Nel bel mezzo del cammino di riappropriazione dei suoi primi sei album e di un tour mondiale dal successo senza precedenti nella storia della musica, Taylor Swift annuncia ai Grammy Awards, tenutisi a febbraio 2024, l’uscita della sua undicesima raccolta di inediti, intitolata THE TORTURED POETS DEPARTMENT. A partire dal 2020, la diva americana ha rilasciato ben otto album, sia inediti che re-recordings1: è impossibile non sentire un senso di affaticamento nel ricevere così tanta musica nel giro di così poco tempo, per non parlare del caos della costante copertura mediatica che il suo “The Eras Tour” riceve su qualsiasi canale di divulgazione. Il rischio di un passo falso era dietro l’angolo e, infatti, è arrivato.
Questo nuovo album è il risultato di un processo di scrittura che la stessa autrice ha definito “imperativo”. Tuttavia, a questa penna impetuosa avrebbe davvero molto giovato un capillare lavoro di editing: il disco è composto da ben 31 tracce, le cui ultime 15 sono state annunciate a sorpresa a due ore dalla pubblicazione della versione standard e definite “The Anthology”, rendendo il progetto un doppio album di cui non c’era assolutamente bisogno. Alcune delle canzoni della seconda parte sono incluse nella versione fisica su CD e vinile per differenziare le “varianti”, ossia versioni dell’album che si distinguono solo per una traccia e per la copertina diversa. Quindi, risulta difficile non vederle come una mera operazione commerciale per vendere più copie (neanche mascherata troppo bene).

La campagna promozionale, pressoché inesistente, è stata uno che dei fattori che, personalmente, ha inficiato molto sul godimento durante l’ascolto: i due mesi di silenzio tra l’annuncio e il rilascio, nonché l’enorme orda di fan in trepidante attesa, sono stati una combinazione deleteria. Le infinite speculazioni tra gli appassionati riguardo il possibile significato dei titoli delle canzoni, l’interpretazione delle diverse copertine, rivelatesi totalmente fuorvianti, la pubblicazione da parte della stessa Swift di playlist composte da sue canzoni passate in preparazione all’album hanno dipinto un’identità per THE TORTURED POETS DEPARTMENT ancora prima della sua uscita, che corrisponde solo in piccola parte ai brani che effettivamente lo compongono.
Le canzoni della versione standard del disco risultano, infatti, un ammasso confuso e indistinguibile di idee pretenziose: le tracce galleggiano in questo bizzarro limbo tra l’essere tutte esageratamente simili e, al contempo, completamente sconnesse tra loro. Si pongono l’obiettivo di descrivere quel turbolento periodo in cui, in seguito alla fine di una lunga relazione, si elemosinano le attenzioni di chiunque pur di scappare dalla solitudine, costantemente in bilico tra il volersi buttare da una scogliera o tra le braccia di uno sconosciuto, per poi rendersi conto che non c’è nessuna differenza. Tuttavia, sono convinto che il disco risulti totalmente incomprensibile per chi non conosca le vicissitudini personali dell’autrice: il susseguirsi dei brani segue una struttura narrativa imbevuta di dettagli personali, forse troppo, che non sanno giustificare all’orecchio di un ascoltatore non aggiornato sulle sue avventure amorose il motivo per cui, ad esempio, l’ottimista The Alchemy venga subito dopo la lapidaria The Smallest Man Who Ever Lived. Questo diventa paradossale se si considera che, in molte tracce, Taylor descrive quanto la faccia soffrire che i fan si autorizzano ad avere un’opinione sulla sua vita privata, al punto da firmare petizioni per farla separare da un uomo notoriamente controverso. Non c’è nessuna coerenza tra questi pensieri, forse perché questi testi nascono da una turbolenza emotiva in cui è impossibile vedere il mondo con chiarezza. Tutto questo ci porta alla fatidica domanda: era davvero necessario sentire queste torbide elucubrazioni? Probabilmente no, ma almeno Taylor ha l’occasione di frantumare qualche altro record.
Nessuna canzone è sfacciatamente mal riuscita e qualcuna è anche stupenda, ma, se considerate come pezzi del grande puzzle di THE TORTURED POETS DEPARTMENT, non si incastrano mai perfettamente: si limitano a comporre l’immagine di una persona dalla salute mentale completamente deteriorata, senza proporre una soluzione a questo ingarbuglio di nodi emotivi. Probabilmente, la narratrice è mossa dall’idea che solo dal profondo dolore nasca della bella arte (il che giustificherebbe il titolo), ma il risultato finale di questo suo lavoro suggerisce che non sia sempre vero. La maggior parte delle canzoni trasmettono un senso quasi di disagio e isteria, come se un’amica ubriaca a una festa raccontasse davanti a tutti dei dettagli fin troppo intimi della sua vita, senza alcuna logica o consequenzialità, perché il motivo di quella sbornia che la sta rendendo spudoratamente loquace è scappare da un dolore lacerante.
