In occasione dell’ uscita nelle sale del prequel Hunger Games: La ballata dell’usignolo e del serpente con protagonista un giovane presidente Snow, un tuffo nell’universo distopico creato dalla statunitense Suzanne Collins potrebbe suggerire quanto la sua saga di giochi mortali sia sempre tristemente attuale nei temi affrontati.
Iniziata con l’uscita nel 2008 del primo volume e proseguita con fedeli adattamenti cinematografici di grande successo, la storia di Katniss Everdeen è presto diventata un fenomeno nella recente cultura pop con milioni di copie vendute e miliardi di dollari incassati al botteghino. Se si parla di saghe fantasy di grande successo, è probabile che sia successo a chiunque di desiderare la propria lettera per Hogwarts, una pinta di birra nella Contea o un passaggio tra i cappotti di un armadio che conduca a Narnia. Tuttavia, nessuno vorrebbe essere Katniss, nessuno vorrebbe trovarsi a vivere ciò che lei affronta: è sempre meglio una bacchetta magica piuttosto che un biglietto in più col tuo nome il giorno della Mietitura. Sorge spontaneo chiedersi cosa ci sia stato di così magnetico nel distopico stato di Panem per arrivare ad un grande pubblico.
Un indizio risiede sicuramente nella prosa efficace dell’autrice: nonostante la terribile realtà dipinta nei romanzi, è estremamente difficile non continuare a leggerli. Il ritmo della storia è talmente ben realizzato che ogni capitolo termina con un cliffhanger: persino l’autore di thriller per eccellenza, Stephen King, ha definito Hunger Games come “un romanzo che dà assuefazione”, una citazione spesso riportata sulla copertina del romanzo.
La straordinaria immaginazione di Collins risiede nella sua capacità di prendere spunto dagli errori del nostro passato (o presente) ed esagerarli, al punto da risultare contemporaneamente riconoscibili, ma comunque intrattenenti: l’idea di sacrificare dei bambini affonda le sue radici nel mito di Teseo e del Minotauro, per poi sostituire il labirinto con un’arena che ricorda la tradizione dei Gladiatori dell’antica Roma. L’autrice ha saputo fondere questo contesto classico al bisogno quotidiano, e sempre più radicato, di estendere la tecnologia in ogni ambito del nostro vivere.
La saga è ricca di riferimenti alla romanità e di simbolismi, come, ad esempio, i nomi dei personaggi, che sottolineano le loro attitudini: “Katniss” è il nome dell’erba saetta, anche nota come sagittaria, un riferimento alla costellazione dell’Arciere e alla straordinaria abilità della protagonista con l’arco; il nome “Peeta” è ispirato alla pita, il tipico pane greco, e simboleggia il suo lavoro di panettiere. Assolutamente degni di nota sono anche tutti i riferimenti all’antica Roma che riguardano la tirannica capitale, il cui nome è una geniale assonanza tra le parole inglesi “capitale” e “Campidoglio”. Tutti i cittadini di Capitol City hanno nomi latini: il presidente Snow si chiama Coriolanus, come il famoso e spietato generale romano; il presentatore dei Giochi, Caesar Flickermann, è l’omonimo di Giulio Cesare; il grande stratega Heavensbee condivide il nome con lo storico Plutarco. I due personaggi con i destini tristemente più simili alle loro controparti romane sono lo stilista Cinna, fedele alla rivolta iniziata inconsapevolmente da Katniss, e lo stratega Seneca Crane, costretto al suicidio per i suoi errori nel contenere l’animo ribelle della protagonista.
L’intero concetto degli Hunger Games sarebbe stato implementato dai Romani stessi, se avessero avuto la tecnologia adeguata per i loro spettacoli dei gladiatori, schiavi costretti a combattimenti mortali al solo scopo di intrattenere i ricchi. Chi tra di loro emergeva come vittorioso veniva idolatrato dai patrizi, esattamente come succede ai Vincitori, venerati allo stesso modo dai cittadini di Capitol City: i Vincitori si ritrovano poi ad essere condannati ad un altro tipo di schiavitù, ad esempio assumono il ruolo di Mentori nelle successive edizioni degli Hunger Games, costretti anche alla prostituzione se considerati desiderabili, puniti con la morte dei propri cari se si oppongono a ciò. Il fine ultimo rimane sempre l’intrattenimento della classe dirigente e privilegiata di Capitol City.
