Bodies of the Future
Premessa (Sogno Premonitore):
Non so nemmeno narrarlo. Nel sogno sono io che guardo e allo stesso tempo io che agisco, subisco, mi dilanio, perisco e godo di una forza tale che nella veglia sembra attutita da un velo di Maya invisibile, fatto di ordine e causalità. Disteso sul divano di un locale notturno, mi trovo in compagnia di un ragazzo. Mi attrae e io attraggo lui: lo vedo nei suoi occhi, lo sento nel suo respiro che nel rumore della discoteca si fa sempre più presente alle mie orecchie. È una fusione corporale che si consuma nascosti da una semplice coperta, sotto l’intuizione visiva di tutto il locale che però sembra non reagire al nostro piacere carnale. Né l’esposizione esplicita del rapporto né la sua sottrazione alla vista scatenano alcun tipo di reazione: alcuni ballano, altri passano andando a prendere dei drink al bancone, altri ancora si appartano su divani vicini, imitando il nostro gesto orgasmatico. Invisibili, in una marea di giovani, meno giovani, uomini e donne, ci sentiamo a nostro agio perché la vergogna sfugge come gli sguardi degli animali notturni. Il sesso si fa passione e la passione si fa atto, quasi meccanico, volto alla ricerca di un piacere, personale ed egoistico, ricavabile solo dall’altro. È al culmine del mio godimento corporale, quando i miei tendini si ritirano e i muscoli si dispongono in dossi e vallate, quando l’animalità prende il sopravvento sulla ragione e l’umano prende a somigliare a una fiera affamata, bavosa, la cui preda le si trovi dinnanzi senza vie di fuga, che il corpo del mio bottino sessuale si fa meno, pronunciando qualche parola confusa: “Aspetta. Tieni questo”. Protendendo la mano verso la tasca dei pantaloni, estrae una scatola colorata. Perplesso dalla pillola di antibiotico sul palmo, fisso i suoi occhi che rimangono fissi sui miei, come a voler parlare, ma non trovando la forza di muovere quell’enorme complesso di muscoli che la fonazione richiede. Allora i miei occhi da perplessi divengono arrabbiati e poi spaventati, in un tumulto di emozioni che la paura della morte e della malattia da millenni provocano su questi bipedi dagli occhi senzienti chiamati Umani. Divoro la scatola. Le mie guance letti di fiumi turbolenti, recanti danni e affanni. Mi alzo dal divano e il respiro pesante che sento ora è il mio. Le vene pulsano e scalpitano sotto la mia pelle; le percepisco esplodere cariche di un sangue putrido, velenoso che irriga ogni cellula del mio corpo rendendola inadatta alla vita. Corro, mi affanno, piango, corro, mi affanno, piango, corro, mi affanno…
Lampi provenienti da un Io lontano, molte volte estraneo e enigmatico, i sogni ci raccontano di una realtà vissuta perché materialmente immersi o sommersi in essa. Sono promemoria dell’esistenza di un filtro, un velo-ragione, che opacizza lo sguardo obbligandoci a organizzarlo per intuito piuttosto che per contatto diretto. Sono manifestazioni di quell’aderenza all’orizzonte aptico, sensibile, molte volte scottante e altrettante volte anelata, che avviene a livello corporale, proposizione materica dell’essere nel reale. D’altronde, il contatto col reale, con il non-mediato e la matericità, non può che avvenire a livello del sensibile e della corporeità, in quanto sì insieme di carne e ossa, ma soprattutto, organo recettore: limine tra l’Io e il non-Io, tra l’interiore e l’esteriore. I sogni provengono dalla carne perché essa è sia membrana che spugna, sia limine che cavità, sia varco che archivio; perché essa è in grado di assorbire il reale e di mostrare i sedimenti del rapporto con l’Altro. Vorrei intendere questo articolo come il prosieguo logico di un mio scritto precedente: dove Pensare il Corpo[1] prendeva in analisi il film del ‘68 “Thérèse e Isabelle”, questo considererà una pellicola più recente. Per aprire una discussione sul corpo e l’intersoggettività nel mondo contemporaneo, mi si conceda di portare sotto la luce dei riflettori l’ultimo film di David Cronenberg: “Crimes of the Future”[2]. Il racconto fanta-orrorifico del regista canadese narra di un’umanità in mutazione e cambiamento, afflitta – in un futuro che si prospetta non troppo lontano, almeno per quanto concerne l’aspetto ambientale – da un senso di disorientamento dovuto a una forte e brusca trasformazione delle norme socio-comportamentali. Protagonista indiscussa della pellicola, però, si rivela essere la corporeità, che si impone come elemento di lettura chiave per schiudere l’opera verso un universo interpretativo che intreccia media, sessualità, alterità, socialità ed essenza (intima, personale).
