Dipinto di blu: dalla spiritualità alla tristezza, il significato del blu nell’arte
Come ricorda anche il titolo del nostro editoriale, il blu è un colore, al giorno d’oggi, solitamente associato con la tristezza, o tutt’al più la calma, soprattutto nella lingua inglese (sicuramente avrete sentito parlare del Blue Monday, il cosiddetto “giorno più triste dell’anno”).
Tuttavia, nella storia dell’arte quest’associazione non è sempre stata vera: senza pretenderci esperti in materia, ci piacerebbe condurre lə nostrə lettorə attraverso un piccolo viaggio in un colore molto particolare – e che probabilmente è anche il vostro preferito, almeno stando a questo articolo della BBC.
Nell’arte occidentale, il blu fa una comparsa piuttosto tardiva e ricopre un ruolo tutto sommato marginale: non ve n’è traccia nelle pitture rupestri e anche nell’Antica Grecia non sembra essere uno dei colori principali, che secondo Plinio il Vecchio sono giallo, rosso, bianco e nero. È piuttosto famoso l’aneddoto secondo il quale i Greci non “vedessero” il blu o, meglio, non avessero una parola per descriverlo. Omero, ad esempio, non utilizza mai una parola traducibile esclusivamente come “blu” nelle sue epiche, neanche per descrivere il mare, che famosamente definisce “del color del vino”. È vero che in greco antico esistono i lemmi γλαυκός (glaukòs) e κυάνεος (kyàneos) – da quest’ultimo deriva l’italiano “ciano” – ma non è possibile usarli nello stesso modo in cui noi usiamo la parola “blu”. Difatti, γλαυκός poteva indicare una gamma di colori variabile dal nostro blu al grigio e, molto spesso, era usata per descrivere gli occhi delle dee, Atena soprattutto, intendendo però soprattutto un più vago colore chiaro degli occhi e non uno specifico azzurro. Più specifica la parola κυάνεος, che però non era usata per indicare l’essenza di un colore, bensì uno stato di sofferenza o, più concretamente, il lapislazzulo.
Ovviamente, questo non significa che i Greci non vedessero o non utilizzassero il blu (ci sono tracce di questo colore, ad esempio, sugli sfondi di alcuni affreschi cretesi), ma evidentemente non avevano la necessità di designare nello specifico questo colore. Similmente, i Romani preferivano derivare la parola per descrivere il blu e l’azzurro dal cielo: caeruleus, da cui il nostro “ceruleo”.
La ragione di questa scarsa popolarità del blu è presto detta: nelle zone mediterranee, il colore blu non esisteva. O meglio, bisognava importarlo. In antichità, infatti, il pigmento blu oltremare poteva essere derivato solo dal lapislazzuli, pietra dura estraibile esclusivamente nella miniera di Sar-e-Sang, in Afghanistan. Altri tipi di blu, usati principalmente per tingere i vestiti, erano ricavati dall’indaco proveniente dall’India oppure dalla pianta di guado (Isatis tinctoria), diffusa soprattutto oltralpe: è con la tintura azzurra derivata dai suoi fiori che i Britanni si tingevano il viso, guadagnandosi il soprannome di “pitti”, o picti, e contribuendo probabilmente alla ridotta fama di questo colore tra i nostri non inclusivissimi antenati.
Poco male: nel frattempo il blu era ampiamente utilizzato in Mesopotamia e Iran, come dimostra la meravigliosa Porta di Ištar, di fattura babilonese, oggi ricostruita al Pergamonmuseum di Berlino e quasi interamente laccata di blu. Inoltre, anche in Antico Egitto questo colore era molto amato: esso veniva considerato un buon auspicio per i morti e collegato al cielo, all’infinito, quindi alle divinità: non è raro trovare amuleti tombali laccati di azzurro o decorazioni cerulee sulle bende per la mummificazione. Anche alcuni dettagli, tra cui gli occhi, della maschera funebre di Tutankhamon sono laccati di blu. A causa del considerevole costo d’importazione del lapislazzulo, tuttavia, gli egizi si ingegnarono per produrre un pigmento blu chilometro zero: è il cosiddetto blu egiziano, ottenuto macinando silice, calce, rame e alcali e riscaldando il tutto a 800-900 °C. Per ottenere blu più scuro, si sostituiva il cobalto al rame.