Lo stesso nome della nazione, Panem, è un riferimento al motto latino panem et circenses, “pane e spettacoli”: finché i cittadini di Capitol City sono ben nutriti (a differenza dei distretti) e intrattenuti dagli Hunger Games, sono disposti a rinunciare al loro potere politico e lasciare indisturbato il governo tirannico del Presidente Snow. I distretti esistono solo per fornire panem et circenses agli esageratamente ricchi abitanti della capitale, che bevono intrugli che inducono il vomito per ingozzarsi di più (un’altra tradizione romana), mentre gli schiavi nei distretti muoiono di fame. Infatti, l’elemento disturbante della saga sta nella realizzazione, almeno da parte del pubblico occidentale, che abbiamo molto più in comune con un abitante di Capitol City piuttosto che con Katniss.
Il grande cavallo di battaglia della saga è proprio la sua eroina, Katniss Everdeen: a differenza di altri protagonisti celebri, la ragazza di fuoco non è una “Prescelta” e, a rigor di logica, non è l’unico personaggio in grado di “svolgere la trama”. Anzi, si potrebbe dire che Katniss è stata democraticamente eletta a Prescelta, ha potere solo perché gli altri credono che lei abbia potere, non certo per merito di una profezia.
La ragazza del Distretto 12 non ha superpoteri, ma si eleva alla sua posizione solo grazie alle sue azioni: ciò che spicca di lei è la sua enorme empatia e l’istinto protettivo verso chi ama. L’intera storia inizia con il suo sacrificio per proteggere sua sorella Prim, proseguendo con la dignità che Katniss decide di offrire alla morte della piccola Rue dentro l’arena. Queste sono le scelte che portano la protagonista ad essere vista come un simbolo di rivoluzione e i fiori intorno a chi le è stato detto essere un suo nemico sono la prima scintilla di solidarietà tra i distretti, che divamperà nell’incendio della rivolta.
La giovane e ostinata arciera è un personaggio estremamente sfaccettato: è evidente che, in seguito alla violenza a cui ha assistito nei primi Hunger Games, soffra di disturbo da stress post-traumatico complesso. Tuttavia, la sofferenza continua a cui viene sottoposta e la resilienza nell’affrontarla la rendono un faro di speranza dai distretti e dallo stesso pubblico.
Un altro elemento vincente della saga è come sia in grado di sovvertire completamente il concetto della “donzella in pericolo”: è più frequente che sia Katniss a salvare Peeta, piuttosto che il contrario, nonostante la loro dinamica relazionale sia complessivamente equilibrata. La ragazza del distretto 12 non subisce le decisioni di nessuno, anzi è proprio il suo carattere indomito a tenerla in vita e a portarla ad essere il simbolo della rivolta contro Capitol. Forse, è proprio questo uno dei punti di forza della serie: trattare la questione femminista senza veramente affrontarla. Infatti, non si ha mai l’impressione che ci sia una vera e propria differenza tra ciò che è permesso fare ad una donna piuttosto che ad un uomo, non ci sono ruoli di genere a Panem, le opportunità (o la mancanza di esse) sono le stesse e nessun personaggio sembra metterlo in discussione. I due protagonisti sovvertono completamente gli stereotipi di genere in un modo organico e talmente ben strutturato che è facile non accorgersene: Katniss presenta una caratterizzazione spesso associata a ruoli maschili, come una grande atleticità, un atteggiamento scontroso e remissivo per chi non la conosce veramente; al contrario, Peeta viene dipinto con una personalità molto dolce, affettuosa e creativa.
Suzanne Collins ebbe l’idea di rappresentare un gioco mortale tra bambini trasmesso in diretta nazionale mentre stava cambiando velocemente canale in televisione: immagini di guerra e brutalità in Iraq venivano alternate con frivoli reality show. Infatti, il ruolo dei media rappresenta una colonna portante nella trilogia di Hunger Games: la popolarità di Katniss deriva quasi esclusivamente da essi, a partire dai suoi abiti infuocati fino alla inizialmente fasulla storia d’amore con Peeta. La ragazza di fuoco è viva perché piace alla gente ancora prima di entrare nell’arena, al cui interno riesce poi a ingraziarsi gli sponsor che le garantiscono la vittoria. È inevitabile scorgere una similitudine tra gli agghiaccianti paracaduti degli Hunger Games e la nostra cultura dell’influencer: Katniss è il simbolo della rivoluzione perché la vedono in televisione con un vestito da sposa che prende fuoco e pagano per aiutarla. È proprio per questo che gli abiti di Katniss sono stati uno degli incentivi principali nella costruzione della sua immagine.
La comunicazione mediatica è uno snodo centrale anche del capitolo conclusivo, in cui la maggior parte della trama è dedicata alla realizzazione dei “pass-pro”, ossia video di propaganda ribelle con al centro la protagonista della saga, contrastati da materiale di Capitol City che ritrae un brutalmente torturato Peeta Mellark.
