Parole del genere odiato
La mia anima non ha mai desiderato generare né gente né libri mansueti, compiacenti, accondiscendenti. Fate casino. (Michela Murgia)
L’Italia è un Paese maschilista. E avere una Presidente del Consiglio – che, tra l’altro, ha scelto di farsi chiamare il Presidente – non cambia nulla. Il divario salariale tra uomini e donne, la sottorappresentazione femminile nei corsi di laurea STEM, le aspettative sociali rivolte alle donne di essere “mogli e madri prima di ogni cosa” e la violenza di genere sono solamente alcuni esempi di come viviamo in un contesto fortemente patriarcale. Lasciando i dettagli degli innumerevoli ostacoli politici, economici e sociali a cui vanno incontro le donne a trattazioni dedicate, in questo momento ritengo necessario affrontare da una prospettiva sociolinguistica il sessismo, una realtà, ahimè, così radicata nel nostro Paese.
Qualsiasi studentə che ha affrontato l’esame di linguistica generale sa che la lingua è un codice che raccoglie, custodisce e trasmette l’esperienza dei suoi parlanti. Non è dunque un caso che la lingua italiana sia intrisa di misoginia, o, per meglio dire, come moltə italofonə si esprimano in maniera misogina, di conseguenza riflettendo una società che odia le donne (e neanche in maniera così velata, ndr). Tra gli esempi infiniti figurano la tempesta mediatica a danno di Elodie per il nudo artistico per A Fari Spenti (a cui ho fatto accenno nel mio primo articolo), così come le accuse mosse recentemente ad Angelina Mango di aver raggiunto la vittoria dell’ultimo Festival di Sanremo solo in quanto figlia di Pino Mango.
Molto spesso, i commenti sotto ai loro post – e di tante altre donne – su varie piattaforme sono conditi di insulti che fanno riferimento alla loro presunta promiscuità sessuale: infatti, alcune delle offese più comuni rivolti alle donne sono troia, puttana, zoccola. Viene naturale chiedersi: quando gli uomini vengono offesi, viene fatto riferimento alla loro (presunta) promiscuità? Certo che no! L’insulto a un uomo è indirettamente rivolto a lui e direttamente rivolto ad una donna a lui vicino: basti pensare a espressioni quali figlio di puttana, bastardo, cornuto. Richiami così beceri alla sessualità femminile si prefiggono l’obiettivo di oggettificare e umiliare le donne che “non compiacciono, ma si piacciono”, come disse Michela Murgia ad un evento di 9Muse del 2019.
Proprio Murgia riporta uno spaccato illuminante sulla misoginia nel Bel Paese con Stai zitta, e altre nove frasi che non vogliamo sentire più (Einaudi, 2021), saggio ispirato dal vergognoso episodio di circa quattro anni fa in cui, durante una trasmissione di Radio Capital, lo psichiatra Raffaele Morelli ha urlato grottescamente alla scrittrice: “Zitta! Zitta! Zitta e ascolta!”1 Stai zitta spiega dunque come una donna che esprime la sua opinione, specie se in contrapposizione a quella di un uomo, dà fastidio alla società patriarcale:
«La donna socialmente gradita è una donna silenziosa, che diletta con qualunque arte, tranne quella oratoria. Il diritto di parola è quello in teoria più tutelato dalla Costituzione, che non fa distinzioni tra uomini e donne nella potenzialità di espressione. Nell’agorà mediatica la possibilità di parola per le donne è però molto più ridotta di quella degli uomini, sia in termini di presenza che in quelli di opportunità. La rappresentazione femminile nei media italiani è in grande misura ancora quella riservata a una creatura muta».2
Il suo excursus pone poi l’accento sulle varie strategie che puntano a sminuire, umiliare e “far stare le donne al loro posto”: rivolgersi alle donne in contesti pubblici e ufficiali con il nome proprio o aggiungendo l’articolo al cognome (es. “Elly” oppure “la Schlein”); l’eterna illusione della maternità come realizzazione massima a cui una donna può aspirare (in particolare, Murgia fa riferimento al titolo di questa notizia riportata dal Messaggero); il fatto che le peggiori nemiche delle donne siano proprio altre donne (l’ennesima bugia patriarcale, ndr); considerare le molestie come il catcalling al pari di complimenti; il mansplaining o minchiarimento (traduzione della scrittrice Giulia Blasi che apprezzo particolarmente, ndr), cioè “l’atteggiamento paternalistico di alcuni uomini quando spiegano a una donna qualcosa di ovvio, oppure qualcosa di cui lei è esperta, perché pensano di saperne sempre e comunque più di lei oppure che lei non capisca davvero”.3
Un ulteriore punto da considerare riguarda la relazione tra il mondo del lavoro e il sessismo dal punto di vista della lingua, ossia la questione dei femminili professionali. Massima esperta in questo campo è senza ombra di dubbio Vera Gheno, sociolinguista, autrice di numerosi volumi e conduttrice del podcast Amare parole de Il Post. Gheno affronta la questione in volumi come Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole (effequ, 2019) e Potere alle parole. Perché usarle meglio (Einaudi, 2019), anche se in maniera più sintetica nel secondo rispetto al primo.
