Oggi, ancora una volta, ancora un altro anno, sono qui a parlare di e per l’8 marzo. Non ho molto da dire, se non che sono arrabbiata. E oggi parlerò esattamente di questo: di rabbia. Una donna arrabbiata fa paura. O meglio, farebbe paura se non esistesse il doppio standard, perché se sei arrabbiata, in fondo “non lo sei mai del tutto” oppure “hai le tue cose”, e dunque sei isterica e preda degli ormoni. Eppure ve lo ripeto,: una donna arrabbiata fa comunque paura. La storia ce lo insegna: il patriarcato esiste dall’alba dei tempi per un motivo preciso, non esclusivamente riconducibile ad Aristotele con la vecchia storia di “ragione (maschile) e sentimento (femminile)”. Il patriarcato esiste per opprimere le donne, ma non perché ha paura delle donne, bensì del femminile. In origine aveva paura del femminile perché esso possedeva la capacità di dare la vita, sia in senso fisico, quindi generativo, sia in senso intellettuale successivamente. Il patriarcato ha poi avuto paura del femminile perché, quando le donne, nel corso delle varie ondate, hanno iniziato a decostruire quel tipo di oppressione, lo hanno fatto sì da sole, ma soprattutto insieme, e tante donne arrabbiate fanno ancora più paura di una sola. È il principio della sorellanza, anche Carla Lonzi lo diceva:
«A me piace essere lo strumento di liberazione di un’altra e mi commuove saperlo mentre lei ancora non lo sa»1.
La sorellanza e la rabbia fanno tanto, infatti: è proprio di questa settimana la notizia dell’aborto diventato diritto costituzionale in Francia, votato dalla quasi totalità dei parlamentari in aula (780 favorevoli su 72 contrari). La Francia, come sempre succede, ha dato una lezione all’Europa. Sono arrabbiata perché in Italia, a meno di un miracolo (cioè che cada questo governo, ndA), ciò non accadrà mai. D’altronde che cosa possiamo aspettarci da un Paese che ha un numero così alto di ginecologi obiettori di coscienza (63,4%, tra i quali un’altissima percentuale di medici anestestisti e altro personale medico; dati dal report 2023 del Ministero della Salute), o peggio ancora che scoraggiano una donna (in genere consapevole del suo corpo e della sua scelta) dall’abortire, costringendola ad ascoltare il battito del feto. Sono arrabbiata perché, mentre l’Italia è sintonizzata sul Nove per sentire l’intervista di Fazio a Chiara Ferragni per sapere in modo morboso i retroscena della “separazione del secolo”, solo a febbraio sono morte circa cinque vittime di femminicidio, e nessuno (e quando dico nessuno intendo i giornali e l’informazione nazional popolare, ndA) ne ha parlato. Questo è un grosso problema.
Dal femminicidio di Giulia Cecchettin, l’informazione a riguardo è calata drasticamente, mi ci ha fatto riflettere un post di @aesteticasovietica: da una parte, siccome i femminicidi dopo un po’ risulterebbero tutti simili tra loro, allora non meritano uno spazio tra le altre notizie perché non “notiziabili”, dall’altra ciò che fa notizia è il ruolo che gioca l’aspetto e il profilo socio-culturale della vittima. Questo significherebbe, per chi fa informazione a riguardo, che siccome Cecchettin era una ragazza giovane, carina di carattere, realizzata, e la notizia è stata raccontata all’inizio come “fuga amorosa”, allora era più “vittimizzabile” (quindi sessualizzabile) rispetto a quelle successive, ritenute “soggetti non interessanti” (perché magari casalinghe, o poco istruite, o perché il carnefice non aveva un profilo abbastanza da “orco” o da “ragazzo pulito”).
Sono arrabbiata perché nelle guerre a rimetterci sono sempre bambini e donne: così come successe nel massacro di Bucha del 2022, dove venne fuori successivamente degli stupri che avvenivano prima ancora che il villaggio fosse distrutto, così è stato reso noto dall’ONU il report sugli stupri compiuti dai militanti di Hamas già dal primo giorno, lo scorso 7 ottobre, del conflitto israelo-palestinese, e durante il festival musicale Supernova, e nel kibbutz Re’im. Sono arrabbiata perché continuo a leggere di divario salariale tra uomini e donne, dove sono le donne a guadagnare il 10% in meno degli uomini e dove il tasso di occupazione femminile è al 51% sotto la media europea. La mia rabbia non è nuova.