Una coppia di artisti di fama mondiale, Saul Tenser e Caprice, amanti e collaboratori, espone il proprio corpo in decadimento, o forse sarebbe più corretto affermare in mutamento, dinanzi a un pubblico. Tagli, incisioni, asportazioni, aprono la carne abbattendo metaforicamente quel velo di ignoto che apparteneva ad essa. Essa, come il bocciolo alle prime luci del sole, si schiude rendendosi disponibile per la prima volta alla pupilla straniera che, come un buco nero, una ragnatela, ingabbia la carne in un universo scopico, totalizzante, mercificante. Perduta nell’occhio dell’Altro, la corporeità è spettacolo voyeuristico, pubblicitario, prodotto offerto a una platea di occhi che godono della sua natura mercificata, sempre più di chi guarda che di chi dà a guardare. Diviene un oggetto concorrenziale, come direbbe Lacan[3], che ha un valore impareggiabile o non negoziabile proprio in quanto oggetto perduto. In un futuro che rispecchia e amplifica distopicamente le norme produttivistiche contemporanee, il corpo ha perso ogni proprietà intimistica e/o propria dell’essere per entrare a fare parte del discorso sociale. Rimbalzato da una rivista a un programma televisivo, nell’era di Instagram il corpo risulta sempre più prodotto, bene con cui l’Io nasce ma di cui subito perde il contatto. In quanto bene, questo assume valore economico e di scambio, è modificabile ed epurabile dalle imperfezioni carnali all’interno di una realtà sempre più de-materializzata, virtualizzata. La corporeità, come le lattine Campbell di Warhol negli anni Sessanta, diviene, citando Baudrillard[4], simbolo dell’iperrealtà totalizzante in cui è immersa, eviscerata dalla fisicità; una realtà videoludica-interattiva in cui tutto è world building e la trama unificante è data dalla rete di interrelazioni economiche e/o di scambio.
Nella modificazione perpetua per giungere al massimo valore di scambio – rintracciabile nei canoni di bellezza, armonia, status sociale – il corpo si piega. Si piega a un’esigenza razionale, a un bisogno, la necessità di trovare una soluzione all’inquinamento di plastiche e rifiuti ambientali, antropico e culturalmente generato. È un malessere sociale cui i corpi mutanti della pellicola rispondono come parte di un grande organismo espanso, generalizzato. Pierre Lévy parla, ne L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio[5], di un “iper-corpo ibrido e mondializzato” un corpo dunque non più in comunione con l’Io e nemmeno convivente con esso: un corpo comune rispondente agli stimoli di un Noi. L’individualità corporale, dunque, si perde per fare posto a una collettività acefala, guidata dal solo spirito di autoconservazione e accrescimento; una collettività di scheletri, carni, bocche in cui viene da chiedersi: che fine ha fatto l’Io?
È l’alba di una nuova umanità, nata attraverso lo schermo, attraverso il virtuale, l’a-materiale, l’a-corporale. È l’umanità del postmoderno, in cui divisioni logiche come Io/Corpo, Razio/Istinto, Ragione/Umore, Eros/Thanatos, cessano di significare: fisicità è tecnologia e tecnologia, scienza e ragione sono corporeità. È l’umanità della perdita e della ricerca: tra le macerie di un corpo tecnologizzato, in una realtà immateriale governata da un potere che risiede ovunque ma da nessuna parte allo stesso tempo,6 in ogni corpo ma in nessuna singolarità precisa, l’umanità si confronta con l’orrore (o il sollievo?) della perdita della particolarità, della volontà individuale, della responsabilità del singolo. Alcuni sono ancora esitanti, altri provano orrore, sono restii al cambiamento, ma giunti al termine della pellicola Saul Tenser e Caprice sanno di essere parte delle cellule tumorali anche loro, di essere uomini nuovi. Accettando la loro rinascita, si apprestano ad asservirsi alla comunità divenendo membri produttivi del nuovo corpo sociale. Sono i nuovi uomini-macchina, i nuovi cyborg i cui compiti, diritti, doveri, termini di vita e morte sono decisi dalla e per la comunità. Sono i corpi acefali di Magdalena Abakanowicz,7 “uomini” catapultati all’infuori di un discorso evoluzionistico naturale o darwiniano per ritrovarsi in un orizzonte antropico-tecnologico, destinati a vagare soli in uno spazio saturo di corpi soli, con la sola sicurezza di stare percorrendo un percorso preimpostato, felici.
Note:
- Matteo Paguri, Pensare il Corpo, L’Eclisse, 1 marzo 2023;
- David Cronenberg, Crimes of the Future, USA, 2022;
- Jacques Lacan, Il Seminario, Libro XV, L’act Psychanalytique, Lezione del 24 gennaio;
- vedi Jean Baudrillard, Della Seduzione, Nuova Casa Editrice L. Cappelli, Bologna, 1980 o Jean Baudrillard, Le Strategie Fatali, Feltrinelli, Milano, 1983;
- Pierre Lévy, L’Intelligenza Collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996;
- vedi M. Foucault, La Società Punitiva, Feltrinelli, Milano, 2019 o M. Foucault, Nascita della Biopolitica, Feltrinelli, Milano, 2015 o Roberto Esposito, Bios: Biopolitica e Filosofia, Einaudi, Torino, 2015;
- Magdalena Abakanowicz, Agora, Grant Park, Chicago, 2007. Installazione scultorea di ferro e ruggine.