La violenza è un modo per azzittire le persone, per negargli voce e credibilità, per affermare il proprio diritto di controllare il diritto altrui di esistere.
Rebecca Solnit, Gli uomini mi spiegano le cose. Riflessione sulla sopraffazione maschile, Ponte alle Grazie, 2014, p. 12
Decido di iniziare la mia riflessione con un atto di masochismo, una ricerca su Google per qualche dato freddo e impersonale: “Elenco vittime femminicidio 2023”. Da vari fronti ufficiali, una lista lunghissima di donne vittime di femminicidio – a oggi che scrivo l’articolo, 20 novembre 2023, ne risultano trentanove – , delle quali dell’ultima, Giulia Cecchettin, è stato ritrovato il corpo tumefatto due giorni fa. Tra questi nomi possiamo scorgere altre donne arrivate nelle nostre case tramite informazione nazional popolare, alla radio, nelle notizie sui social, ma il mio sguardo cade inevitabilmente su Giulia Tramontano, di cui tanto si è parlato a inizio estate, a giugno circa. Sia chiaro: trentanove se prendiamo in considerazione quelle arrivate all’opinione pubblica. Secondo l’ultimo report settimanale sulla violenza stilato dal Viminale, dall’inizio dell’anno sono 103 le donne uccise, tra queste 82 in ambito familiare o affettivo, 54 per mano di un partner o ex partner. L’estate ormai passata ha portato l’attenzione anche su altre notizie, che passerò brevemente in rassegna: l’inchiesta del giornalista francese su una donna che per anni è stata stuprata sotto l’effetto di droghe lei somministrate di nascosto dal marito; lo stupro della ventiduenne da parte di Leonardo La Russa; lo stupro di Palermo, al quale è seguito, negli stessi giorni, quello delle due ragazzine di Caivano e quello di una ragazza a Roma.
Anche se possa sembrare, in questo articolo non voglio parlare né di femminicidio, né di stupro, almeno non per quel che concerne le dinamiche e i cortocircuiti della mente che portano alla violenza, perché esiste già una produzione saggistica a riguardo redatta da persone ben più “studiate” di me, alcune delle quali vivono questa realtà perchè operatrici/tori dei centri anti-violenza, consultori o in ambito accademico. Quello che vorrei fare io qui è un discorso parallelo a questo.
Il femminicidio, lo stupro, la violenza di genere in ogni sua espressione, sono palesemente la punta di un iceberg estremamente duro e compatto che si chiama sistema patriarcale, fondato sulla cultura dello stupro. Lo ha messo molto bene in luce Paola Cortellesi nel suo primo lavoro da regista, C’è ancora domani, che si apre appunto con una scena che mi ha fatto rabbrividire, soprattutto se guardata ovviamente con gli occhi di soggetto del Ventunesimo secolo: Ivano tira una sberla a Delia per il solo fatto che la donna si è svegliata tardi, e Delia, come nulla fosse, inizia le sue consuete faccende domestiche. Lì eravamo negli anni Quaranta, ed era concepito come “normale”, ma se ancora oggi leggiamo di femminicidi, stupri e violenza di genere, capiamo che sì, il femminismo tanto ha fatto per la causa e per il problema, soprattutto cercando di rafforzare la rete della sorellanza, ma che si tratta del frutto di un problema strutturale, di una cultura nella quale cresciamo tutte e tutti – soprattutto tutti. La violenza estrema è il risultato di un’idea, di una concezione che va oltre alla ormai consolidata idea del possesso, del controllo. È il risultato di una questione strettamente legata all’idea di possesso, ovvero che la donna esiste e pretende di esistere (che assurda pretesa! N.d.A.), e il patriarcato, animato dall’antico diktat aristotelico per il quale si è deciso che un sesso si imponga sull’altro, fa di tutto perché le donne non esistano. Almeno nello spazio pubblico. Se – come è intento dei più – vogliamo porre fine a questo stato di cose, bisogna scardinare il sistema, sì con soluzioni fattuali (educazione sessuo-affettiva e al consenso fin dalle scuole dell’infanzia e nel contesto familiare [anche se, proprio oggi, la proposta di legge a riguardo è stata bocciata perché si ritiene l’educazione sessuale “una porcata”, “pornografia”, ma, ancora peggio, “una questione privata”, “un affare di famiglia”: se i presupposti sono questi, come diamine lo cambiamo il sistema? N.d.A.], più sostegni economici ai centri antiviolenza, un sostegno immediato dalle forze dell’ordine senza essere vittime del doppio standard, ecc.), ma anche e soprattutto lavorando singolarmente, nel privato e nel pubblico, trasformando la nostra indignazione saltuaria nell’isolamento di singoli casi di violenza.