È interessante notare come non fossero solo gli Egizi ad associare valori spirituali al blu: per i Maya, infatti, esso era il colore dei sacrifici. La creazione del cosiddetto “Blu Maya”, pigmento ancora oggi incredibilmente resistente ad ogni tipo di solvente, faceva parte dei rituali presso il Sacro Cenote, una sorta di pozzo naturale in cui indaco, attapulgite e incenso venivano fusi insieme per ottenere una tintura con cui dipingere i corpi delle vittime sacrificali e gli utensili legati al rito.
Inoltre, col diffondersi del buddhismo in Oriente, si comincia a tingere di blu anche il Buddha Bhaiṣajyaguru, “Maestro della medicina” in sanscrito, la cui pelle viene appunto descritta del color dei lapislazzuli. Sempre questo pigmento era largamente utilizzato nelle miniature persiane. Spostandoci verso l’Impero Romano d’Oriente, non è raro incappare in mosaici dai cieli blu scuro (ne sanno qualcosa anche gli amici ravennati e il Mausoleo di Galla Placidia).
Nel primo Medioevo europeo il blu continua a ricoprire un ruolo marginale, sia nell’arte che nell’abbigliamento. Solo nel XII secolo le cose cominciano a cambiare, principalmente per il diffondersi e l’evolversi del culto della Vergine Maria che, grazie al nuovo pigmento blu oltremare importato dall’Asia, verrà associata a una veste azzurra (precedentemente era abbigliata con colori scuri, dal nero al viola al verde scuro) simbolo di umiltà, purezza e santità. La veste azzurra rimarrà un simbolo della Vergine per i secoli a seguire, anche per l’esorbitante costo sia del blu oltremare, che degli altri pigmenti blu.
Sempre per questo motivo, anche negli abiti il color del mare cominciò a diventare un simbolo di ricchezza e nobiltà, sostituendo i porpora e rosso dei periodi precedenti. In particolare, fu la corte francese, a partire da Luigi VIII, ad adottare vesti e vessilli blu.
Senza stare a riassumere secoli e secoli di Storia dell’Arte, limitiamoci a dire che il blu continuò a essere usato in relazione a simboli religiosi (ma spesso con parsimonia: il suo costo poteva arrivare a superare anche quello dell’oro!) o come simbolo di ricchezza, con un progressivo spostamento verso il realismo rappresentativo.
Per campanilismo e per amore delle liste, citiamo, in ordine cronologico, quattro celebri opere di nostri connazionali in cui questo colore la fa da padrone: la volta stellata, rappresentante il Paradiso, della Cappella degli Scrovegni a Padova, opera di Giotto; la bella Madonna di Foligno di Raffaello, in cui il pigmento blu è mischiato alla biacca per attenuare il contrasto con i colori caldi; il Bacco e Arianna di Tiziano esposto alla National Gallery; il Giudizio universale e in generale gli affreschi della Cappella Sistina di Michelangelo.
Per quanto riguarda l’abbigliamento e l’uso quotidiano del blu, con lo sviluppo delle rotte commerciali i pigmenti meno costosi, principalmente l’indaco indiano, diventarono agguerriti avversari, prima nel Nord e poi nel resto dell’Europa, del guado autoctono; il colore ottenuto era infatti più resistente ai lavaggi, sbiadiva meno in fretta e richiedeva un processo di lavorazione meno lungo e meno costoso. Le corporazioni dei tintori tentarono di opporre resistenza, ma l’inevitabile scorrere del tempo popolarizzò l’opzione meno costosa, finendo per rendere gli abiti blu accessibili anche a fasce meno abbienti della popolazione: ad esempio, nei quadri di Vermeer moltissimi soggetti umili, come la sua famosa Lattaia, indossano indumenti di questo colore. Ancora oggi si utilizza l’indaco (sintetico) per tingere il capo d’abbigliamento blu, forse, più famoso al mondo: i jeans.
