacanze sono sempre state indice di uno status. Ecco che forse la questione non è da circoscrivere ai soli social, ma da ampliare all’intera società. Tante persone, invece di sviluppare le proprie metriche di felicità e benessere, ancora guardano e usano quelle degli altri. Le stories hanno semplicemente amplificato un fenomeno già esistente, fornendogli nuovi mezzi ed occasioni.
Dunque, invece di puntare il dito solamente contro i social, bisognerebbe interrogarsi sul perché di questi pensieri, di questa costante tensione a paragonarsi agli altri e mostrare ciò che si fa, dove si va. E insistere anche su quello che appare come uno stato esistenziale plasmato dall’invidia e dall’insicurezza. Probabilmente converrebbe, più che cambiare le abitudini digitali, incoraggiare le persone a lavorare maggiormente sulla propria autostima, prendere consapevolezza di sé e affrancarsi dai paragoni con gli altri, dalle pressioni sociali.
Allora, forse, alla vista di una foto del mare cristallino della Costa Smeralda, penseremmo “che posto meraviglioso”, anziché “beata lei che ha i soldi per andarci”. E vedremmo il lato positivo di questa spettacolarizzazione, ossia la possibilità che offre, a chi non ha potuto andare in vacanza, di scoprire posti nuovi dalla comodità della poltrona di casa.
Come sempre, tutto sta negli occhi di chi guarda. Indipendentemente da chi o cosa ha mosso le dita di chi pubblica. Possiamo scegliere di farci inondare dai pensieri negativi, instaurare paragoni e ritrovarci perennemente insoddisfatti; oppure possiamo scegliere, semplicemente, di partecipare della felicità di chi ci circonda.
di Marta Gatti
Note
- Dal Corriere del Giorno: https://www.ilcorrieredelgiorno.it/10-buoni-motivi-per-non-postare-le-foto-delle-vacanze-sui-social/
- Dal profilo Facebook di Factanza: https://www.facebook.com/factanza/posts/1203826530173999