Nel meraviglioso mondo dell’Internet, mi è spesso capitato di rapportarmi con persone che si lanciavano in definizioni alquanto personali di “femminismo”. Queste definizioni non coincidevano affatto con l’idea che io stessa, autodefinitami femminista già all’età di sei anni, ho del movimento. Tuttavia, nel cercare di correggere le descrizioni fallaci degli accaniti commentatori di Instagram, ho realizzato di avere cambiato idea varie volte, nel corso del mio percorso di formazione femminista, su cosa fosse il movimento e su che cosa significasse “essere femminista”. Anch’io, dunque, ho dovuto pormi la fatidica domanda: che cos’è il femminismo? La risposta, credo, è una sola: dipende.
Già, perché più che di femminismo, in realtà, sarebbe più corretto parlare di femminismi, al plurale. Questi vari femminismi hanno punti in comune, ma talvolta si trovano in forte contrasto tra loro su alcune tematiche e persino su alcuni obiettivi che dovrebbe avere il “movimento femminista” (termine ombrello usato, più o meno consciamente, per riunire le varie correnti di pensiero).
Partiamo, dunque, dalle basi, se non altro per potere avere un articolo a cui reindirizzare, in futuro, i cari mansplainer digitali che vogliono farmi credere di non aver capito nulla del movimento e di essere io stessa complice, in realtà, di una congiura marzolina ai danni degli uomini .
1. Non chiamatele “suffragette”
Che ci crediate o meno, nel corso degli anni mi è capitato di trovare vari individui che sostenevano che quello odierno non sia femminismo, ma qualcos’altro (generalmente amano usare la parola ‘misandria’). Questa teoria si baserebbe sulla definizione del dizionario del termine stesso. Cito da Treccani:
femminismo s. m. [der. di femmina]. – Movimento di rivendicazione dei diritti delle donne, le cui prime manifestazioni sono da ricercare nel tardo illuminismo e nella rivoluzione francese; nato per raggiungere la completa emancipazione della donna sul piano economico (ammissione a tutte le occupazioni), giuridico (piena uguaglianza di diritti civili) e politico (ammissione all’elettorato e all’eleggibilità), auspica un mutamento radicale della società e del rapporto uomo-donna attraverso la liberazione sessuale e l’abolizione dei ruoli tradizionalmente attribuiti alle donne.
Attraverso un’interpretazione altamente soggettiva ed arbitraria, nonché ignorante le origini storico-ideologiche illuministe del movimento (la povera Olympe de Gouges non viene quasi mai citata), alcuni considerano “femminismo”, dunque, solo e soltanto il movimento suffragista sviluppatosi in vari Paesi, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America in testa, tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e gli anni ’20 del Novecento. Insomma, Mary Wollstonecraft si metta il cuore in pace: arrivate le flapper girls e le vamp, le donne non hanno più bisogno del femminismo e la loro rivendicazione può cessare. La guerra è finita, il cielo è sereno, gli uccellini cinguettano e le donne hanno i loro diritti: che mondo meraviglioso!

O forse no. Come detto, questa visione del femminismo è estremamente eufemistica, sia sul piano geografico, che su quello storico, in quanto riduce il movimento solo a quella che viene comunemente definita “prima ondata” (first wave), con una lente fortemente occidentalista. Se è vero, infatti, che le prime rivendicazioni della parità fra sessi sono direttamente collegate agli ideali della Rivoluzione francese e alle nuove condizioni di lavoro create dalle necessità economiche della Rivoluzione industriale, non bisogna dimenticare che movimenti suffragisti nascono anche in Medio e Vicino Oriente, nonché in alcuni Paesi africani. Pensare che gli obiettivi delle suffragiste (attenzione! Suffragiste, non suffragette, termine dispregiativo creato dalla stampa inglese all’inizio del Novecento) siano stati raggiunti con l’accordo del diritto del voto in America (1920) e nel Regno Unito (1918-1928) significa ignorare, da una parte, che questo diritto venne riconosciuto solo alle donne bianche; dall’altra che, nel resto del mondo, questa conquista fu molto più tardiva o addirittura non si realizzò. Ricordiamo che l’ultimo Paese a riconoscere il diritto di voto alle donne è stato l’Arabia Saudita, nel 2011.