Perché la violenza è ovunque, e molto spesso parte dalle parole.
Vorrei partire da una domanda provocatoria: che cosa accomuna Andrea Giambruno e Filippo Turetta? Entrambi non erano l’elemento principale di una coppia, il primo perché “compagno della” nostra presidente del Consiglio Giorgia Meloni, l’altro perché addirittura era “ex fidanzato”, appunto, di Giulia Cecchettin. Entrambi non hanno sopportato di essere “un passo indietro” (chiarisco: la perifrasi amadeusiana non mi piace, sarebbe più appropriato “al fianco”, perché così dovrebbe funzionare l’amore per chiunque, N.d.A.), rispetto alle loro rispettive compagne, socialmente situate, con una identità precisa: la prima appunto in un ruolo di prestigio politico (per quanto io trovi l’operato dell’onorevole Meloni discutibile, e non l’ho mai negato, ciò non toglie che sia a prescindere la presidente del Consiglio, prima donna in Italia), l’altra prossima alla laurea. L’uno si è limitato a delle affermazioni fuorionda ben oltre il cattivo gusto, l’altro ha compiuto il peggiore dei gesti che un individuo possa compiere su un altro: ha deprivato la ragazza che un tempo diceva di amare della sua stessa vita, arrivando quindi a “cancellarla” perché fuori dal suo controllo, ma soprattutto perché ennesimo individuo di sesso maschile che non ha saputo accettare un rifiuto. Ecco allora che la sua ferita narcisistica si è infettata e ha pensato bene di procedere alla “soluzione finale”. Ancora una volta, quindi, «Il femminicidio è la prova plastica che la violenza di genere non è un raptus, ma uno strumento per disciplinare. Vengono disciplinate le donne che non si adeguano al ruolo di proprietà così come le donne che si adeguano»1.
La narrazione del caso di Giulia Cecchettin non è nuova, fa parte di una retorica consolidata della nostra società, quella del “bravo ragazzo che non avrebbe neanche ucciso una mosca”, come ha dichiarato la famiglia di lui, o dei titoli dei giornali che nei primi giorni li ha delineati come una coppietta di fidanzatini scappati volontariamente, fugando l’idea sociale che potesse trattarsi dei prodromi del possibile ennesimo caso di femminicidio. Si è visto il carattere del bravo ragazzo, si è visto come è stato solo “un pacifico litigio tra fidanzati, lui le voleva bene, le faceva persino i biscotti”, come ha affermato il legale del ragazzo. Quello che più mi fa – passatemi il termine – incazzare ogni volta che mi ritrovo a leggere di femminicidi è il contorno, è la narrazione stessa che viene fatta di ogni singolo femminicidio, stupro, molestia. Prendo proprio il femminicidio di Cecchettin come primo esempio. Ve l’ho appena scritto: l’impianto narrativo fin dagli inizi è sbagliato, ancor di più gli sviluppi. Può una testata, che dovrebbe fare informazione pulita, libera, priva di stereotipi, usare ad esempio queste parole: «Quell’amore cattivo è finito per sempre, ora lo sappiamo. In un posto da innamorati, con il foliage da fotografare, il lago, le montagne, un posto sperduto e magico»? Queste righe sono di Repubblica, quotidiano nazionale che si spaccia come moderato, percepito di sinistra: è inaccettabile questa romanticizzazione della violenza. Almeno ha avuto la decenza di mettere la foto della ragazza da sola, errore nel quale invece è caduta l’ANSA, l’ente d’informazione nazionale che, nonostante ci abbia consegnato una notizia pulita, ha sentito l’esigenza di corredarla di foto di coppia.
