Note di fatica: breve antologia musico-lavorativa
Parlare di lavoro, per me che sto ancora studiando e ancora non lavoro, è un po’ un controsenso. Significa appropriarmi di un discorso del quale ancora non faccio parte. Questo mi permette quindi di farmi delle aspettative sul mondo del lavoro, che, devo ammettere, un po’ mi spaventa, perché vedo un’alba completamente ricoperta di nebbia che sembra non diradarsi. Mi basta ascoltare e leggere qualche notizia per sentire di difficoltà nel trovare un lavoro, disoccupazione, assenza di salario minimo, per non parlare del divario salariale insuperabile. Le prospettive non sembrano delle migliori.
Nel mio caso, quando non trovo risposte, le cerco soprattutto nella musica e nella letteratura. Tuttavia, più penso alla musica degli ultimi tempi, più nelle mie orecchie risuona un certo vuoto di fondo. Così, senza pensarci troppo: vi viene in mente qualche canzone degli ultimi due-tre anni che parli di lavoro o che sia orientata verso un certo impegno politico? Al di fuori di Casa mia di Ghali, qualche canzone di Colapesce & Dimartino, Caparezza e de Lo Stato Sociale, ammetto come non mi sovvenga nulla; già citando Capa e Lo Stato non parliamo più di presente recente. La musica, soprattutto quella ipercontemporanea, è fatta perlopiù di canzonette e musica leggerissima, ma soprattutto di un evidente disinteresse per la famosa “cosa pubblica” (discorso che non si può fare per i diritti sociali, che invece trovano, se non un ampio spazio, almeno uno spazio). Quindi, l’unica strada che mi resta è quella di rivolgere lo sguardo indietro, molto indietro (ma anche ad una decina di anni fa), in quel periodo durante il quale la letteratura e la musica andavano a braccetto con l’impegno politico, facendo di questo la loro bandiera.
Il Novecento ci ha lasciato una produzione letteraria molto corposa sul tema del lavoro: basti pensare al brevissimo racconto di Federigo Tozzi, Ricordi di un impiegato (sua opera postuma del ’20), nel quale viene delineato quel profilo sociale, molto in voga nell’immaginario italiano degli anni Settanta, di uomo angosciato, con un certo male di vivere e solitario che si scontra con un ambiente di lavoro ostile, quello dell’ufficio; oppure a Vogliamo tutto (1971) di Nanni Balestrini, che parla dei moti di rivolta operaia degli anni di piombo. Un ulteriore esempio è Il mio mestiere, un racconto tendente al flusso di coscienza di Natalia Ginzburg tratto dal suo romanzo autobiografico Le piccole virtù (1962), che riflette sulle difficoltà affrontate da una donna già negli anni Sessanta nel gestire carriera e vita famigliare (dunque, quando i moti sessantottini erano ormai vicini). Da pochi esempi capiamo come autrici e autori non fossero svincolatə dal presente storico nel quale vivevano, e non solo ne prendevano parte, ma usavano lo strumento della scrittura come denuncia di una classe politica inconcludente e poco attenta alle vere esigenze della cittadinanza. E non finiva lì, perché i contenuti di libri e il presente venivano assorbiti anche dalla musica. In sostanza, si leggeva e si sentiva delle stesse cose.
Questo lunghissimo preludio mi necessitava per giungere al vero cuore del mio articolo, ovvero la musica, per la precisione le canzoni sul lavoro, specie del secolo scorso ma anche qualcuna contemporanea.
È ora, è ora, potere a chi lavora! (Slogan del movimento operaio)
In numerose canzoni, il lavoro operaio viene descritto come qualcosa di non solo faticoso e pericoloso, ma soprattutto alienante. Ogni singolo pezzo sulla vita operaia mette in luce il principio di alienazione ben delineato da Marx nel Capitale. Dai canti di rivolta operaia al rap più recente, si parla di fabbrica come un microcosmo gerarchico, in cima al quale regna dispoticamente il padrone che sfrutta secondo logiche capitalistiche la classe operaia, conducendola quindi ad un’alienazione fatta di degrado mentale e fisico.
Questo continuo scontro tra padrone e operaio si nota bene soprattutto in un canto anonimo di risaia del 1930, Saluteremo il signor padrone, del quale abbiamo diverse interpretazioni: da quella di Eugenio Finardi del 1975, a quella di Francesco De Gregori del 2002 (che ha inserito ne Il fischio del vapore, album nel quale troviamo anche altri brani popolari e di protesta cantati a due voci con Giovanna Marini), per arrivare al folk rockeggiante della versione dei Modena City Ramblers, gruppo da sempre attivo nel sociale e impegnato a favore del lavoro. Assunto in seguito poi come canto di protesta operaia, Saluteremo nasce come canto delle mondine che protestavano contro il padrone che le sfruttava in modo disumano, pagandole poco e talvolta anche abusando di loro:
Saluteremo il signor padrone
Per il male che ci ha fatto
Che ci ha sempre maltrattato
Fino all’ultimo momen’
Saluteremo il signor padrone
Per la sua risera neta
Pochi soldi in la casseta
Ed i debiti a pagar.