Prima di addentrarci nel discorso, è necessario fornire alcune precisazioni morfologiche. Tutti i nomi in italiano hanno un genere grammaticale, ossia sono maschili o femminili.4 I nomi che fanno riferimento a persone o ad animali hanno un genere semantico, il quale rappresenta la coerenza tra genere grammaticale e genere della persona o dell’animale (es. gatto-gatta; papà-mamma).5 Inoltre, tra maschile e femminile esistono quattro tipi di relazione: genere fisso (ai due generi corrispondono sostantivi di radici diverse, es. maschio-femmina); genere comune (vi è un’unica forma per maschile e femminile riferito a persone, es. il/la docente); genere promiscuo (vi è un’unica forma per maschile e femminile riferito ad animali, es. l’antilope) e genere mobile (i sostantivi di questo tipo formano il femminile tramite una serie di desinenze, es. sarto-sarta, ministro-ministra, lettore-lettrice).6
La sociolinguista afferma che ci sono delle professioni la cui forma femminile esiste da tempo (es. sarto–sarta; attore–attrice; segretario–segretaria).7 Tuttavia, vi sono alcuni mestieri la cui forma femminile era poco usata fino al giorno d’oggi perché ministre, sindache, rettrici non ricoprivano comunemente tali cariche in passato.8 Proprio rispetto a questi “nuovi” femminili professionali (non si tratta di forme veramente nuove poiché sono previste dalla grammatica italiana, ndr) è sorta una differenza di vedute tra chi sostiene l’uso dell’appellativo al maschile (es. il Presidente Giorgia Meloni, l’avvocato Giulia Bongiorno, etc.) e chi ritiene necessario esplicitare le differenze di genere, così come succede già per lavori più “umili”: “Se si dice infermiera e maestra, perché non dire ingegnera e ministra?”9
Una critica mossa a sfavore dell’uso dei femminili professionali è la loro presunta cacofonia. In Potere alle parole, Gheno risponde a tale critica (assolutamente sterile, ndr) in questo modo: “[E] se fossero soprattutto insolite? Linguisticamente non sono certo errate o non previste dal sistema. E la bruttezza non è un concetto linguistico”.10 Di tale visione è anche Vittorio Coletti, linguista e consigliere per l’Accademia della Crusca:
«Nella maggior parte dei casi è solo questione di abitudine e quello che sulle prime sembra inaccettabile o ridicolo poi diventa normale. Dottoressa e professoressa sono nate con taglio spregiativo, ironizzando sulle signore saccenti o inaspettatamente (per i maschi) colte, e oggi sono titoli assolutamente comuni e rispettati».11
Mi pare innegabile di condividere la stessa posizione di Gheno e Coletti. Voglio ribadire che non ho – né ambisco ad avere – l’autorità per affermare che una donna è obbligata ad usare l’appellativo al femminile, quindi a definirsi avvocata, ingegnera o la Presidente del Consiglio: la libertà di scelta è fondamentale. Tuttavia, considero l’uso del titolo al maschile decisamente più ideologico rispetto a quello del titolo al femminile. Ciò mi dà infatti l’impressione che il proprio genere rappresenti per una donna una caratteristica da occultare. In altre parole, ritengo che l’uso dell’appellativo al maschile ambisca, in qualche modo, a mantenere bassa la già scarsa presenza femminile nelle posizioni apicali della società.
Insomma, in un’Italia patriarcale dove il genere femminile è sistematicamente svantaggiato e deve stare “in silenzio” e “al proprio posto”, trovo triste e deplorevole che le poche donne all’apice del sistema Paese, che hanno quindi il potere di cambiare davvero le cose, non cambino un bel niente per migliorare la situazione delle donne – e si facciano pure chiamare al maschile!
Per questo motivo, sono convinto del fatto che, se sentiremo più spesso i femminili professionali a cui siamo meno avvezzə, non ci sarà più oscura l’idea che le donne sono destinate a essere tutto ciò che vogliono, non solamente “mogli e madri”.
Note
- Michela Murgia, Stai zitta (Torino: Einaudi, 2021), 5.
- Ivi, 8-9.
- Il Post, “Il ‘mansplaining’, spiegato”, Il Post, 21 novembre 2016, https://www.ilpost.it/2016/11/21/mansplaining/.
- Vera Gheno, Potere alle parole (Torino: Einaudi, 2019), 135.
- Ibidem.
- Ibidem.
- Ivi, 136.
- Ibidem.
- Ivi, 137.
- Ivi, 138.
- Vittorio Coletti, “Nomi di mestiere e questioni di genere”, Accademia della Crusca, 21 febbraio 2021, https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/nomi-di-mestiere-e-questioni-di-genere/9160.