“It takes a village“: visioni familiari in Tokyo Godfathers
Kon Satoshi è stato uno dei più grandi auteurs del cinema d’animazione giapponese. Meglio conosciuto per le sue opere disturbanti e non-lineari, come Perfect Blue (パーフェクトブルー, 1997), thriller sulla cultura delle “idol”, l’onirico Paprika – Sognando un sogno (パプリカ,2006) o ancora la serie in tredici episodi Paranoia Agent (妄想代理人, 2004), nella sua filmografia spicca una pellicola che a prima vista sembra una mosca bianca. Parliamo di Tokyo Godfathers (東京ゴッドファーザーズ, 2003), favola natalizia in cui tre senzatetto, dopo aver trovato una neonata abbandonata sul ciglio di una strada, vivranno una rocambolesca odissea urbana per ritrovare i genitori della piccola, con come unico indizio una vecchia fotografia.
Nonostante si discosti dalle ansie orrorifiche e pseudo-freudiane del resto delle sue opere e opti invece per un avvicinamento al gusto occidentale, a partire dalla fonte letteraria a cui si ispira (liberamente) la trama, il romanzo americano Three Godfathers (Peter B. Klyne, 1913), ispiratore anche di numerosi western e commedie hollywoodiane, il film risulta tra i migliori di Kon.
La pellicola si apre con due dei protagonisti tra il pubblico della messa di Natale: Gin, un ex ludopatico che, a malincuore, ha perso i contatti con la moglie e la figlia e si ritrova ad affogare i dispiaceri nell’alcol, e Hana, una donna transessuale che ha lasciato il lavoro da drag queen dopo la morte del compagno. Da subito notiamo le differenze caratteriali tra il burbero Gin e la tenera Hana, nella quale la rappresentazione della nascita del Bambin Gesù risveglia il desiderio di maternità. Entrambi, però, presentano un fondo di cinismo e disincanto rispetto alle loro condizioni, ed ecco che viene rivelato il motivo della loro presenza a messa – non il fervore cristiano, ma la gratuità di un pasto caldo.
Al duo, litigioso ma affiatato, si aggiunge presto Miyuki, una ragazza scappata di casa a sedici anni che da qualche mese vive con Gin e Hana. Non appena il terzetto si completa, già durante i titoli di testa, il tema del destino entra prepotentemente in scena: i protagonisti sfuggono per un pelo a numerosi incidenti mortali nel traffico di Tokyo, senza nemmeno accorgersene.
Ma è il ritrovamento della piccola Kiyoko a scatenare la serie di (s)fortunati eventi in cui incappano i tre Re Magi nipponici. Kiyoko diventa il perno dei loro sogni e dei loro rimorsi: per Gin è la figlia omonima, perduta e poi fortuitamente ritrovata, per Hana è la figlia che non può avere, ma anche un’occasione per rimediare alle colpe di una madre adottiva troppo fredda, per Miyuki è la figlia che lei stessa non riesce ad essere per i genitori.
Gangster, azioni violente di gruppo, strip-club, drag queen, dipendenze, turbe psicologiche dei personaggi: di primo acchito, Tokyo Godfathers sembra spartire con i classici natalizi solo l’ambientazione in una metropoli innevata e colma di luminarie e l’ironia malinconica (co-sceneggiatrice è Nobumoto Keiko, nota ai più per la serie culto Cowboy Bebop, カウボーイビバップ, 1998). Invece, è una delle opere d’arte più accorte nella rappresentazione del grande tema del Natale – la famiglia. Certo, nella maggior parte dei casi non si tratta della famiglia apprezzata dalle destre nostrane: anzi, Tokyo Godfathers sembra porsi l’obiettivo di rappresentare più sfaccettature possibili di quello che possiamo definire “famiglia”.
I tre protagonisti, anche se non hanno un tetto sopra la testa, sono indubbiamente una famiglia per Kiyoko e per se stessi, così come le drag queen del locale dove lavorava Hana sono una grande famiglia, pronta a proteggersi e sostenersi; e, come già detto, ognuno dei personaggi principali deve fare i conti con la propria “famiglia”, questa volta nel senso tradizionale.
Sono numerosi i personaggi che essi incontrano sul loro cammino e che contribuiranno ad allevare la piccola Kiyoko. Gli anglofoni dicono it takes a village to raise a child, “ci vuole una città per allevare un bambino”, un detto che calza perfettamente al piede di Tokyo Godfathers, che già dal titolo palesa l’onnipresenza di una Tokyo ritratta in campo lungo, ad abbracciare e accogliere i suoi quattro flâneurs, così come a temprarli nella rigidità delle temperature e nella violenza dei suoi incroci.
Persino la donna a cui finalmente i senzatetto riescono a consegnare Kiyoko (senza fare spoiler) è portavoce di una famiglia forse lontana da quella più tradizionale. La domanda che assilla lo spettatore durante e dopo la visione di Tokyo Godfathers è proprio cosa significhi questa parola, tanto abusata e strumentalizzata nel discorso politico-moraleggiante: chi è la vera famiglia? Sono più importanti, anche solo paragonabili, i legami di sangue o quelli che formiamo coscientemente nel corso della vita? Ricordiamo che in Giappone il rispetto, la totale deferenza e devozione alle persone più anziane, specialmente ai genitori, è una pietra angolare della cultura e della società.
Come tutti i film intelligenti, Tokyo Godfathers non dà una risposta definitiva ai suoi quesiti e sono sicura che altri spettatori arriveranno a conclusioni diametralmente opposte alle mie. Resta tuttavia l’importanza di porci questi quesiti, di non adagiarci sulle abitudini della nostra società se queste risultano incongruenti alla nostra situazione (ad esempio, magistrale e particolarmente delicata la scelta di Kon di non rivelare se i protagonisti lasceranno la strada e torneranno nell’alveo di una vita socialmente convenzionale, alla fine della vicenda, evitando così di accreditare uno stigma a uno stile di vita a cui, per quanto indubbiamente pieno di difficoltà, i protagonisti e in particolare Gin sembrano essere affezionati). Invece di ingannare lo spettatore con un lieto fine innevato che rinvigorisca l’idea che, se tutto è “come dovrebbe essere”, non c’è motivo perché le cose dovrebbero andare male, Kon decide di dare il grande dono della libertà a chi si approccia alla sua opera: e questo, più di ogni sequenza onirica adrenalinica o di una continuità stilistica nel disegno, è il tratto distintivo del compianto autore.
[…] Credo di aver esterrefatto qualche vecchietta che ha osato sbirciare lo schermo del mio computer, mentre scrivevo l’anno scorso in totale tranquillità, seduta a un tavolino in riva al lago, la recensione di un libro sulla moralità del cannibalismo e delle sue implicazioni oggi. Ebbene, oggi torno con una doppietta letale, non più sull’antropofagia, bensì sul sentirsi “alieni” rispetto alla società e all’impossibilità di inserirvisi (e anche qui, niente di nuovo sul fronte occidentale dei miei articoli). […]