Disperatamente “non alla moda”
Recensione di Contro la moda – Un manifesto di Anouchka Grose
Ho un rapporto complesso con la moda. Ne apprezzo il lato creativo e la considero una forma artistica a tutti gli effetti. Eppure non riesco a discostarmi dalle insicurezze che essa provoca; non credo che la moda, intesa non semplicemente come gusto ma come industria, sia un sistema sostenibile a lungo termine, sia in termini ecologici che mentali. Se consideriamo la quantità di pressione posta soprattutto sulle donne e su certi standard di bellezza, inarrivabili perché costantemente mutevoli, o i pregiudizi che certi stili di abbigliamento veicolano (it girl, nerd, emo, eccetera), per non parlare di lavoro sottopagato e ai limiti dello sfruttamento, la moda, soprattutto di recente, non gode di una reputazione a dir proprio “cristallina”. Dunque, quando si è presentata l’occasione di leggere un libro intitolato proprio “contro la moda”, la mia curiosità è stata stuzzicata. Per tale occasione, ringraziamo Wudz Edizioni per averci fornito una copia: questa nuova e promettente casa editrice è una costola di Woodworm, etichetta discografica aretina e indipendente. La loro identità è già molto chiara nonostante la giovane età: si definiscono “un fatto inatteso che apre alla possibilità di mondi nuovi, ibridi, sconosciuti”, un po’ come la balena che vola sopra la foresta del loro logo. La traduzione di Fashion: A Manifesto (il titolo originale) è a cura di Lucia Coco.
Anouchka Grose è una scrittrice e psicanalista australiana, autrice per The Guardian e BBC. Ha lavorato per diversi anni nel mondo della moda e, data questa sua grande passione, nei suoi studi di psicanalisi si è interessata soprattutto agli aspetti che riguardano il vestire. Per citare Harper’s Magazine, “Grose vuole cambiare il nostro approccio, rivederlo, in modo che possiamo conservare la nostra gioia per i vestiti senza distruggere il pianeta”. Il modo in cui Grose parla del sistema della moda (lo definisce “rizomatico” e non gerarchico) è simile alla struttura di questo libro: i capitoli sono piuttosto brevi e concisi e non seguono un particolare ordine di importanza. Oltre a mettere meno in soggezione rispetto a leggersi un tomo con un indice di tre pagine divise a elenco puntato e macroargomenti, la sensazione è di poter consultare questo volume aprendo a una pagina a caso, come se il lettore si trovasse davanti a una grande mappa concettuale i cui elementi sono tutti collegati da fili. Grose non si propone come il nuovo faro guida del XXI secolo per salvarci dal mare in tempesta del fast fashion, influencers e standard inarrivabili. La scrittrice e psicanalista dichiara fin dalle prime pagine il suo “improbabile scopo”, ovvero la difficoltosa difesa della moda nel contesto paradossale di “un futuro minacciato proprio dalla cosa che si sta cercando di salvare”. Difatti, “L’industria dell’abbigliamento rappresenta il dieci percento delle emissioni di biossido di carbonio del mondo”; per fare un paragone, il traffico aereo arriva “solo” al 2,4%. “La produzione di capi di abbigliamento è anche responsabile del venti percento delle acque reflue del mondo, senza contare le diffuse violazioni dei diritti dei lavoratori, oltre al suo ruolo nell’agricoltura industriale per la produzione di lana e cuoio”. Grose lo dice chiaro e tondo: “La cosa più sensata da dire sulla moda è, quindi: «Basta!»” Se a dircelo è proprio una persona che di moda se ne intende, significa che una rivoluzione dall’interno è meno inarrivabile di quanto crediamo.
