Alcunə si svegliano, fanno colazione, si preparano e vanno a stare seduti dietro una scrivania per otto o nove ore di lavoro. Ci sono altrə che non svolgono classici mestieri burocratici, come impiegatə turnistə, quellə esclusivamente notturnə e chi, in ufficio, non lavora proprio. Che cos’hanno in comune queste categorie di lavoratorə?
Semplicemente la pesantezza di una società che si è totalmente distaccata dal concetto originale di lavoro1 e, come si suol dire, non “lavora per vivere”, ma “vive per lavorare”. Il lavoro a cui oggi siamo abituatə rappresenta un’attività prevalentemente autorealizzativa che viene definita come «dimensione irrinunciabile della condizione umana, della sua espressione e del suo sviluppo, della sua cooperazione alla costruzione del bene comune»2. Ancora, viene descritto come «una forma di espressione della persona che da sola non è capace di rispondere ai propri bisogni materiali»3.
Da queste definizioni possiamo concludere che il soggetto può realizzarsi solo attraverso il lavoro, qualcosa di cui non si può fare a meno e attraverso il quale riceviamo una forma di riconoscimento, come promozioni, titoli d’impiego altisonanti o validazione sociale. L’Io è stato inglobato in questa nozione dell’occupazione, finendo con l’esaurirsi in essa: chi sono Io se non lavoro? Infatti, in assenza di questo diritto e dovere, non solo si è impossibilitatə a sopravvivere in un mondo profondamente capitalista (dove il proprio valore in quanto persona dipende anche da quanto si possiede e quanto si spende), ma non si riesce neanche ad investire in sé stessə coltivando hobby, nutrendo passioni e relazioni di qualsivoglia forma, dal momento che è necessario una minima quantità di denaro anche per prendere parte ad attività sociali.
Senza un lavoro, il soggetto resta isolato e incapacitato: non avendo denaro con il quale capitalizzarsi, allora non può migliorarsi, ovvero vendersi al pari di un prodotto all’interno dello stesso sistema. Dunque, viene costretto di un peso psicologico non indifferente. In questo quadro di eventi, in effetti, viene esercitato intenso gaslighting4 (forma di manipolazione psicologica volta a far dubitare dei propri pensieri o percezione della realtà) sulla persona, che, senza un’occupazione soddisfacente che le garantisca una vita dignitosa, si etichetterà come fallimento o non sufficientemente valevole in quanto essere. Agente di questo gaslighting è la società, la quale è radicata nel concetto di performance lavorativa.
Senza sfociare in un’indagine storica o sociologica in merito allo sviluppo del mondo contemporaneo in senso capitalistico, è inevitabile osservare come la nostra generazione è particolarmente colpita da questo fenomeno psicologico, motivo per il quale inizia a percepirsi come investimento su cui doversi concentrare. Quantə di noi hanno perseguito studi accademici avanzati? Chi non ha mai seguito corsi di qualsivoglia tipo? Sono tantissime anche le persone che, per prendersi cura del proprio corpo, hanno speso soldi in skincare, trucchi, vestiti. E non sono forse investimenti per rendersi migliori, più piacenti? Che siano azioni intraprese per noi stessə o causa di norme o costrutti sociali, subiamo ogni giorno pressioni per poter diventare le versioni migliori di noi.
Non a caso, il concetto di lavoro nel 2024 vuole solo la versione migliore dell’individuo, il quale deve essere giovane, con varie esperienze alle spalle, sano sia mentalmente che fisicamente. E cosa fare se non si rientra in tutti questi parametri? Lasciamo la domanda in sospeso e limitiamoci a pensare che, in un mondo che esige la perfezione (ammesso che esista), deve essere dato spazio anche a ciò che si discosta da essa; a questo riguardo, è necessario constatare che, pian piano, le imperfezioni delle persone non vengono più ignorate. Se da un lato la nostra generazione è la più afflitta da questa condizione di necessaria perfezione–necessari miglioramenti, dall’altro ci stiamo consapevolizzando ed emancipando da tale logica. In altre parole, stiamo diventando capaci di trovare vie alternative entro cui combattere questo sistema oppressivo: in particolare, lo facciamo comunicando quotidianamente ed esternando le nostre sensibilità. Abbiamo creato una cultura che trova gusto sia nella leggerezza (ne abbiamo la dimostrazione ogni giorno sui social media), sia nel combattere per le proprie diversità.
Proprio nei social osserviamo questo dualismo per il quale, nel primo caso, abbiamo fenomeni come i memes: è risaputo che l’umorismo della Generazione Z (nati tra i tardi anni 1990 e gli inizi degli anni 2010) venga definito broken (letteralmente “rotto”), ossia si tende a trovare divertente qualcosa che di base non lo sarebbe affatto. Per averne prova, basta aprire TikTok: non ci vorrà tanto tempo prima di trovarsi davanti a video senza senso con qualche canzone in sottofondo sconnessa dal contesto del contenuto. Nel secondo caso, l’ambiente mediatico è utilizzato per aprirsi al pubblico, raccontare le proprie esperienze e, allo stesso tempo, sensibilizzare nei confronti di certi temi – come ci mostra Flavia Carlini, autrice, divulgatrice e attivista politica. Nei suoi profili Instagram (302.000 follower) e TikTok (233.000 follower), prende a cuore anche il tema del lavoro, denunciando le criticità e le proposte governative e contribuendo ad aprire occhi e mente di moltissime persone.
Insomma, viviamo in un periodo difficoltoso durante il quale ci teniamo saldamente a qualsiasi cosa pur di resistere. Cerchiamo di trovare il nostro posto in un mondo spesso opprimente: per farlo, ci aggrappiamo gli uni agli altri ridendo, discutendo e cercando di vivere appieno, senza alienarci alle aspettative della società e senza sottostare ad un concetto di lavoro sempre più sconnesso da quello di umanità.
Note
- Lavoro (punto 2), in “Treccani”, https://www.treccani.it/vocabolario/lavoro/.
- Lavoro, in “Dizionario di sociologia per la persona”, a cura di T. Marci e S. Tommelleri, FrancoAngeli editore, 2021.
- Ibidem.
- Gaslighting, in “Treccani”, https://www.treccani.it/vocabolario/neo-gaslighting_(Neologismi)/.
Erika Pagliarini
Mi chiamo Erika, nata nel 2001 praticamente con la penna in mano. Attualmente studio
Filosofia a Pavia ma posso considerarmi da sempre appassionata di arte e scrittura, motivo
per il quale ho deciso di percorrere una strada affine ai miei interessi aggiungendoci un
tocco di trash e riflessioni personali. Spaziando tra cinefilia, disegno e lettura adoro sfruttare
i miei interessi e ricavarci storie personali che possano colpire gli altri e dare espressione ai
miei pensieri.