Sei sculture scandiscono il percorso della prima mostra personale in Italia di Ron Mueck, allestita fino al 10 marzo 2024 nelle sale del Palazzo dell’Arte di Milano, accompagnate da due video dedicati al suo lavoro, realizzati dal fotografo Gautier Deblonde. Tuttavia, questo numero esiguo di opere satura a tal punto gli spazi da sovrastare lo spettatore con la loro monumentalità. Altrettanto esiguo è il numero di sculture prodotte da Ron Mueck nel corso della sua carriera, quarantotto in totale, dovuto alle difficoltà e alla perizia tecnica che comporta produrle.
Nato a Melbourne, in Australia, nel 1958 da genitori tedeschi produttori di giocattoli, l’artista si dedicò dal 1979 al 1996 alla realizzazione di modellini e pupazzi per il cinema e per programmi televisivi per l’infanzia, lavorando tra Australia, Stati Uniti e Inghilterra. Nel 1996, l’artista Paula Rego1, sua suocera, gli commissionò una scultura, esposta alla mostra Spellbound: Art and Film alla Hayward Gallery di Londra: disturbante nel suo iperrealismo, “Pinocchio” presentava già i tratti fondamentali della sua produzione successiva. Il burattino sembra sul punto di prendere vita, così come accade nella favola, grazie alla maestria dell’artista di umanizzare la materia, tanto che ci sembra di essere osservati dallo sguardo malizioso di un bambino che ha appena compiuto una marachella.
Nel 1997 si tenne la mostra Sensation: Young British Artists from the Saatchi Collection alla Royal Academy of Arts di Londra, fondamentale per lo sviluppo della storia dell’arte contemporanea poiché fu l’occasione in cui vennero presentati i lavori più provocatori degli artisti appartenenti alla Young British Art, tutti nella collezione del gallerista Charles Saatchi. Questo movimento artistico, formatosi alla fine degli anni ’80, comprendeva artisti legati dalla volontà di sorprendere lo spettatore attraverso i mezzi più disparati e di provocare reazioni nel pubblico. Donald Thompson racconta dello shock provocato dall’opera Myra, «un ritratto (340 × 270 cm) di Myra Hindley, serial killer di bambini, eseguito dall’artista Marcus Harvey. Il soggetto era copiato da una foto segnaletica della polizia e nel quadro comparivano impronte delle mani di un bambino ricoperte di vernice». All’inaugurazione, «due uomini lanciarono uova e inchiostro sull’opera, che dovette essere rimossa per la pulizia e fu poi riesposta coperta da una pellicola trasparente e protetta da guardie. Il clamore causato da Myra fu tale che si diceva che i tassisti non avessero bisogno di altre indicazioni dai turisti se non la frase: “Mi porti a quella mostra”»2. Chris Ofili vi espose Holy Virgin Mary, vergine Maria dal seno realizzato con sterco di elefante e circondata da angeli dalle ali composte da fotografie pornografiche; Damien Hirst l’opera The physical impossibility of death in the mind of someone living, uno squalo in formaldeide lungo più di cinque metri; Tracey Emin realizzò la tenda chiamata Everyone I Have Ever Slept With 1963–1995, al cui interno elenco i nomi di tutti coloro con cui era stata a letto nel corso di quegli anni. Tra queste opere, sul pavimento della galleria giaceva la scultura di Ron Mueck, Dead dad, ovvero la riproduzione in scala estremamente ridotta del corpo morto di suo padre. L’artista sconvolge lo spettatore costringendolo ad un confronto diretto con il destino di morte rappresentato attraverso la fragilità di un corpo nudo, vero e proprio memento mori, monito che costringe a fronteggiarsi con la vulnerabilità della vita umana.

