Ottobre – /dòn·na/: “professione” femminile singolare
Lo scorso mese, la società Treccani è stata protagonista dei dibattiti sociali, politici, ma soprattutto linguistici, annunciando la presentazione, proprio questo ottobre, di una versione aggiornata e ampliata del Vocabolario della Lingua Italiana. Essa comprenderà, oltre che i termini relitivi all’epidemia COVID-19 (dal termine stesso che descrive il virus, covid, a neologismi come lockdown, o l’acronimo dad, o, ancora, perifrasi entrate largamente in uso nel nostro parlato quotidiano, come smart working o distanziamento sociale), anche e soprattutto un cambiamento che, più che linguistico, appare come un cambiamento ideologico, o almeno il presupposto di esso.
Sto parlando della lemmatizzazione sistematica di sostantivi e aggettivi femminili nel dizionario, non privilegiando più solo ed esclusivamente i termini al maschile. In soldoni, accanto al consueto avvocato, troveremo anche avvocata come voce a sé stante e non come alternativa possibile al maschile. Si tratta effettivamente del tentativo di cercare di porre rimedio alla questione del sessismo linguistico, dibattito contemporaneo divenuto uno degli oggetti di discussione del femminismo intersezionale della quarta ondata, quale è quello che stiamo attraversando.
Per quanto abbia dettato scalpore, tale direzione non risulta nuova, né la scelta di Treccani risulta esserlo: quello sul sessismo linguistico è un dibattito aperto da almeno trent’anni, da quando, effettivamente, la riflessione e la mobilitazione femminista ha portato l’attenzione sul rapporto che intercorre tra donne e lingue. Già lo Zingarelli, che da sempre attua una revisione annuale del suo dizionario, nel ‘94, aveva tentato questa operazione di lemmatizzazione, registrando la presenza di sostantivi professionali femminili, aggiungendo quindi «la desinenza /-a/ o in /-ice/ ai centinaia di mestieri finora non declinati, garantendo alla donna parità di diritti almeno linguistici»1. Già dalla sola formulazione della notizia sullo Zingarelli, possiamo notare alcuni snodi fondamentali, che sono ripresi anche nelle dichiarazioni emesse da Valeria della Valle e Giuseppe Patota, i curatori della nuova edizione del Treccani, che precisano come il nuovo vocabolario sia «lo specchio del mondo che cambia e il frutto della necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società, che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole, promuovendo inclusività e parità di genere». Spunti su cui tornerò più avanti e, in generale, per tutto l’almanacco di questo mese.
Se vogliamo trovare un punto di inizio al dibattito sul sessismo linguistico, possiamo trovarlo nel biennio 1987-1988, date nelle quali Alma Sabatini, linguista, col supporto della Presidenza del Consiglio, pubblicò due testi cardine della sociolinguistica, ovvero Il sessismo della lingua italiana e le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. In questi due testi, Sabatini attuava non tanto uno sterile e inconcludente revisionismo linguistico, bensì un’analisi dei due principali aspetti della lingua, ovvero le sue regole e l’uso sociale della lingua stessa. Fatto questo breve preambolo, per tornare a Treccani, per il principio di azione e reazione – o di puro amore di polemica, ma questa ovviamente è una mia opinione-, la critica è sempre dietro l’angolo, oggi ancora più di ieri. Ancora nel XXI secolo, infatti, desta scalpore o stupore assistere ad un dato di fatto, ovvero l’applicazione stessa delle regole della lingua italiana che prevede la declinazione dei sostantivi professionali al femminile. Eppure ci sono sempre dei detrattori che adducono delle scuse che non stanno in piedi, alle quali Vera Gheno, sociolinguista contemporanea nota soprattutto per essere una delle principali sostenitrici dell’inclusività linguistica, ha dedicato un saggio estremamente interessante proprio a proposito dei sostantivi professionali declinati al femminile, Femminili singolari (2019).
Quando parliamo di sessismo linguistico, ci riferiamo a qualcosa che «prende in considerazione l’immagine delle donne che emerge dalla pratica linguistica e il contrasto sempre più evidente tra l’ascesa sociale delle donne e la rigidità di una lingua costruita da e per i maschi»2. Ciò che Robustelli teorizza, si può tradurre in: quando parliamo di sessismo linguistico, analizziamo il «come si parla delle donne»3, così come «quali strumenti linguistici offre la lingua per riferirsi alle donne», e quanto l’implicazione sociale che hanno tali usi.