Inoltre, stereotipi apparentemente “liberati sessualmente”, come le già citate flapper e vamp, sono esattamente questo: stereotipi, tipi sociali riscontrabili più nei media del periodo che tra le strade cittadine – per non parlare dei centri lontani dalle grandi metropoli industriali. È vero che la Prima Guerra Mondiale aveva costretto le donne a sostituire al lavoro, anche in ruoli di comando, gli uomini partiti al fronte, così come è vero che, almeno in Occidente, le spinte emancipazioniste avevano portato ad una moda dalle linee semplici e non attillate, in netto contrasto con i dettami dell’era conclusasi con la fine del conflitto. Bisogna però precisare che, una volta riconvertite le fabbriche e rientrati i soldati, le donne furono nuovamente relegate al focolare domestico, quelle più “libertine” venivano giudicate immorali (noterete come, nei film degli anni ’20 e ’30, la donna single debba per forza sposarsi o morire entro la fine della pellicola) e anche la moda, in realtà, torna presto ai capi che esaltano le forme femminili e all’intimo stringente. Tutto ciò è un risultato delle politiche generalmente conservatrici sviluppatesi tra le due guerre, specialmente dopo la crisi del 1929, di cui l’esempio più estremo sono sicuramente i fascismi europei e sudamericani.
2. “Ragazze perbene” in marcia

La Seconda Guerra Mondiale ripropone il sovvertimento dei ruoli sociali già riscontrato tra il 1914-1918: le donne, almeno nei Paesi Alleati, tornano a sostituire i soldati sui luoghi di lavoro, in Unione Sovietica alcune entrano a far parte dell’Armata Rossa e nei Paesi occupati dal nazifascismo o da governi-fantoccio (Italia, Francia, Germania, Polonia…) le Resistenze nazionali possono contare su un largo appoggio femminile. Se i partigiani non furono particolarmente paritari nel trattare le proprie alleate, l’esperienza delle Resistenze fu sicuramente importante per rivendicare la partecipazione delle donne alla società e alla politica: in Italia, il suffragio femminile sarà approvato ancora prima della fine della guerra e verrà esercitato per la prima volta nel 1946, con il referendum che sancirà la nascita della Repubblica.

Durante gli anni ’40 e ’50, in Francia, Simone de Beauvoir, pur non definendosi propriamente “femminista”, ma “esistenzialista”, comincia a scrivere testi che diventeranno centrali nella formazione intellettuale della seconda ondata femminista, da Memorie di una ragazza perbene al Il secondo sesso, letto come un vero e proprio manifesto. Sarà tuttavia la generazione successiva, a partire dagli Stati Uniti d’America, a dare il la alla seconda fase del movimento. Pioniere come Gloria Steinem e Angela Davis concentrano la loro lotta sul ruolo della donna in una società formalmente democratica ed egualitaria, ma in realtà ancora marcata da discriminazioni profonde. La lotta femminista si dirama e si interseca con le lotte ambientalista, anti-colonialista, anti-razzista e del movimento LGBTQ+ tra il finire degli anni ’60 e gli anni ’80. Soprattutto, dopo la legalizzazione della pillola anticoncezionale, uno dei temi preponderanti diventa la liberazione sessuale: tuttǝ abbiamo presente le immagini di donne che bruciano i propri reggiseni, o quelle della Summer of Love.
In generale, viene mossa una critica alla «famiglia nucleare» promossa dai governi degli anni ’50 e alla morale perbenista delle generazioni precedenti. Conquiste importanti del periodo saranno, ad esempio, la legalizzazione dell’aborto (in testa troviamo le femministe francesi e le loro marce, a cui partecipa anche de Beauvoir), l’abolizione della patria potestà (in Italia nel 1975, insieme alla legalizzazione del divorzio) e l’abolizione del delitto d’onore (sempre in Italia, nel 1981).
Verrebbe da pensare che la seconda ondata femminista fosse strettamente legata alla sinistra occidentale: sì e no. Molte delle battaglie femministe furono effettivamente appoggiate dai partiti progressisti, ma vi furono anche correnti che si distaccarono dalla sinistra tradizionale. Ad esempio, ci fu un nuovo picco di popolarità del femminismo anarchico, nato alla fine dell’Ottocento, e di quello radicale. È proprio in questo periodo, infatti, che si comincia a parlare di “patriarcato” e si iniziano ad individuare le radici della discriminazione di genere nelle fondamenta della società occidentale stessa. È interessante notare, a questo proposito, come molti movimenti femministi orientali o di area araba comincino a rifiutare alcuni dettami delle correnti occidentali: ad esempio, sono numerosissime le donne a favore della Rivoluzione iraniana del 1979, nonché della reintroduzione del velo obbligatorio, visto come un simbolo di distacco dall’oppressione neocoloniale. Purtroppo, la strumentalizzazione in senso fondamentalista della rivoluzione compiuta dall’ayatollah Khomeini riportò le donne ad una condizione subordinata e discriminata che permane, in parte, tutt’oggi.
Sempre negli anni ’70 l’attenzione si sposta sulla critica al ruolo della donna-madre all’interno della famiglia e la percentuale di donne lavoratrici aumenta esponenzialmente nei decenni successivi.