Per un’evoluzione nell’uso pittorico del blu (e dei colori in generale) in senso psicologico-espressionista dobbiamo aspettare invece la Belle Époque, quel periodo a cavallo tra XIX e XX secolo brulicante di invenzioni e sconvolgimenti in tutti i campi, compreso quello delle arti figurative. Il blu, il cui costo si era ormai ridotto drasticamente grazie all’invenzione di pigmenti sintetici tra il XVIII e il XIX secolo, comincia a comparire sempre più spesso nelle tavolozze dei pittori. Inoltre, diventa uno degli attori fondamentali nella teoria dei colori complementari adottata, tra gli altri, dagli Impressionisti. Secondo questa teoria, accostando sulla tela due colori tra loro complementari, entrambi verranno esaltati alla vista: per questo, in famosissime opere quali Impressioni: sole nascente di Monet, il blu è affiancato al giallo-arancione senza sfumature intermedie, facendo quasi balzare i colori fuori dalla tela. Inoltre, questo colore fu usato da certi pittori, come Chagall, Gauguin e il gruppo simbolista della Rosa Blu, come simbolo del sogno e della fantasia.
L’aura malinconica dei blu e delle altre tonalità fredde fu particolarmente evidenziata da alcune opere del norvegese Edvard Munch (che soffriva di sinestesia e “vide” la propria tristezza, in seguito alla fine di un legame amoroso, proprio in blu) e poi, com’è noto, da Pablo Picasso, che dedicò a questa tinta un intero “periodo” della propria produzione pittorica, particolarmente legato ad un momento emotivamente e psicologicamente difficile per l’artista a seguito del suicidio dell’amico Casagemas, e popolato da figure impotenti e malinconiche.
Il blu, quindi, ha definitivamente conquistato gli artisti, da Oriente a Occidente. Henri Matisse disse che «Un certo blu ti penetra nell’anima» e ne usò sfumature brillanti in diverse opere, sia dipinti che collages. Nella seconda metà del Ventesimo secolo, il movimento dell’espressionismo astratto cominciò a sperimentare con questo e altri colori svincolandoli da sentimenti o simbolismi, alla ricerca di colori “puri”. E, per quanto riguarda il blu, l’assoluto maestro del colore è sicuramente Yves Klein, che dal 1957 iniziò a usare estensivamente questo colore nelle sue opere, fino a brevettare, con il colorificio Adam, il “proprio” blu, l’International Kline Blue, o IKB, un blu oltremare particolarmente brillante grazie alla miscela del pigmento con una speciale resina.
Complici principalmente Picasso, la musica blues e gli anglismi che ormai dominano il linguaggio moderno, siamo abituati a pensare al blu come un colore, se non proprio triste, quantomeno malinconico e languido. Tuttavia, abbiamo visto che questo accostamento non è sempre esistito: un po’ come tutte le cose, anche i colori non hanno significati o valori intrinseci, ma sono filtrati da tradizioni la cui origine è spesso persa nel tempo – ad esempio, in alcune culture il colore del lutto non è il nero, ma il bianco; in altre le spose si vestono di rosso, non di bianco. Forse possiamo usare questo editoriale come una piccola capsula del tempo. Dunque, smetto di rivolgermi allə lettorə del 2024 e chiedo allə lettorə del 3524: a cosa associate voi il blu? Anzi, già che ci siamo, mi tolgo anche un paio di curiosità: L’Eclisse è diventata una testa ricca e famosa? E Bruno Vespa conduce ancora Porta a porta?