Un altro tema ricorrente è l’ossessione di Capitol City verso la body image: i suoi abitanti sono soliti sottoporsi a numerosi interventi di chirurgia estetica, indossare costumi stravaganti e seguire diete assurde. Basti guardare a qualche sfilata dell’annuale Met Gala per riconoscere che, forse, quel futuro grottesco non è poi così nel futuro, oppure osservare fino a che punto si spingono certi content creator, pur di guadagnare qualche visualizzazione in più o per vendere i loro prodotti. Collins ha solo esagerato dei fenomeni che stanno già svolgendosi sotto i nostri occhi.
Il momento tematicamente più rilevante è la conclusione: un terzo dell’ultimo libro è dedicato alla spedizione di Katniss e dei suoi alleati tra le strade piene di pericoli di Capitol City, per arrivare ad assassinare il presidente Snow. Molti personaggi centrali muoiono, pur di permettere alla nostra eroina di arrivare abbastanza vicino alla residenza presidenziale e porre fine alle morti causate dal tiranno. Tuttavia, la sequenza si conclude con l’arrivo dei ribelli, unificati dalla propaganda della prima parte del romanzo, e dallo scoppio di una doppia bomba che uccide anche la sorella della protagonista, la stessa per cui Katniss si era offerta volontaria all’inizio della storia. La ribellione finisce mentre la protagonista è svenuta e, a pensarci bene, sarebbe finita nello stesso modo, con o senza l’intera spedizione di Katniss.
Questo finale, di primo acchito anticlimatico, è, in realtà, una scelta deliberata e coraggiosa, fedele in ogni modo al messaggio centrale della storia: Katniss non è una “Prescelta” come lo è Harry Potter; la guerra tra “bene e male” non è così definita e non viene vinta dalle azioni eroiche di un individuo straordinario, anzi la rivolta viene vinta dall’azione collettiva che “La ragazza di fuoco”, prima, e la “Ghiandaia imitatrice”, dopo, hanno contribuito a creare e alimentare. È estremamente raro vedere in un prodotto così pop una tale attenzione nell’organizzazione di una ribellione senza mire individualiste.
L’assassinio della presidente del distretto 13, Alma Coin, è un ulteriore conferma di ciò: non si può combattere un regime dittatoriale con un altro regime dittatoriale, non è sufficiente unirsi contro un nemico comune, ma è altrettanto necessario e complesso essere d’accordo nel trovare qualcosa o qualcuno con cui sostituirlo. Forse, è per questo che la storia di Katniss Everdeen è così profetica, un vero monito a quello che potrebbe succedere a noi e che sta già accadendo ad altrə. A tal riguardo, è emblematico un passaggio estratto dal capitolo 6 del terzo libro in cui si discute di democrazia come istituzione possibile e desiderabile, perché riportata nei libri di storia degli antenati, ossia “noi”. Katniss, invece, commenta tra sé:
“I nostri antenati non mi sembrano qualcosa di cui vantarsi granché. Basta guardare lo stato in cui ci hanno lasciati, con le guerre e il pianeta in rovina. È evidente che non gli importava di quello che sarebbe successo a chi sarebbe venuto dopo di loro. ”
Ciò che prima erano gli Stati Uniti, ora è lo stato dittatoriale di Panem, ristrettosi geograficamente a causa dello scioglimento dei ghiacci, dove la maggior parte della popolazione è schiavizzata al beneficio di pochi. È recente la notizia che dichiara, secondo i dati Oxfam, che l’1% più ricco del pianeta inquina di più dei due terzi della popolazione più povera, esattamente come quelle che riportano ospedali pieni di feriti, bombardati senza pietà o rimorso.
Suzanne Collins sembra suggerire che il presente che ci meritiamo e il futuro che ci aspetta, se non cambiamo atteggiamento, sia quello barbaro descritto nei suoi romanzi.
Nessuno vince in guerra, ma, con uno scopo comune, la fortuna può essere davvero a nostro favore.
Felici Hunger Games!
di Matteo Mallia
Mi chiamo Matteo, mi vanto di essere nato in un anno con 3 zeri, frequento la facoltà di Ingegneria Fisica al Politecnico di Milano, fin da piccolo ho sviluppato un’inguaribile passione verso i libri. Amo la musica: mi piacciono solo le cantanti con il nome d’arte che inizia con la L (sta a voi indovinare!) ma la mia preferita è Taylor Swift. Non riesco a non dire la mia opinione su film e serie TV, non lo farò nemmeno questa volta.