3. Funambole, ragazze ribelli e nuovi femminismi
La terza ondata femminista si individua generalmente nei movimenti girl power, riot grrrls e nella “mainstreamizzazione” della lotta di genere negli anni Novanta.
Da una parte, nasce una visione del femminismo fortemente individualista, che individua nella realizzazione personale, specialmente in campo lavorativo ed economico, un’operazione di liberazione dal patriarcato. Si sviluppa anche la concezione di rivendicazione del proprio corpo e della propria sessualità in opposizione allo sguardo sessualizzante patriarcale, marcando una sorta di seconda liberazione culturale che, tuttavia, è ancor oggi al centro di dibattiti tra varie correnti femministe. La lotta di genere comincia anche a essere fortemente monetizzata, tramite la creazione di modelli “empowering” (più o meno solo sulla carta) nella cultura popolare.
Dall’altro lato, invece, il discorso accademico porta sempre più in risalto i temi dell’intersezionalità – cioè del riconoscimento di intrinsechi legami tra patriarcato, razzismo, eteronormatività, abilismo e capitale – e della cultura dello stupro. Quest’ultimo tema esploderà in seguito al movimento #MeToo del 2016, che alcunǝ vedono come l’inizio di una quarta ondata femminista, la cui caratteristica principale, oltre ad un radicamento dei ragionamenti intersezionali, è l’enorme diffusione garantita dai nuovi mezzi digitali e da Internet. La parità sul luogo di lavoro viene spinta sempre più, soprattutto grazie ad una diffusione capillare dell’occupazione femminile.

4. Chi è femminista?
Spero che da questo breve riassunto della Storia del femminismo (soprattutto di quello occidentale, me ne rendo conto, ma non mi ritengo abbastanza ferrata per entrare più nei dettagli dei femminismi post-coloniali: basterà citare l’importanza della lotta alla cultura dello stupro promossa dalle attiviste sudamericane e gli interessanti sviluppi sul collegamento tra colonialismo e cultura patriarcale di femministe di area africana, tra cui non posso non citare Chimamanda Ngozi Adichie) sia emersa l’incredibile complessità di un movimento generalmente definito “femminista” che contiene al suo interno miriadi di correnti. Potenzialmente, chiunque abbia a cuore l’opposizione all’oppressione sistemica delle donne si può definire “femminista”, ma non è detto che venga accettatǝ dalla totalità del movimento.
Esistono effettivamente frange “misandriche” del pensiero femminista, che più che ad un’uguaglianza tra i generi puntano all’instaurazione di un matriarcato; ma estendere i parametri di quella che è essenzialmente una minoranza all’intero movimento equivale a dire che ogni persona di destra è fascista. Allo stesso modo, si definiscono ugualmente “femminista” persone che spingono per una maggiore inclusività del movimento, specialmente verso le persone transessuali e chi non si riconosce nel binarismo di genere, ma anche persone che non considerano le persone transessuali “vere donne” (le cosiddette TERF).
Come si fa, dunque, a dire chi ha ragione? Molto semplicemente, non si può. Come ogni movimento sociale di matrice popolare, anche il femminismo è un fenomeno complesso e sfaccettato, che, partendo da alcune basi comuni, può raggiungere conclusioni estremamente distanti. Da un certo punto di vista, questo è un bene, perché obbliga chiunque si definisca “femminista” ad interrogarsi costantemente su cosa lǝ renda tale e stimola il dibattito intellettuale su alcune questioni (una fra tutte, il valore da dare all’inclusione degli uomini nella lotta di genere). D’altro canto, è inevitabile che questa sfaccettatura crei dissensi e screzi all’interno del movimento stesso, tanto che molte correnti sentono il bisogno di staccarsene “ufficialmente”.
Penso che il femminismo, se non più giusto, più efficace ed equo in questa epoca storica sia un femminismo di quarta ondata, che ponga l’accento sull’intersezionalità e punti ad un pensiero decolonizzato, esente dall’eteronormatività e dal binarismo di genere, che non trascuri l’emergenza ambientale e la lotta di classe, entrambi prodotti del neoliberismo e dell’industrializzazione sfrenata a cui il patriarcato è legato a doppio filo. Questo, in linea di massima, è anche il pensiero della corrente predominante nel femminismo contemporaneo.
Per concludere, citando di nuovo Chimamanda Ngozi Adichie, «dovremmo essere tuttǝ femministǝ», perché lo smantellamento del patriarcato comporterebbe benefici per tuttǝ. (Sì, anche per gli uomini.) L’importante è che l’autoetichetta di “femminista” venga apposta al proprio pensiero dopo una certa ricerca sul suo significato e non assunta in automatico per il solo fatto di essere donna.


di Valentina Oger
Nata a Bologna, ha girato l’Italia (e, per dieci mesi, la Corea del Sud) prima di approdare al DAMS dell’Università di Torino. La sua ossessione principale è il cinema (per farla apparire basta dire davanti allo specchio “Martin Scorsese” otto volte e mezzo), ma è abbastanza eclettica: le sue ultime celebrity crushes includono Orson Welles, Magnus Carlsen, Farinata degli Uberti e Paul McCartney nel ’66.