Quando il lavoro è reintegrazione
La Costituzione italiana afferma che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Il detenuto ha diritto alla reintegrazione in società e, come recita l’art. 15 dell’ordinamento penitenziario, il lavoro è uno degli elementi che concorrono al trattamento rieducativo, in quanto sottrae il detenuto alle conseguenze dell’ozio, favorisce l’apprendimento di nuove competenze, offre la possibilità di ricavare un guadagno ed è uno strumento fondamentale per costruire percorsi di vita dignitosi e alternativi alla delinquenza.
Secondo quanto disposto dalla Legge Smuraglia1, per le imprese o cooperative che assumono detenuti in stato di reclusione o ammessi al lavoro all’esterno, sono previsti sgravi contributivi e fiscali. Più facile a dirsi che a farsi. Spesso le esigenze delle imprese non collimano con i requisiti di sicurezza previsti dalla burocrazia carceraria; di conseguenza, nel Sud Italia come nelle isole, dove il numero delle imprese che presentano istanze per accedere alle agevolazioni previste dalla Legge Smuraglia è meno elevato rispetto al Centro-Nord, si registra un basso numero di attività lavorative all’esterno delle prigioni2. È doveroso menzionare che, nonostante ciò, esistono alcune eccezioni, come nel caso della regione Campania, dove sono state presentate numerose istanze di accesso alle agevolazioni per l’anno 20243. Questo è avvenuto grazie alla pubblicizzazione della possibilità di usufruire di suddetti sgravi contributivi, in aggiunta alla previsione di ulteriori investimenti che sono stati in grado di incentivare le imprese a impiegare denaro nel settore e ampliare l’offerta lavorativa4.
Ma i problemi persistono anche quando si tratta di lavoro all’interno degli istituti penitenziari. Infatti, mancano luoghi adatti alle attività da far svolgere ai detenuti, il che impedisce l’apertura di piccole realtà lavorative in carcere5. Questa mancanza rappresenta un problema significativo che ostacola il processo di riabilitazione dei detenuti. Spesso le strutture penitenziarie sono sovraffollate e non dispongono di aree sufficienti per laboratori, palestre, aule didattiche o spazi ricreativi, limitando così le opportunità per i detenuti di partecipare a programmi educativi, formativi e di svago. Lo sviluppo di competenze professionali e personali viene quindi ostacolato, ripercuotendosi sul benessere psicofisico delle persone e aumentando il rischio di tensioni e conflitti all’interno degli istituti. Risolvere questa problematica risulta perciò fondamentale per garantire un’effettiva funzione rieducativa della pena.
I dati più recenti ci dicono che la percentuale dei detenuti impiegati è solamente del 33,3%6. Un numero estremamente basso se consideriamo che la maggior parte delle persone recluse nelle case circondariali non è refrattaria all’idea del lavoro, e anzi sarebbe disposta a lavorare anche per una paga infinitesimale che andrebbe a soddisfare l’acquisto di beni come radio, batterie, sigarette e quotidiani e costituirebbe parte integrante dei risparmi che serviranno per non uscire dalla struttura penitenziaria a mani vuote[7].
Il lavoro in carcere riveste un’importanza fondamentale per la reintegrazione sociale degli ex detenuti, perché fornisce loro competenze professionali e una struttura di routine quotidiana che li prepara per la vita al di fuori dalle mura penitenziarie. Attraverso programmi di formazione e opportunità lavorative è possibile acquisire abilità pratiche e sviluppare un senso di responsabilità e autostima. Queste esperienze lavorative non solo migliorano le prospettive di trovare un impiego una volta rilasciati, ma riducono anche il rischio di recidiva, poiché i detenuti apprendono nuove modalità di gestione del tempo e delle responsabilità.
Alcuni noti casi di attualità ci mostrano come il lavoro sia parte integrante della detenzione e funga da valvola di sfogo anche per coloro che non hanno la prospettiva di un futuro in libertà.
Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, attualmente detenute presso il carcere di Taranto e condannate nel 2017 all’ergastolo per concorso in omicidio volontario, hanno intrapreso un percorso di rieducazione e reintegrazione attraverso diverse attività lavorative all’interno dell’istituto penitenziario. Sabrina, coinvolta in attività artigianali, si dedica alla creazione di oggetti di sartoria che vengono venduti per beneficenza, dimostrando un notevole talento e impegno. Cosima, invece, partecipa ai lavori di cucina e manutenzione, contribuendo al benessere della comunità carceraria.8
Un altro esempio è quello di Rosa Bazzi, condannata per la strage di Erba insieme al marito Olindo Romano e detenuta nel carcere di Bollate: ha raccontato di come persino all’interno del carcere, se si hanno volontà e voglia di costruire qualcosa, esista la possibilità di realizzarsi9. Durante la detenzione ha realizzato borse e accessori in cuoio che sono stati messi in vendita sul sito web della cooperativa per la quale collabora e i cui proventi sono stati destinati al sostegno di bambini africani10. Più recentemente, le è stato permesso di uscire dal carcere e ogni mattina si dedica alle pulizie presso una struttura vicina che assiste persone anziane11.