Il femminismo da sempre è arrabbiato, e da secoli combatte con queste problematiche. Dalle canzoni alla letteratura, le donne parlano sì di amore, ma anche e soprattutto di rabbia. Ne è un esempio la mia amatissima Ada Negri –delle poetesse di inizio Novecento è una delle più femministe insieme a Sibilla Aleramo – che in un componimento dal titolo esemplare, Io, si descrive non arrabbiata, ma decisamente furiosa, nel pieno di una rivolta per i diritti dei minatori:
[…] Ero una furia, coi capelli a serpi,
colle fiamme negli occhi, con le labbia
sfigurate dagli urli. Ebbra di rabbia
i sassi disselciai, svelsi gli sterpi,
maledissi, colpii, caddi, travolta
venni sotto lo scalpito irrompente
dei cavalli. E passò sulle mie spente
membra il sinistro orror della rivolta.
Nel 1975, a metà della seconda ondata, venne pubblicato un album estremamente significativo, i Canti di donne in rivolta ad opera del Canzoniere femminista, ensemble musicale, facente capo al Comitato Padovano per il Riconoscimento del Salario alle Casalinghe, che rielaborò brani di lotta del 1° maggio in chiave femminista. C’è un brano, dal titolo Noi siamo stufe, che elenca esattamente tutto quello che mi fa arrabbiare, e che voglio riportare qui integralmente:
Siamo stufe di fare bambini
lavare i piatti stirare pannolini
avere un uomo che ci fa da padrone
e ci proibisce la contraccezione
Noi siamo stufe di far quadrare
ogni mese il bilancio familiare
lavare, cucire, pulire, cucinare
per chi sostiene che ci mantiene
Noi siamo stufe della pubblicità
che deforma la nostra realtà
questa moderna schiavitù
da oggi in poi non l’accettiamo più
Noi siamo stufe di essere sfruttate
puttane o sante venir classificate
basta con la storia della verginità
vogliamo la nostra sessualità
Ci han diviso fra brutte e belle
ma tra di noi siamo tutte sorelle
fra di noi non c’è distinzione
all’uomo serve la divisione
Noi siamo stufe di abortire
ogni volta col rischio di morire
il nostro corpo ci appartiene
per tutto questo lottiamo insieme
Ci dicon sempre di sopportare
ma da oggi noi vogliamo lottare
per la nostra liberazione
facciamo donne la rivoluzione!
Quanti anni sono passati dal 1975 al 2024? E perché mi sembra che in quasi cinquant’anni sia cambiato poco e nulla?
In queste ultime righe, ho deciso di prendermi un piccolo spazio per qualche mio verso. È un testo che scrissi qualche 8 marzo fa. L’umore di quei versi, a oggi, è rimasto intatto. Ve lo rendo.
Vivo la rabbia
come il sangue;
mi scorre calda dentro.
Non soffro
del moto d’indignazione
che mi pervade.
Lo difendo,
salda nel mio genere,
spinta
dall’esigenza
dello scardinare
limen imposto
da un maschile che
non mi appartiene,
patriarcale.
Quello cieco.
Quello che vede rosso, il toro, non ascolta.
Quello che non parla, preso da voglia vuota.
Quello che si svuota sul momento,
senza essenza,
eco sciolto,
una pulsione.
Non capirò mai
il maschile del sesso afono;
solo maschio, poco uomo.
Rabbia,
sostantivo femminile singolare.
Un fatto collettivo,
un fatto personale.
Fiera che m’appartenga.
Buon otto marzo di rabbia, sorelle.
Note
1. Lonzi, Taci, anzi parla: Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1978
2. Negri, Ada, Dal profondo, Treves Editori, Milano, 1910.
di Marta Urriani
Da venticinque mi chiamano Mafalda, questo perchè dagli stessi anni esercito il legittimo diritto di essere polemica e logorroica. In genere lo faccio sorseggiando caffè di giorno e camomilla di notte. Studio Lettere Moderne alla Sapienza di Roma, dove ho incontrato (e mi sono innamorata) della letteratura delle donne. Se non mi vedete in circolazione, è perchè probabilmente sono immersa dentro qualche libro. Sono la quota femminista de L’Eclisse, nonché faccio rispettare le sacre regole della Grammatica italiana correggendo gli articoli: con gentilezza, ma senza pietà.