In precedenza ho nominato Giulia Tramontano, che se non ricordate chi sia vi rinfresco io in breve la memoria: ventinovenne di Sant’Antimo (NA), uccisa dall’ex-compagno Alessandro Impagniatiello. La ragazza, inoltre, era al settimo mese di gravidanza. Anche questo caso di femminicidio ha fatto parlare per giorni, trattandosi dell’ennesima fiamma spentasi il tempo di una candela. Ho tenuto a sottolineare il fatto che la ragazza fosse incinta perchè in quei giorni, proprio per questo, è stata quasi divinizzata come “mater dolorosa”. E qui veniamo all’altro aspetto della narrazione dei femminicidi che mi disturba e non poco, in primis questo bisogno morboso del giornalismo, che sia quello televisivo o quello della carta stampata, di andare ad intervistare le persone vicine del femminicida, che ovviamente forniscono una narrazione distorta, quella di un maschio, appunto, kalòs kài agathòs, “bello e bravo”, o dei vicini di casa che ci fanno passare l’idea di una coppia/famiglia felice che non avevano mai visto o sentito litigare. Una narrazione, quindi, da cui traspare un maschio incapace di autoassolversi, di mettersi in discussione. Per non parlare della stessa narrazione sulla ragazza morta, dove il primo atto che si compie è la ricostruzione della vita di questa donna, dalla quale emergerà da un lato un giudizio di merito sul suo comportamento, dall’altro la ricerca altrettanto morbosa di qualche dettaglio che possa averla condotta al femminicidio. Nel caso di Giulia Tramontano, ad esempio, il fatto che si sia recata all’ultimo appuntamento. Dalla divinizzazione alla colpevolizzazione il passo è breve: Te la sei cercata vi dice niente? Non andare all’ultimo incontro vi dice niente? In questo modo, non solo si fa cattiva informazione, ma viene anche meno il secondo punto del Manifesto di Venezia, decalogo che delinea il modo più consono e adeguato per un* giornalista di narrare la violenza di genere, che dice appunto come sia necessario «adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere e assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate».
E così arriviamo al buon Giambruno, del quale parlerei per ore, indi per cui mi limiterò a fare poche e semplici considerazioni, riassumibili in poche e semplici parole: sessismo, oggettificazione della donna, maschilismo tossico. Le affermazioni e i comportamenti da lui tenuti nel dialogo con la collega non sono solo volgari, ma ipersessualizzanti, una molestia a tutti gli effetti, dall’essersi toccato i genitali davanti a lei senza il suo consenso, alle richieste di pratiche sessuali da compiere per poter “lavorare lì”. Il nostro, “spirito gitano” – come lui stesso si è definito – come vi dicevo poco prima, non ha sopportato di essere solo il secondo in una coppia da lui percepita come pesante. In poche parole: ha visto minata la propria virilità. Almeno gli è rimasto il ciuffo, dai. Sempre per rimanere in tema di virilità fuori luogo, non possiamo lasciare in disparte un piccolo episodio culturale, avvenuto a luglio scorso, che vede come protagonisti due curiosi personaggi, ovvero il cantante Morgan e Vittorio Sgarbi. I due erano stati invitati alla serata di apertura della stagione culturale estiva del MAXXI di Roma. Iniziata come un dialogo, la conversazione ha preso una piega poco consona di per sé in generale, figuriamoci per un luogo di cultura. Una conversazione basata su una enumerazione, da parte dei due, dei loro trascorsi sessuali, paragonandosi a noti uomini di cultura con lo scopo di mettere in evidenza come il sesso sia sempre stata un’attività “dei maschi” anche di un certo spessore intellettuale. È evidente come in entrambi i casi il problema sia proprio il linguaggio, che altro non è che lo specchio di una mentalità che trasforma poi quelle parole in fatti. Il machismo tossico è obiettivamente un problema, ed è alla base della violenza. Dietro al machismo si celano, e neanche in modo troppo nascosto, prevaricazione, forza, possesso, manipolazione, sfruttamento: tutti pezzi che, messi insieme, formano un puzzle nitido.