Un altro grande limite dell’album è la cerchia ristretta di produttori coinvolti, Jack Antonoff e Aaron Dessner, con cui Taylor Swift ha lavorato su ognuno dei suoi lavori pubblicati a partire dal 2020: nonostante sia perfettamente lecito comporre musica pregna di dettagli intimi assieme ad amici fidati, l’altro lato della medaglia porta a essere poco stimolati creativamente e a restare nella propria zona di confort artistica. La prima parte dell’album è, infatti, estremamente simile al precedente Midnights del 2022 e la seconda, invece, si inserirebbe perfettamente negli album Folklore e Evermore del 2020: questo nuovo THE TORTURED POETS DEPARTMENT è, pertanto, musicalmente blando e molto poco inventivo dal punto di vista della produzione, che resta comunque ben eseguita, seppur poco sorprendente (con le dovute eccezioni!).
In realtà, riproporre un sound già sperimentato in precedenza e farne il proprio marchio di fabbrica non è per niente un percorso inusuale. È solo molto sorprendente se adottato da Taylor Swift, che ha abituato il suo pubblico a vedere i suoi album come delle “ere”, ognuna con il suo colore distintivo, genere musicale e stile di scrittura (è arrivata a pianificare perfino lo street style2). La verità è che risulta estremamente difficile non sentire la fretta con cui l’autrice americana ha composto questo disco. Il sintomo più evidente è l’esagerata – e non necessaria – durata che supera le due ore: queste 31 tracce sono anche molto belle se ascoltate singolarmente, ma falliscono miseramente se ascoltate una dietro l’altra. Troppi voli pindarici, troppo poca creatività e nessuna scrematura per distillare i brani più meritevoli.
Altro fattore sorprendentemente disturbante sono i testi: in alcuni passaggi sembra di sentire le parole “sgomitare” per farsi spazio in un verso troppo corto per la quantità di sillabe forzate al suo interno. Spesso, si ha l’impressione che sia la musica ad inseguire le parole piuttosto che accompagnarle, forse perché tutta questa scrittura impetuosa e istintiva, sposata con un artificioso inserimento di termini inglesi arcaici, si muove con la malfidata convinzione che l’unico modo per dire molto sia con tante parole.
Questo album non può far altro che impallidire a confronto con i precedenti e meglio riusciti lavori di Taylor Swift, perché la sua mancanza di inventiva viene solo aggravata dall’affaticamento nel vederla sempre costantemente al centro della cultura pop: si trasforma, quindi, in un monito a favore del proverbiale “il troppo stroppia”. Il miglior augurio che si possa fare alla cantautrice è che abbia l’opportunità di prendersi il suo tempo una volta finito il tour mondiale e il rilascio dei re-recordings, in modo da potersi ricalibrare come artista. In realtà, il fatto che l’accoglienza di questo album non sia stata unanimemente positiva, sia dalla critica che dal pubblico, è solo una buona notizia: Taylor ha in parte costruito la sua carriera in risposta alle critiche ricevute, dimostrando ripetutamente di saperle usare come forza ispiratrice per i suoi lavori migliori. Per ogni picco c’è una valle, perciò potremo sicuramente aspettarci un capolavoro all’orizzonte.
Ce lo ha detto lei stessa: the future’s bright… dazzling.
Non trovo motivo per non crederle.
Note
- Le re-incisioni dei suoi primi sei album come risposta ad una sleale disputa legale riguardo il possesso dei diritti d’autore.
- I suoi outfit “da strada”, non per grandi eventi o apparizioni pubbliche ufficiali.

Matteo Mallia
Mi chiamo Matteo, mi vanto di essere nato in un anno con 3 zeri, frequento la facoltà di Ingegneria Fisica al Politecnico di Milano, fin da piccolo ho sviluppato un’inguaribile passione verso i libri. Amo la musica: mi piacciono solo le cantanti con il nome d’arte che inizia con la L (sta a voi indovinare!) ma la mia preferita è Taylor Swift. Non riesco a non dire la mia opinione su film e serie TV, non lo farò nemmeno questa volta.
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