Rimanendo sul tema degli abusi sulle lavoratrici, non possiamo non tirare in ballo La filanda (1972) di Milva, altra canzone di denuncia dai toni disincantati che narra la storia di una filandiera che rimane incinta del figlio del padrone e che non vuole essere accettata né dall’uomo né tantomeno dal padrone. Il brano non tende per il meglio, anzi, ha una visione estremamente realistica: Ormai lo so / tutto il mondo è una filanda / c’è sempre chi comanda / e chi ubbidirà.
Come già citato in precedenza, il lavoro in fabbrica è un universo monotono che assorbe, una catena di montaggio che solo il meccanicismo manda avanti. Lo sa bene Rino Gaetano, che ne L’operaio della Fiat «la 1100» (1974) descrive la filiera lavorativa alienante alla quale è sottoposto il povero lavoratore: Neanche un minuto per ogni auto / La catena è assai veloce / E il lavoro ti ha condotto / A odiare la 128. A differenza delle mondine di Saluteremo, l’operaio trova il suo conforto al di fuori della fabbrica, negli amici e nella donna che lo ama, ma proprio nel bel mezzo dello svago, la vita (e la sfiga) lo riportano con i piedi per terra:
Sei già pronto per partire
Spegni tutte le luci di casa
Metti il tuo abito migliore e pulito
Lasci al gatto la carne per tre giorni
E insieme a una Torino abbandonata
Trovi la tua macchina bruciata.
Diversa da quella dell’operaio di Rino Gaetano è la vita de L’operaio Gerolamo di Lucio Dalla, canzone che, seppur del 1973, risulta ancora estremamente attuale nelle sue tematiche. Gerolamo fa l’operaio da sempre, e proprio per questo vaga come un povero disperato dal Sud Italia verso il nord. Fatica in Germania, in Francia e a Milano, dove lavorando si ferisce ad una mano, e infine in un luogo imprecisato, dove morirà schiacciato da un lastrone di pietra in una grotta. Attraverso la fine cruda e amara del testo, Dalla ci dà l’idea di come il sistema capitalistico, alla fin fine, non abbia pietà alcuna, neanche di fronte alla morte: un operaio è un operaio, s’alza il sole sui monti / e sono già morto e sotterrato / S’alza il sole sui monti / e un altro al posto mio è già arrivato.
Sono un eroe perché sopravvivo al mestiere (Eroe (storia di Luigi delle Bicocche) – Caparezza, 2008)
Luigi delle Bicocche è un operaio alla giornata. Ce lo suggerisce anche il suo cognome, delle Bicocche, che allude all’ex zona industriale milanese Bicocca. Luigi lavora in Puglia e sta contribuendo alla realizzazione di un grande progetto, lo Spazioporto. Nel cantiere l’uomo, che lavora in condizioni pessime per un salario irrisorio, è sfruttato da padroni aguzzini. Ciononostante, Luigi non cede né alle pressioni né al gioco o all’alcool, perché ha dei cari che lo amano e per i quali farebbe qualunque cosa, persino rinunciare al suo sogno giovanile di diventare un chitarrista. Secondo Caparezza, Luigi rappresenta l’eroe contemporaneo «coi superpoteri che porrà fine alla vostra esistenza trasformandovi in scimmie che si accoppiano prima dei pasti»1, come Capa stesso ci racconta nella sua musico-antologia Saghe mentali, libro con il quale il rapper pugliese si racconta attraverso i suoi primi quattro album, tra i quali Le dimensioni del mio caos (2008), da cui è tratta Eroe (storia di Luigi delle Bicocche). Il “fonoromanzo” (come lui stesso definisce nel libro l’album), graficamente rappresentato con la copertina della collana storica dei gialli Mondadori anni Settanta, è una storia apparentemente nonsense:

Caparezza farfuglia in merito alla rivoluzione sessuale sessantottina messa in atto da Jimi Hendrix e, nel tentativo di emulare il grande cantante, spacca una chitarra in terra e apre un varco energetico che porta ai nostri giorni Ilaria Condizionata, una hippie follemente innamorata della musica di Hendrix. Il rapper s’innamorerà di lei, ma perderà interesse quando si accorgerà di come Ilaria, da fomentata sessantottina intrisa di ideali, sarà influenzata dal “qualcunismo” e dal vuoto contemporaneo delle idee del Fronte dell’Uomo Qualcuno, di cui sposerà il leader. Dopo diverse peripezie, tra le quali un arresto a causa delle tasche dei pantaloni in grado di contenere tutta la memoria collettiva, il processo per questo misfatto e la condanna che lo costringe a spalare sterco di elefanti circensi, Caparezza finirà in Puglia, dove conoscerà l’ideatore dello Spazioporto, una mastodontica opera propagandistica di cui ci racconta ne La grande opera, brano nel quale tratta della corruzione che si cela dietro l’edilizia italiana di alcune costruzioni iniziate e mai finite, attraverso l’ambivalenza semantica del titolo, dove “grande opera” significa sia “opera edilizia” che “musica lirica”. Tra la varietà di temi toccati nell’album da Capa trova spazio anche quello delle “morti bianche” (vale a dire le morti sul lavoro), verso le quali il rapper è adirato in Vieni a ballare in Puglia, brano che, scambiato per un canto di lode alla propria terra, in realtà è un’aspra riflessione sulle morti sul lavoro: “ho un amico che per ammazzarsi ha dovuto farsi assumere in fabbrica”.