Qui è ovvia la spettacolarizzazione del machismo. Lo hanno fatto nel pubblico, ma è ciò che succede ogni qualvolta che un uomo applica violenza su una donna, applicando possesso, applicando eliminazione. Il possesso di cui tanto si è parlato in questi ultimi giorni è proprio l’aspetto principale del machismo. Nel caso di Cecchettin e Turetta abbiamo assistito ad un sessismo ambivalente, tanto ostile quanto benevolo. Sia chiaro: per benevolo non si intende positivo, quanto in realtà subdolo, perché se il sessismo ostile è quello immediato, senza fraintendimenti, perché caratterizzato da atteggiamenti negativi che portano alla violenza fisica, il secondo è nascosto dietro a comportamenti stereotipati come protezione, idealizzazione, romanticizzazione della donna. Da qui è facile comprendere la storia dei biscotti, ovvero “come potrebbe un ragazzo che è stato così amorevole nei confronti di questa ragazza, che dalle loro foto insieme risulta così protettivo, gentile, arrivare ad ucciderla?”. Perché poi, in fondo, il dubbio che sia stato lui, che la colpa possa non essere del ragazzo, a livello sociale e politico, ci sta sempre. Elena Cecchettin, infatti, a seguito delle vergognose affermazioni di Salvini a seguito dell’arresto di Turetta, dove ha provato a far precedere le sue parole da un “se”, dubitando quindi della colpevolezza del ragazzo, ha risposto: «Il Ministro dei Trasporti che dubita della colpevolezza di Filippo Turetta perché bianco e di buona famiglia. Anche questa è violenza, violenza di Stato». Una risposta che, a qualunque femminista, ma anche a qualunque persone che abbia anche solo una vaga conoscenza della storia del nostro Paese, richiama altri ragazzi “bianchi di buona famiglia”, tali Ghira, Izzo e Guido. E quello che a me dà ancora di più da pensare e mi fa sentire ancora più vicino a quanto successo è che Turetta fosse molto giovane, cosa che ti fa utopisticamente credere che l’idealismo prevalga sull’ipocrisia. Ma a quanto pare anche Turetta è figlio sano del patriarcato, quindi esposto come tanti altri suoi coetanei alla cultura di massa, che dalla pubblicità alla musica a qualunque altro suo prodotto è intriso di machismo tossico. Il sessismo ambivalente, ad esempio, è alla base di moltissima della musica di consumo, da quella più innocua al mio tallone d’Achille. Dal basso dei miei venticinque anni posso dire di essere impermeabile nei confronti della trap, che quindi trovo solo brutta e priva di significato, ma per quel che ricordo agli inizi della diffusione del fenomeno, ricordo come questo genere fosse già, e sia ancora tutt’ora, l’apoteosi del machismo tossico. Io esco dai tempi della Dark Polo Gang, però mi è parso di capire che dal 2018 a oggi le cose non siano molto migliorate, anzi, credo siano solo che peggiorate, passando dalla semplice cacofonia musicale a inneggiamenti sempre più pesanti al sessismo, alla misoginia, testi nei quali viene costruita l’idea di un sesso violento, non consensuale, che nulla aveva di romantico, bello, erotico. Se quindi i modelli proposti sono quelli dell’uomo forte, della donna che deve stare al suo posto perché nei locali, nei luoghi pubblici, di notte ma anche sul tram possa esserci “il lupo cattivo”, come dicevo all’inizio, possiamo solo aspettarci, tra qualche giorno, di leggere di un’altra sorella morta, stuprata, costretta a ripetere per tremila volte la propria deposizione in questura come Donatella Colasanti.
Se non sapessi che “cento cani sopra una gatta” sia una frase realmente pronunciata con il fine di demistificare e ridicoleggiare uno stupro, la prenderei per un verso trap.
Solo per un verso trap.
Solo di pessimo gusto.
Note
- Ginevra Lamberti, Il possesso e l’omicidio come espressione del comando, da Domani Editoriale, 19 novembre 2023, https://www.editorialedomani.it/tutte-le-donne-possono-essere-uccise-da-un-uomo-f5j10kfk
di Marta Urriani
Mi chiamo Marta Urriani, classe ’98, e studio Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. Ho una folta chioma di capelli ricci, tanto che tutti mi chiamano Mafalda, come la bambina dei fumetti di Quino, con la quale ho molto in comune (e non solo i capelli). Cercando di sopravvivere alla vita universitaria, con il caffè di giorno e la camomilla di sera, leggo e scrivo. Mi interesso soprattutto di letteratura italiana e temi femministi.