È importante parlarne? Sì, ovviamente, per un uso più consapevole della lingua, ma soprattutto, ad esempio, per rispondere, pacificamente e con i giusti strumenti, a diversi commenti della notizia del nuovo dizionario. Vi riporto giusto qualche esempio, la maggior parte provenienti dal magico mondo di Twitter:
1. “Avevamo la lingua più bella e completa al mondo, figlia di padri greci e latini”: tweet pubblicato il 12 settembre 2022 dal cantante Enrico Ruggeri;
2. “Ci occupiamo di nuovi fascismi, bollette&gas, guerre e pandemie… Poi crolla il mondo occidentale e va bene così… Purtroppo la battaglia è persa completamente[…]”: tweet pubblicato, lo stesso giorno, da Luigi Mascheroni, pubblicista per il Giornale;
3. “E anche il ‘dizionario dell’italiano’ deve, per forza, ‘offendere’ il buon senso! Per me un ‘chirurgo’, un ‘notaio’…ecc.. resteranno tali, con o senza ‘lemmatizzazione’! Ma bastaaaaa…..L’autonomia lessicale si ‘fotta’, scusate (con tanto garbo!)”: risposta di una utente, donna, al tweet di Mascheroni;
4. Treccani? No, “Treccagne”: roba da matti, ecco il dizionario… della Boldrini: titolo dell’articolo, uscito su Libero quotidiano il 14 settembre, di Giovanni Sallusti.
“C’è da mettersi le mani nei capelli a leggere queste parole”, avrebbe detto la mia illuminata nonna. Ciò che emerge da queste parole, innanzitutto, è un altissimo livello di hate speech, ovvero un linguaggio intriso, oltre che di volgarità gratuite, anche di violenza indiretta. Dei quattro commenti riportati, a preoccuparmi di più, non sono quelli degli uomini, – anche perché da un autore che, per quanto bravo, è divenuto celebre per la nota canzone Quello che le donne non dicono (divenuta purtroppo, il mantra musicale dell’8 marzo), così come da quei due specifici giornalisti, c’era oggettivamente da aspettarsi tale reazione-, bensì quello della utente donna. Come possiamo leggere, per costei, l’applicazione delle regole grammaticali è una “offesa del buon senso”, e che, quindi, una donna che esercita la professione chirurgica, per la quale esiste il sostantivo che ne descrive il ruolo, chirurga, dovrebbe essere appellata a prescindere chirurgo. Evidentemente la suddetta leonessa da tastiera avrebbe bisogno di un piccolo ripasso di grammatica scolastica, dal momento che chirurg-o/-a appartiene alla categoria dei sostantivi mobili, ovvero quei sostantivi ai quali, alla radice, basta aggiungere la naturale desidenza declinativa -o/-a, e che quindi la flessione chirurga non implica nessun errore di battitura o grammaticale4.
Ancora oggi, come possiamo notare, c’è molta ritrosia per quel che concerne i sostantivi professionali declinati al femminile. Se ci pensiamo, da sempre nessuno vede strano che il femminile di maestro sia maestra, ma qualcuno è pronto a tendere il dito verso avvocata, ingegnera, matematica, fisica, ministra, sostantivi che, per bene che vada, per il principio della risemantizzazione, verranno definiti primariamente come le materie di studio e non donne che esercitano quella specifica professione.
Tale approccio mette in luce una precisa visione del reale, o una paura proveniente soprattutto dal genere maschile: se una specifica parola entra a far parte di un dizionario, significa che la società ne fa largo uso, quindi, se si è iniziato ad usare quei sostantivi professionali femminili, significa che sempre più donne, nel corso degli anni, hanno avuto accesso a queste professioni. In sostanza, la necessità di questi termini viene vista come un’ “invasione” di uno spazio convenzionalmente occupato solo dai maschi, al quale alle donne era negato l’accesso per il semplice fatto di essere donne. Maestra o infermiera, quindi, non stupiscono, perché rappresentano professioni da sempre “indicate” per una donna – soprattutto perché rientrano nel convenzionale ruolo di cura. Avvocata invece sì, così come ingegnera o architetta, perché “fanno ridere”, “eh, significano altro”, o ancora “in un ambiente lavorativo tutto maschile, se ti fai chiamare così non vieni presa sul serio, meglio il maschile”. Queste sono solo alcune delle affermazioni portate avanti soprattutto da donne che spesso vivono sulla propria pelle questo tipo di discriminazione. Credo che una qualunque donna trovi umiliante o svilente essere appellata al maschile per una professione alla quale ha avuto accesso tramite studio, merito personale e capacità, per le quali io, donna, ho lottato e magari sono stata anche la prima ad accedervi “per gentile concessione maschile”.
