Tubino or not tubino
Il mondo della moda, soprattutto negli anni Ottanta, ha spesso accolto figure che cercavano bellezza formale e lusso senza compromessi: Giorgio Armani con il power dressing, Valentino con gli abiti da sera, Gianfranco Ferré, Gianni Versace e Krizia. Poi, c’è stato Franco Moschino, un creativo visionario mai pienamente compreso che ha sfidato ogni convenzione, rifiutando le regole non solo della sartoria ma anche del pensiero del sistema moda. Erede di un surrealismo che tanto sarebbe piaciuto a Elsa Schiaparelli, attraverso un uso dissacrante dell’ironia, Moschino ha trasformato l’abbigliamento in uno strumento di critica sociale e culturale, facendo del suo brand una vera e (piuttosto) violenta dichiarazione politica.
Uno degli aspetti più distintivi del suo lavoro è il suo approccio ironico e spesso satirico alla moda. La sua intenzione non era solo quella di creare abiti belli e confezionati bene, ma di usare la moda come mezzo per esprimere messaggi profondi sulla società, il consumismo e l’industria stessa. Moschino non si limitava a sfidare il concetto di bellezza, ma puntava il dito contro l’élite della moda e il culto dell’apparenza: aveva una straordinaria abilità nel reinterpretare i simboli della cultura popolare e dar loro un nuovo significato. Gonne di cravatte, camicie bianche con maniche lunghissime legate sulla schiena a ricordare una camicia di forza, giacche con la Gazzetta dello Sport stampata sopra, l’elenco potrebbe essere infinito come infinita era la sua capacità di reinventare sé stesso e i suoi spettacoli. Le sue sfilate sono state un teatro nel quale si mescolavano ironia, provocazione e sorpresa. Memorabile fu la sua ultima, nell’ottobre del 1993, in cui da dietro le quinte spingeva le modelle ignare sulla passerella, presentandole come bambole barcollanti a sfregio della perfezione rarefatta degli altri défilé. Oggetti comuni come i semafori, i segnali stradali e le posate diventavano parte integrante delle sue collezioni, trasformando il banale in alta moda.
Franco Moschino non ha mai avuto paura di prendere in giro i colleghi, anche quelli morti. Coco Chanel ha indubbiamente rivoluzionato la storia della moda, ma Moschino non ha avuto problemi, nel 1991, a canzonarla con una giacca in tweed, tipica della maison Chanel, con una mucca ricamata sulla schiena, come a infangare il desiderio perenne di presentare una donna sempre elegante e composta. Ben conscio della condizione femminile nella società, sapeva bene che alle donne si è sempre richiesto il doppio per raggiungere gli stessi risultati degli uomini, e nelle interviste, alla domanda «cosa non dovrebbe mai mancare nel guardaroba di una donna?», se i colleghi rispondevano parlando di camicie bianche e giacche grigie, lui diceva: «un jeans da uomo, una camicia da uomo, un cappello da uomo e un grande desiderio di essere una donna». «Se non puoi essere elegante, almeno sii stravagante» ripeteva costantemente nelle sue collezioni, trovando sempre più interesse nella follia di una giacca con uova fritte ricamate sulle tasche che nella quotidianità di un tubino nero. Mentre molto spesso l’eleganza impedisce la stravaganza, la stravaganza non impedisce l’eleganza, e i suoi capi lo dimostravano; confezioni perfette, tessuti pregiati, rifiniture curate, la donna Moschino era una donna con gusto per le “cose belle”, ma che non aveva alcuna intenzione di prendersi sul serio.
Mai pienamente accettato dal sistema – nonostante il suo successo –, fu spesso emarginato dai colleghi e dalla stampa che gli riservava poche righe e poche foto quasi a voler nascondere la sua critica, giudicata troppo violenta e invasiva. Un pensiero naturale questo, nel momento in cui Moschino la sua critica la scriveva chiaramente nero su bianco sulle t-shirt in crepe di seta, con messaggi chiarissimi come “Good taste doesn’t exist”, “Stop the fashion system” o il geniale “Tubino or not Tubino”, che prendeva in giro i codici di abbigliamento formali del mondo della finanza e dell’industria milanese di quegli anni. Da questa critica non risparmiava neanche sé stesso, giocando col suo cognome nelle tshirt “Mo-schifo”, o usando sé stesso come unico modello delle campagne pubblicitarie. Moschino non ha mai visto la moda solo come abbigliamento, piuttosto come un’esperienza performativa nella quale il corpo umano diventava una tela su cui dipingere concetti complessi e provocatori. Le sue sfilate erano veri e propri spettacoli teatrali, dove il confine tra arte e moda era volutamente sfumato. Lo stilista invitava il pubblico a ridere di se stesso, a riflettere su cosa significasse davvero esprimersi attraverso l’abbigliamento e a decostruire l’immagine di perfezione associata all’industria.
Franco Moschino morì di AIDS nel 1994, a soli 44 anni, ma la sua visione creativa è sempre stata portata avanti nel brand dalle successive direzioni creative, prima dal suo fedelissimo braccio destro, nonché amica di una vita, Rossella Jardini, in seguito dal designer americano Jeremy Scott e ora, da quasi un anno, da Adrian Appiolaza, abilissimo nel ricodificare in chiave contemporanea la sua critica. Il suo contributo va oltre il mondo del design: Franco Moschino ha insegnato a un’intera generazione di stilisti e appassionati di moda che il lusso non deve prendersi troppo sul serio, e che l’abbigliamento può, e deve, farci riflettere oltre che apparire. Franco Moschino ha dato alla moda una nuova voce, una voce che sfida, provoca e fa riflettere, mantenendo però sempre una leggerezza e un senso del gioco che pochi altri stilisti sono riusciti a eguagliare. La sua moda non è mai stata solo una questione di stile, ma una vera e propria rivoluzione culturale.
di Luca Ruffini