Come sostiene Cesare Beccaria, filosofo e giurista italiano del XVIII secolo, nel suo celebre e innovativo trattato Dei delitti e delle pene (1764), la pena deve avere una funzione rieducativa piuttosto che punitiva, in grado di promuovere la prevenzione dei crimini attraverso la riforma del colpevole. Purché sia utile, proporzionale12 e riabilitante, il coinvolgimento in attività lavorative rappresenta per lui una delle modalità più efficaci per raggiungere tale scopo, contribuendo a ridurre l’alienazione e il risentimento che spesso accompagnano la detenzione. Consapevoli del fatto che la sua visione era parte di una più ampia critica al sistema penale del suo tempo, ritenuta da lui crudele, inefficace e ingiusta, possiamo considerare il lavoro uno strumento imprescindibile per umanizzare la pena e trasformarla in un’opportunità di crescita e recupero, piuttosto che in una mera punizione.
Introdurre le persone recluse ad un’attività da svolgere durante la detenzione promuove un senso di dignità e riscatto personale: essere impegnati e produttivi consente ai detenuti di contribuire positivamente alla società, spesso attraverso la realizzazione di beni o servizi utili. Oltre a potenziare la percezione che hanno di sé stessi, questo contributo migliora anche quella che la comunità esterna ha di loro; infatti, la possibilità di lavorare e guadagnare legalmente favorisce il processo di reintegrazione, creando un legame più forte tra gli ex carcerati e la società, e dimostrando che è possibile intraprendere un percorso di vita lontano dal crimine.
Un impegno lavorativo, dunque, non solo offre loro un’opportunità di riscatto personale, ma rappresenta anche un passo fondamentale verso il reinserimento sociale, dando prova di come il lavoro in carcere possa svolgere un ruolo cruciale nel processo di riabilitazione e nella costruzione di una nuova identità personale.
Alla fine, il lavoro non è solo uno strumento economico, ma una via per riscoprire dignità e speranza. Quando un ex detenuto riesce a trovare un’occupazione, non sta solamente guadagnando uno stipendio: sta ricostruendo la sua identità, ritrovando un posto nella società da cui si era sentito escluso. Ogni passo, ogni giornata di lavoro, è un mattoncino con cui ricostruire la propria vita su fondamenta nuove e solide. Ed è in quei momenti, quando persone un tempo recluse iniziano un percorso lontano dalle vecchie abitudini, che si cela il vero potere della reintegrazione: un ex detenuto reinserito dovrebbe essere un consueto atto di giustizia, poiché la società ha il dovere di garantire una seconda possibilità a chiunque abbia scontato la propria pena regolarmente.
Note
- Ministero della giustizia, Impresa: avviare un’attività in carcere, consultato in data 20/05/2024 all’indirizzo https://www.giustizia.it/giustizia/page/it/avviare_attivita_produttiva_in_carcere#
- Andrea Oleandri, “Lavorare nelle carceri è un’impresa” in Lavialibera.it, 26/04/2024, consultato in data 20/05/2024 all’indirizzo https://lavialibera.it/it-schede-1820-lavorare_nelle_carceri_e_un_impresa
- Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione, lavoro e formazione di Associazione Antigone consultato il 20/05/2024 all’indirizzo https://www.rapportoantigone.it/ventesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/lavoro-e-formazione/
- Ibidem
- Andrea Oleandri, “Lavorare nelle carceri è un’impresa” in Lavialibera.it, 26/04/2024, consultato in data 20/05/2024 all’indirizzo https://lavialibera.it/it-schede-1820-lavorare_nelle_carceri_e_un_impresa
- Ibidem
- Ibidem
- Sabrina Misseri e Cosima Serrano intervistate da Franca Leosini per Storie Maledette, puntata del 18/03/2018
- Rosa Bazzi intervistata da Franca Leosini per Storie Maledette, puntata del 16/12/2018
- Ibidem
- Giusi Fasano, “Rosa Bazzi e le pulizie per una coop: via dalla cella ogni mattina alle sette”, in corriere.it 24/02/2024, consultato in data 20/05/2024 all’indirizzo https://www.corriere.it/cronache/24_febbraio_24/via-cella-ogni-mattina-sette-rosa-bazzi-pulizie-una-coop-70acff4a-d34d-11ee-b53c-ea0e0e27df2e.shtml
- Secondo Cesare Beccaria, il lavoro svolto dai detenuti doveva contribuire alla produzione di beni o servizi che avessero un valore reale, inoltre la quantità e la qualità del lavoro dovevano essere proporzionate al reato commesso.
di Alice Borghi
9 to 5
Editoriale · L’Eclisse
Anno 4 · N° 2 · Maggio 2024
Copertina di Maria Traversa.
Hanno partecipato alla realizzazione di questo editoriale: Greta Beluffi, Bianca Beretta, Alice Borghi, Matteo Capra, Michele Carenini, Chiara Castano, Ginevra Cesati, Anna Cosentini, Joanna Dema, Clara Femia, Mariairene Fornari, Eugenia Gandini, Chiara Gianfreda, Nikolin Lasku, Rosamaria Losito, Matteo Mallia, Laura Maroccia, Alessandro Mazza, Marcello Monti, Edoardo Naggi, Valentina Oger, Erika Pagliarini, Matteo Paguri, Virginia Piazzese, Lorenzo Ramella, Luca Ruffini, Gioele Sotgiu, Tommaso Strada, Vittoria Tosatto, Marta Tucci, Marta Urriani.