[…] Che fare il dottore è soltanto un mestiere (Un medico – Fabrizio De André, 1971)
C’era una volta un bambino, Siegfried Iseman, che aveva un sogno: «guarire i ciliegi». Così studierà per diventare medico, e lo diventerà. Siegfried non è come gli altri: E quando dottore lo fui finalmente / Non volli tradire il bambino per l’uomo / E vennero in tanti e si chiamavano “gente” / Ciliegi malati in ogni stagione. In breve: un medico per vocazione e che per la stessa vocazione non si faceva pagare. Ma cosa succede quando la vocazione e l’idealismo si scontrano con la sopravvivenza? Per De André, il suo medico ha solo una strada davanti a sé: diventare un imbroglione. Infatti, sulle battute conclusive di Un medico, Siegfried, che ormai ha perso ogni traccia di dignità e idealismo degli inizi della carriera, si metterà a produrre un finto elisir di giovinezza; perciò, da buono che era diventerà «Dottor professor truffatore imbroglione». Molti dei lavoratori di Non al denaro non all’amore né al cielo (1971) seguono questo corso di vita. Questo album è un lavoro complesso che riarrangia musicalmente gli epitaffi narrativi dell’Antologia di Spoon River (1915) di Edgar Lee Master, sapientemente tradotti dalla scrittrice americanista Fernanda Pivano. I personaggi di cui ci racconta De Andrè sono quelli che oggi chiameremmo “malati di lavoro”, che per l’ambizione farebbero qualunque cosa, anche diventare dei corrotti e degli spregiudicati, come il giudice nano o l’ottico che “spaccia lenti”. A salvarsi sono solo il suonatore Jones e il malato di cuore, gli unici che vivono non per mestiere, bensì per passione: l’uno per la musica, l’altro d’amore per la vita, non avendone diretto accesso a causa della malattia, e per una donna, che lo porterà alla morte.
Prospettive lavorative
Come dicevo all’inizio, oggi le prospettive non sono delle migliori. Neanche la musica fa ben sperare, se rivediamo velocemente il senso delle canzoni di cui ho parlato nel corso della mia riflessione. La lotta operaia ha portato uno statuto dei lavoratori nel 1970, ma ancora oggi in Parlamento non si riesce a produrre una legge per stabilire la soglia di un salario minimo. Ancora oggi muoiono persone sul lavoro (solo dall’inizio dell’anno si contano 191 vittime) e purtroppo ne moriranno altre, soprattutto a causa di una corruzione sottile ed invisibile.
Per quanto riguarda la questione disoccupazione, essendo un argomento estremamente ampio che meriterebbe anche un’analisi storica, ho deciso di lasciarlo in disparte. Inoltre, il primo maggio ha completamente perso di significato: mi è bastato vedere un pezzo del concertone di quest’anno e degli ultimi due-tre anni per averne la certezza. Poi c’è chi studia (e anche ci prova e porta avanti lo studio con molta fatica), chi finisce di studiare e si trova davanti la strada del precariato, e l’unica strada è… andarsene, ovviamente. Sempre per Caparezza, Malincònia, termine di fantasia con cui chiama l’Italia, è il paese dei «Cervelli in fuga / capitali in fuga / Migranti in fuga dal bagnasciuga»: in questo verso Capa allude a tre grandi questioni del nostro paese: la migrazione delle figure qualificate, lo spostamento dei capitali e la mal gestione dei migranti. Goodbye Malincònia (inclusa nell’album Il sogno eretico del 2011) fotografa proprio una specifica Italia: un paese pieno di potenziale, dal quale però “se ne vanno tutti”, dove “la situazione è grave più di un basso tuba”.
Chiuderò con una semplice domanda, tratta dallo stesso pezzo:
Goodbye Malincònia, come ti sei ridotta in questo stato?
Note
- Caparezza, Saghe mentali. Viaggio allucinante in una testa di capa, Segrate, Rizzoli, 2008, p. 276.