«Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.»
– Totò Merumeni, Guido Gozzano
Albori del Novecento. L’ascesa del capitalismo in Italia porta allo sradicamento dell’ottimismo poetico dannunziano: è il crollo della poetica del superuomo e l’inizio del disagio per gli uomini dal pensiero profondo, inadeguati per una società costruita sul profitto e priva di spazio per l’espressione artistica.
Così alla concezione di D’Annunzio (1863-1938): «Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori»1 e «Il verso è tutto e può tutto»2, si sostituiscono i versi del crepuscolare Guido Gozzano (1883-1916): «vive tra il Tutto e il Niente/questa cosa vivente/detta guidogozzano!»3, vòlti a identificare la totale svalutazione dell’io poeta. Anche Sergio Corazzini (1886-1907), esponente del crepuscolarismo romano, non si discosta da questa visione: «Perché tu mi dici: poeta?/Io non sono un poeta./Io non sono che un piccolo fanciullo che piange (I) Oh, io sono, veramente malato!/E muoio, un poco, ogni giorno (VIII)»4.
Era il tempo del pessimismo artistico: io sono poeta e quindi non appartengo. Ad oggi, un secolo più tardi, il sistema non sembra aver invertito rotta, dispiegando questa immensa tensione di altro (poesia, arte, conoscenza) in un mare troppo mosso per sostenerne la navigazione. Il viaggio inizia già predestinato al naufragio e il consiglio dei razionalisti sarà sempre lo stesso: non ne vale la pena.
Tuttavia, non è sempre stato così: nella classicità, infatti, a detenere il monopolio della formazione umana erano le discipline liberali del trivium, ovvero gli insegnamenti umanistici di grammatica, retorica e dialettica, contrapposti a quelli del quadrivium (aritmetica, geometria, aritmetica e musica), di impianto scientifico. A differenza di questi ultimi, le discipline umanistiche erano ritenute sufficienti per accompagnare l’uomo nel corso della vita. Per un sistema che ora risuona con sarcasmo, erano proprio le attività a scopo di lucro, le artes mechanicae, a soffrire di inferiore dignità, proprio a causa del profitto al quale erano volte. Scrisse Seneca: «Le arti liberali sono le attività degne dell’uomo libero», definizione più tardi risemantizzata in: «Discipline che liberano l’anima dell’uomo». La dimensione umana era privilegiata rispetto a quella economica, il sapere non era visto in difetto e l’uomo letterato non aveva le colpe che i crepuscolari del Novecento iniziano ad accusare.
Gozzano spia il cambiamento sociale mediante un pessimismo che riflette nell’uso di ironia e nell’abbassamento di toni, e fornisce ritratti d’ispirazione biografica, come quello sopra riportato di Totò Merumeni, nei quali ancora oggi è facile rispecchiarsi. In questi quadri amalgama la freddezza della disillusione allo snobismo intellettualistico, spiega l’inettitudine non scelta dall’io ma dal tempo e descrive l’attaccamento a una consolazione, rosa spinata, che diventa nient’altro che mera inutilità: la poesia.
Lo stesso sistema editoriale contemporaneo ci inganna, intrecciando la componente estetica delle opere all’imprescindibile economica. Il valore del prodotto non si lega più alla ricchezza del contenuto, bensì al valore di scambio. Il pregio dell’originalità più azzardata trema sotto le scelte editoriali volte ad evadere il rischio d’impresa. La Bellezza in quanto tale cessa di esistere perché sostituita da una convenzionalità di trame etichettate in generi definiti. Il pubblico non ha pretese, il pubblico si annoia, il pubblico non conosce la Bellezza e quindi non si sforza nemmeno di cercarla, perché Bello è concettuale e richiede attenzione. Il pubblico chiede di evadere in facilità, chiede di provare emozioni più forti, ma senza conoscerne l’apice: l’assuefazione alla poetica, infatti, nasce dall’assuefazione all’emozione e alla necessità di vederla rappresentata, seppur nella gamma limitata delle parole. È un contatto, questo, che il grande pubblico ha smesso di cercare. Non cerca poeti, non cerca il superuomo né il sensibile, bensì l’intrattenitore.

L’assenza di canoni, nel panorama poetico contemporaneo, ricalca la difficoltà di affermazione. Così la malinconia dell’io creativo si ritrova amplificata in triplice modalità: per personale tensione dell’artista, per l’orizzonte dell’oggi che non trova più spazio per la poesia sugli scaffali, e infine per l’instabilità della stessa dimensione letteraria. Infatti poesia può configurarsi con tutto come con niente, e il tutto può apparire privo di senso ma intriso di genialità, come contorto a tal punto da risultare sforzo vano e patetico, frutto di una mente con aspirazioni non all’altezza. L’ampio e stratificato ventaglio di lettori che vanta la modernità si trasforma in ulteriore ostacolo: l’umanità in senso stretto non è più rappresentabile e si ritrova costretta a cedere sotto al peso di classi di pubblico elitarie, che l’autore deve individuare e accontentare nella speranza di raggiungere il successo.
Nel nostro secolo, chi cerca la Bellezza – valore artistico svincolato dall’utile – è solo un ostinato che fantastica nel suo universo astratto, il folle che non riesce a identificarsi col presente e si sente estraniato, come introduce Woody Allen attraverso Gil (Owen Wilson), protagonista del suo Midnight in Paris (id., 2010): uno sceneggiatore con ambizioni più alte e incomprese, schiacciato in una vita che non gli appartiene e teso verso un passato che sente più consono a sé. Gil è in tutti coloro che hanno scelto di votarsi all’emozione e al sollievo dell’anima, gli sbagliati di questo tempo, i sognatori che dovrebbero stare coi piedi per terra, quelli che di come funziona il mondo hanno capito ben poco.
Eppure il presente, basato sul rapporto domanda-offerta più che su quello interpersonale, racchiude tutti. Molti non vedono nemmeno le sue sbarre di finzione e forse è proprio il sognatore incompreso l’unico capace di trasfigurare la prigione, di immaginarsi altrove e di percepire i colori al di fuori. Perché la poesia nasce dalla volontà di esprimere verità, dalla necessità sentita dall’artista di sollevare l’illusorio velo di Maya5, di cogliere il nulla sottostante alla fittizia realtà, di vedere oltre. L’unico davvero libero, quindi, rimane il poeta.
«Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in sé stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la vita dello Spirito che non intese prima.
Perché la voce è poca, e l’arte prediletta
immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va.
Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.»
Bibliografia
- Le Vergini delle rocce (1895), D’Annunzio, ed. BUR 2010
- Il piacere (1889), D’Annunzio, ed. Oscar Mondadori 1976
- La via del rifugio (1907), Gozzano ed. Gozzano: Tutte le poesie, Newton Compton Editori, 1993
- Desolazione del povero poeta sentimentale dalla raccolta Piccolo libro inutile (1906), Sergio Corazzini ed. Poesie, BUR classici 1999
- Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), Schopenhauer

di Silvia Loprieno
Silvia Loprieno, al primo anno della facoltà di Lettere Moderne all’Università Statale di Milano. Comincio ogni presentazione su di me con la citazione di Oscar Wilde: «definire è limitare», che è soltanto un modo un po’ originale per giustificare la breve banalità del resto. Mi attrae tutto ciò che trovo particolare, tutto ciò che ritengo arte. Scrivo da sempre per esprimermi ed esprimere concetti dalle aspirazioni filosofiche, concepiti dalla mia testa un po’ per caso.