In fondo, la moda si approfitta di noi. Non solo sfrutta le nostre insicurezze per farci spendere denaro e alimentarsi, ma piuttosto ne crea periodicamente di nuove dal nulla pur di continuare a produrre e guadagnare. D’altronde, si tratta di soddisfare dei desideri, e il modo più veloce e redditizio per farlo è fare da sé, ovvero: inventare nuovi trend, fare in modo che questi ultimi vengano considerati ambìti e sostenere ciò da più fonti possibili, in modo da dimostrare autorevolezza. Aggiungi qualche influencer e il gioco è fatto, il desiderio diventa vera e propria necessità. Una delle domande che Contro la moda si pone è proprio “[…] se finalmente acconsentissimo a smettere di generare desiderio per abiti non necessari, cosa rimarrebbe della moda? è questo tutto ciò che la moda è?”.
L’incoerenza della moda ci tiene in scacco. Come nei giochi d’azzardo, non sapere in anticipo se vinceremo o perderemo è ciò che alimenta la pulsione. Ci promette di integrarci nella gerarchia sociale e subito dopo ci fa sentire a disagio. (pag. 37)
Tuttora ci immaginiamo che esista un certo gruppo elitario di moderni aristocratici che, come burattinai, detta le regole su ciò che è in o out. Per diverso tempo, è stato così: il gruppo che detiene il potere cambia continuamente il proprio modo di vestire per continuare a distinguersi dalla massa. Per contro, la massa trova modi sempre più ingegnosi ed economici di imitare questi trend e raggiungere, un passo per volta, l’élite. La moda promette di mitigare le rigidità delle gerarchie, ma nella situazione contemporanea più egalitaria essa agisce in modo più subdolo per mantenere in atto i suoi sistemi. Ad esempio, il concetto di “lusso discreto”: una volta, le sneakers erano sinonimo di trasandatezza o di classe lavoratrice, mentre l’eleganza era al polo opposto. Adesso, i super ricchi si vestono in maniera casual e con le scarpe da ginnastica per andare a cena nei ristoranti di lusso, mentre una persona “normale” si metterebbe in tiro, risultando, strano ma vero, fuori luogo. Insomma, la moda offre una scelta, distinguersi o omologarsi. Entrambe le scelte comportano dei rischi: esporsi all’occhio altrui, e quindi ai giudizi, o essere accettatə ma rimanere nell’anonimato.
Questo è solo un assaggio della disamina di Anouchka Grose. L’autrice si occupa anche della difficile definizione del rapporto tra moda e arte, di come i vestiti possono mantenere o sovvertire e influenzare l’ordine sociale (particolarmente interessante il capitolo sulla sottocultura punk), o anche del fast fashion e della dipendenza dallo spreco e continua sostituzione di vestiti. Essendo psicanalista, Grose menziona spesso Lacan e altri studiosi; ho molto apprezzato il concetto di “defamiliarizzazione” e di “inganno” dei vestiti: un capo di abbigliamento può deformare o nascondere il corpo, se ci pensiamo bene. Di conseguenza, non vediamo mai totalmente come sono “fatti” gli altri; da un punto di vista primordiale, diventa quasi impossibile riconoscere chi può far parte della nostra tribù. Alla fine, siamo delle scimmie un po’ evolute (e neanche tanto, per certi versi) a cui piacciono i tessuti colorati e che vanno in paranoia per l’opinione altrui sul proprio aspetto. Contro la moda parla anche di uno dei fenomeni più vicini a noi (e, a mio parere, uno dei motivi per cui vale la pena leggere questo saggio, data la sua recentissima pubblicazione), ovvero l’abbigliamento NFT e, in generale, la moda nel mondo virtuale: come cambia il nostro rapporto con i vestiti se non possiamo percepirli col tatto?
Insomma, da questa grande “mappa concettuale” che è Contro la moda, forse non uscirete con un’opinione definitiva sulla questione, ma di certo con uno sguardo più ampio e meno giudicante (o, perlomeno, più conscio) sulle forze che governano questo strano garbuglio di tendenze, insicurezze, desideri e bellezza che è la moda.
Ringraziamo Wudz Edizioni per la copia stampa. Per maggiori informazioni: https://www.wudzedizioni.com/