Vorrei soffermarmi però un momento su un punto specifico: la questione ilarità.
L’ilarità è una costruzione sociale, pertanto se termini come architetta possono suscitarci una risata, non è perché il termine sia stato concepito per questo scopo, ma perché siamo noi a volerne trarre del divertimento e una presunta allusione ad altri termini. L’ilarità in quanto costruzione sociale porta a dare, spesso, anche connotazioni altamente negative o ambigue ai termini femminili. Se ricordate, qualche fanno fa, ai David di Donatello del 2018, Paola Cortellesi portò un monologo molto interessante dove leggeva la nota lista anonima, resa disponibile dall’enigmista Stefano Batterzaghi su una rubrica di linguistica di Repubblica, dove veniva posto l’accento su come innoqui sostantivi maschili, al femminile, diventino lievi “ammiccamenti alla prostituzione”. Ad esempio: «un cortigiano: un uomo che vive a corte/ una cortigiana: una mignotta […] un uomo con un passato: un uomo che ha avuto una vita degna di essere raccontata; una donna con un passato: una mignotta». È evidente, quindi, come l’intervento del Treccani sia non solo utile, ma necessario. Il femmismo, quotidianamente, ha già miriadi di problemi dei quali occuparsi (patriarcato, disparità salariale, violenza generalizzata, femminicidi, etc.), ma se è vero, come teorizza l’ipotesi Sapir-Whorf, che non siamo noi a parlare la lingua, ma la lingua a parlare di noi, per arrivare alla parità di genere che rispetti la differenza, che rispetti l’essere donna in quanto donna, anche il linguaggio va inserito nelle questioni del femminismo.
E proprio per l’ipotesi Sapir-Whorf, sessismo linguistico non è solo il “problema” di una declinazione, ma è anche l’insieme di usi che facciamo quotidianamente della lingua e la direzione androcentrica e fallologocentrica che essa, di volta in volta, prende. Basti pensare a tutta la sfera degli insulti che si rifà sempre a termini che richiamano prepotentemente violenza e pratiche sessuali che vedono la donna soggetto passivo; oppure, quelle espressioni che richiamano la virilità maschile, ad esempio dire ad una donna che “ha le palle” per esprimere la sua tempra; o, ancora, la fraseologia che pone la donna come una categoria fragile, indifesa e secondo elemento, più debole, di una coppia discorsiva (ciò è riscontrabile soprattutto nelle sviste del linguaggio giornalistico, ad esempio in tutti quei casi nei quali si usano espressioni che implicano il rosa, “vittoria in rosa”, o quando si parla di gruppi dove il maschile si pone al primo posto e il femminile affiancato a categorie fragili, come anziani o disabili5). Appartengono al sessismo linguistico anche precisi atteggiamenti, ad esempio il mansplaining, «termine inglese che indica quell’atteggiamento paternalistico per cui un uomo sente di dover spiegare qualcosa di ovvio a una donna»6. Preferisco di gran lunga la traduzione che ne dà Vera Gheno: minchiarimento7, che emerge soprattutto, nelle conversazioni, in tutti quei casi nei quali si sente l’esigenza di fare delle precisazioni, ma anche quando ci si rivolge ad una donna che esercita una specifica professione, appellandola semplicemente con “signora”, attuando un evidente declassamento sociale. Alcune di queste notazioni sono minuzie che usiamo in modo inconsapevole, come qualcosa che effettivamente abbiamo introiettato fin da quando abbiamo appreso la capacità di parlare. È per questo che risulta necessario porvi attenzione, perché non sia più “normale” usare la lingua in questo modo.