Questa distorsione delle dimensioni a cui Mueck sottopone i propri soggetti, elemento fondamentale della sua pratica artistica, caratterizza le opere presenti in Triennale a partire da In bed, realizzata nel 2005: lo spettatore viene accolto da una scultura di sei metri di lunghezza e poco meno di quattro di altezza che rappresenta una figura colta nell’intimità del suo letto. A seconda del lato in cui si osserva, il volto sembra tanto quello di una donna quanto quello di un uomo, rappresentando una condizione di intima riflessività che potrebbe essere propria di chiunque. La distorsione delle dimensioni carica di potenza onirica la scultura, la quale nell’immaginario dello spettatore può richiamare alla memoria i ricordi dell’infanzia, quando i genitori nel letto sembravano così grandi da sembrarci irraggiungibili.
In quali pensieri e riflessioni sia immersa l’imponente figura, non ci è dato sapere. Una chiave di lettura potrebbe derivare dal confronto con la sala successiva che ospita l’opera più monumentale della carriera dello scultore. Mass, presentata per la prima volta nel 2017 durante la Triennale inaugurale della National Gallery of Victoria a Melbourne, comprende cento teschi alti circa un metro e mezzo in fibra di vetro e resina, ognuno caratterizzato da una variante che lo distingue dagli altri, rendendolo unico. Lo spettatore viene sovrastato mentre attraversa un inquietante percorso che lo porta a fronteggiarsi direttamente con la propria mortalità. È forse il pensiero della morte che attanaglia la figura distesa della sala precedente?
L’esortazione memento mori, letteralmente “ricordati che devi morire”, tieni sempre a mente la fragilità della vita umana e non farti sedurre dall’illusione di immortalità dei beni terreni, è tipica dell’antichità classica e si trova in innumerevoli opere d’arte, raggiungendo l’apice della popolarità nella pittura del Seicento. Mueck satura lo spazio di questo ammonimento, portandolo al limite delle sue dimensioni spaziali. Inoltre, il titolo dell’opera la carica di un’ulteriore valenza simbolica poiché il termine “mass”, in inglese può significare tanto “massa”, quanto “messa”: quello in cui siamo coinvolti potrebbe essere il cimitero di un evento tragico che ha coinvolto una massa. Oppure, seguendo la seconda traduzione, lo spettatore di fronte all’ineluttabilità del proprio destino di morte è chiamato dall’artista a un misterioso rito religioso? È forse questo il modo in cui l’arte può sostituirsi alla religione?
Le domande rimangono senza risposta, poiché Mueck non si esprime riguardo le proprie opere, affermando esclusivamente la propria volontà di lasciare allo spettatore la libertà di interpretarle secondo le emozioni che esse gli suscitano. Questo silenzio dell’artista costituisce il sottofondo ai due video presentati nella terza sala, Still Life: Ron Mueck at Work e Three Dogs, a Pig and a Crow, realizzati dal fotografo Gautier Deblonde, che documentano la lunga, difficoltosa e meticolosa produzione delle opere dello scultore.
L’ultima sala si apre con una figura enigmatica, Woman with sticks, realizzata nel 2009, una donna nuda che fatica a reggere un fascio di legni che la sovrasta e la spinge a incurvarsi sotto il proprio peso. Qui l’artista sembra riflettere sulla materialità di un corpo flaccido che, nella sua purezza distorta in proporzioni falsate, resiste alla pesantezza della natura, nello sforzo di trattenerla.

La natura e il corpo sono i due temi che si intrecciano in questa sala, uniti nella scultura apparentemente non finita This little piggy, realizzata nel 2023 e ispirata a un passaggio del romanzo Pig Earth di John Berger: quattro uomini sono intenti allo svolgimento di un momento quasi sacrale nella vita contadina, ovvero l’uccisione del maiale. Il rito cruento costituisce un ulteriore motivo di riflessione riguardo la precarietà di una vita che può essere tolta con la violenza estrema dell’uomo che si fa animale in un impasto unico di materia.

L’opera En garde (2023), realizzata attraverso il processo di stampa 3D, dialoga con questa scultura non finita costringendo lo spettatore a una situazione di potenziale violenza nel momento in cui si trova a fronteggiare tre enormi cani: chi deve stare “in guardia” tra i due attori coinvolti in questa dinamica? Lo spettatore che assume il ruolo di preda della bestialità del gruppo scultoreo, o, viceversa, l’animale attaccato nuovamente dall’uomo?

La mostra si chiude con una scultura, Baby (2000), le cui dimensioni estremamente ridotte (appena venticinque centimetri), costituiscono quasi un sollievo per lo spettatore, fino ad ora costretto al confronto con figure monumentali. Ci si trova di fronte a un simbolo estremo di umanità: un neonato appeso alla parete come un Cristo crocifisso. Posto alla fine di un percorso iniziato con una figura adulta, articolato attraverso ataviche immagini di morte e violenza naturale, esso assume su di sé la tragicità della nascita dell’uomo, costretto nel momento stesso in cui viene al mondo a fronteggiare l’ineluttabilità di un destino senza apparente scopo. Inoltre, ponendolo in quella posizione specifica sulla parete, Mueck sembra proporre una nuova icona religiosa che nel suo realismo più estremo incarna l’uomo nell’uomo. Eppure, il bambino, con quello sguardo provocatorio e quasi maligno, quasi respinge il ruolo sacro a cui è stato destinato dall’artista.

Note
- Riguardo a Paula Rego https://rivistaeclisse.com/2022/11/23/biennale-arte-2022/
- Donald Thompson, Lo squalo da 12 milioni di dollari, Mondadori, Milano, 2017, p. 123

di Greta Beluffi
Laureata in Lettere classiche e studentessa di Storia e Critica d’Arte a Milano: mi chiamo Greta e ho 22 anni. Vivo di arte e di Spritz ma, si sa, “mens sana in corpore sano”, e lungo i moltissimi km di corsa giornalieri amo pensare al marxismo, alla psicanalisi lacaniana e alle letture post strutturaliste delle opere d’arte, di cui spero di poter scrivere senza far storcere il naso a chi, come me, non si intende di filosofia.