Un uso più consapevole della lingua, nel parlato così come nello scritto, e l’identificazione dell’esistenza delle professioni declinate al femminile (un primo passo lo abbiamo ottenuto con i nuovi approcci dei dizionari), permetterà anche di educare le nuove generazioni alla parità di genere. Ad esempio, si eviterà così di cadere nei clichè stereotipati dei libri di scuola elementare di grammatica italiana che, ancora oggi, presentano, spesso, exempla topici che tipizzano i ruoli e riconducono la donna al ruolo di cura (“La mamma stira”, “Il papà legge il giornale”).
Avere una lingua più inclusiva, che dà per normale e possibile l’idea che una bambina possa sognare di diventare, da grande, qualunque professione lei voglia, e che esista un termine che la rappresenta per di più presente sul vocabolario: credo sia questa la direzione verso cui i libri di scuola e la narrativa per l’infanzia debbano lavorare. Ero già grande quando uscì in libreria, nel 2017, Storie della buonanotte per bambine ribelli, un libro esemplare, in un certo senso: una sorta di moderno “catalogo delle donne” che, con il linguaggio che solo le favole hanno, racconta le vite di cento donne che sono riuscite, attraverso lotta, impegno e fatica, a realizzare il proprio sogno di diventare qualcosa nello specifico, qualunque essa sia. A ottobre, proprio l’11 ottobre, ricorre anche la Giornata internazionale delle bambine e delle ragazze, promossa dall’ONU con l’intento di portare l’attenzione sulle discriminazioni e violenze che, ancora oggi, le bambine e le ragazze subiscono in molti Paesi del mondo, ad esempio matrimoni combinati, negazione del diritto allo studio, mutilazione genitale, imposizione dell’hijab o di qualunque integralismo religioso. Anche e soprattutto in questo periodo di mobilitazione, dove vediamo le sorelle iraniane, che spesso sono ragazze giovanisse (è di pochi giorni fa l’uccisione atroce di Nika Shakarami, la ragazza di diciassette anni che vestiva punk e sprizzava gioia di vivere, che come altre protestava per l’uccisione di Mahsa Amini), combattere e ribellarsi, spesso a costo della vita, contro una “morale” ingiusta e disumana che impone loro un controllo, credo che questo libro sia loro dedicato, come recita la dedica in quarta di copertina:
“Alle bambine ribelli di tutto il mondo: sognate più in grande, puntate più in alto, lottate con energia. E nel dubbio, ricordate: avete ragione voi”.
Note
- Vocabolario: lo “Zingarelli” si tinge di rosa. 800 professioni declinate al femminile, 13 luglio 1994 (in ADNKronos), articolo citato in Gheno, V., Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, Effequ Edizioni, Firenze, 2019
- C. Robustelli, Lingua e identità di genere. Problemi attuali nell’italiano, in Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata, n. 3, 2000, p. 510.
- Si veda qui Il sessismo linguistico: le ricerche di Alma Sabatini, in Biemmi, I., Educazione sessista, Rosenberg & Sellier, Torino, 2020.
- Nel capitolo Come declinare (volendo) le professioni al femminile del saggio di Vera Gheno da me citato nell’articolo, è presente una breve schematizzazione delle varie categorie di sostantivi, riscontrabile in qualunque manuale di Linguistica generale.
- La nozione è tratta da Lepschy, G, Lingua e sessismo, in Nuovi saggi di linguistica italiana, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 61-84, nella quale teorizza le categorie discriminatorie definite da Alma Sabatini nelle Raccomandazioni.
- Il dottore e la signorina. Il lavoro, in Cuter, G., Perona, G., Le ragazze stanno bene, HarperCollins, Milano, 2020, p. 83.
- Femminili nel tempo, in op. cit di Vera Gheno.
di Marta Urriani
Mi chiamo Marta Urriani, classe ’98, e studio Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. Ho una folta chioma di capelli ricci, tanto che tutti mi chiamano Mafalda, come la bambina dei fumetti di Quino, con la quale ho molto in comune (e non solo i capelli). Cercando di sopravvivere alla vita universitaria, con il caffè di giorno e la camomilla di sera, leggo e scrivo. Mi interesso soprattutto di letteratura italiana e temi femministi.