Quasi due anni fa, nel 2022, mi trovavo alla Mostra del Cinema di Venezia e aspettavo il momento in cui avrei finalmente visto TÁR, diretto da Todd Field, come un bambino che aspetta il dessert più appetitoso di sempre a fine pasto e presta poca attenzione a tutto ciò che lo precede. La smania di posare gli occhi sulla prima scena e di aprire quel film a metà per dissezionarne con acribia ogni dettaglio divorava da dentro il mio animo da cinefila novellina, al tempo ignara di come 158 minuti potessero stravolgere il mio modo di andare al cinema, senza chiedermi il permesso.
Fu così che mi ritrovai al Lido di Venezia, ore 22, in una sala circondata dal mare che avrebbe proiettato per la prima volta nel mondo TÁR: io, una mia amica e la stampa munita di pc, carta e penna, pronta ad avere l’esclusiva e preparare il resto delle persone a ciò che avrebbero visto di lì a pochi mesi nelle sale italiane.
Quello che accadde allo spegnimento dello schermo tutt’ora non mi è chiaro. Un misto di amarezza, confusione e vigliaccheria mi pervase quando arrivò il momento di giudicare ciò che avevo appena visto. Portandomi dietro una cospicua dose di schiettezza, so che se avessi parlato prima di riflettere con me stessa, avrei provocato un indicibile senso di Schadenfreude1 nell’animo di chi era partito prevenuto e mi aveva perentoriamente informato del poco successo che TÁR avrebbe avuto; non potevo permetterlo. Così, me ne andai con la coda fra le gambe e passai un’intera settimana in una sorta di limbo.
Cos’era successo? Non avevo capito il finale. O meglio, niente e nessuno era in grado di dare una risposta alle domande che questo film aveva risvegliato in me. Eppure, questa è l’essenza di Venezia: poiché non esistono ancora articoli o interviste a riguardo, ci improvvisiamo critici cinematografici delle pellicole presentate al Lido, tentando di dare un giudizio quando ancora non si conoscono le argomentazioni dell’accusa e della difesa. Fa parte dell’esperienza al Festival, e io ne ero consapevole.
Allora perché questa volta sentivo che c’era qualcosa di diverso?
TÁR è un film estremamente criptico nel suo insieme e di non facile interpretazione. Inizialmente, ero disturbata dall’alone di mistero che lo avvolgeva, ma mi ci volle ben poco per capire che è proprio quello l’elemento fondamentale per far sì che un film abbia lunga vita nella memoria delle persone. Pensateci: una banale commedia romantica potrebbe esaurirsi nella durata della sua proiezione, altra storia sono quei capolavori che ti fanno litigare con gli amici su quale sia l’interpretazione corretta da attribuirgli; sono proprio quelli che, una volta tornati a casa, rendono difficile addormentarsi ripensando a quel finale così ambiguo, al quale nessuno ha saputo conferire un significato certo.
Nella testa mi riecheggiavano le lezioni della mia professoressa di Teoria e analisi del linguaggio cinematografico, nonché unica artefice dell’opportunità di partecipare al Festival, colta da me più velocemente di quanto si farebbe con un quadrifoglio. Conosciuta per la sua vasta ricerca sul lavoro di André Bazin, critico cinematografico francese nato nel 1918, mi spinse a riflettere sul tema del finale aperto nei film.
Bazin è per me il miglior critico cinematografico del secondo dopoguerra e l’unico pensatore responsabile di aver conferito al cinema il prestigio sia di oggetto di conoscenza che di forma d’arte. Per lui, l’origine fotografica2 della pellicola spiega la novità e il fascino del mondo del cinema3 e l’immagine è una sorta di doppio del mondo, un riflesso pietrificato nel tempo ma riportato in vita dalla proiezione, quindi tutto ciò che viene filmato, in precedenza, era reale. Il suo pensiero è fondamentalmente olistico e risiede nella dissezione estetica: secondo Bazin, il regista ottiene il potere di rendere lo spettatore il più vicino possibile alla percezione di un evento reale attraverso lo stile, che non è qualcosa da esprimere, ma un orientamento interiore che consente una ricerca esteriore. Poiché l’intento del critico francese è quello di scoprire nella natura dell’immagine fotografica un tratto oggettivamente realistico, il concetto di realtà oggettiva come qualità fondamentale dell’inquadratura cinematografica divenne la chiave del suo lavoro teorico e critico4.
Facendo un’analisi della magistrale opera di regia di Roberto Rossellini in Paisà (1946), André Bazin scrisse:
«Di solito [le scelte e le omissioni di un cineasta] tendono a ricostruire un processo logico in cui lo spirito passa senza fatica dalle cause agli effetti. La tecnica di Rossellini conserva senza dubbio una certa intelligibilità nella successione dei fatti, ma questi non si ingranano l’uno all’altro come una catena su un pignone. Lo spirito deve saltare da un fatto all’altro, come si salta di pietra in pietra per attraversare un fiume. Capita che il piede esiti a scegliere fra due rocce, o che manchi la pietra o che scivoli su una di esse. Così fa il nostro spirito.»5
Non dimenticherò mai il significato di queste righe. Quello che Bazin sta dicendo, comparando Paisà al cinema classico, è che la tecnica di Rossellini presenta una peculiarità: ci mostra i fatti così come noi vediamo la realtà, la vita di tutti i giorni, della quale non abbiamo spiegazioni o finali chiusi di facile interpretazione. Nel cinema classico ciò che noi vediamo è rappresentato pensando alla chiarezza narrativa a discapito della veridicità; grazie al montaggio, lo spettatore attraversa il fiume della narrazione senza fatica e raggiunge un finale senza ambiguità. In Rossellini, proprio perché il montaggio non risponde ad una logica della narrazione, capita che ci siano interpretazioni diverse.
Mettendo in luce l’effetto di realtà inscritto nella tecnica rosselliniana, Bazin aggiunge che il cinema di Rossellini è aperto alla cooperazione interpretativa e implica uno spettatore impegnato a riempire i buchi tra un’immagine e l’altra6, ma ciò non preclude il fatto che l’intervento del regista sia infinitesimale, al contrario: quando i film sono caratterizzati da una dimensione documentaria, significa che sono frutto di una ricerca stilistica.
Ripensando a TÁR in chiave baziniana, dunque, ho notato che ciò che Todd Field ci mostra non è piegato dalla narrazione, ma presentato come lo sarebbe nella vita reale. Lo spettatore è inizialmente posto dinanzi a fatti bruti. In seguito, gli viene chiesto di selezionare quello che ritiene importante e di scartare gli elementi che, secondo lui, sono stati inseriti solo ad colorandum, accettando l’eventualità che la nostra interpretazione possa essere diversa da quella di altri («Capita che il piede esiti a scegliere fra due rocce, o che manchi la pietra o che scivoli su una di esse»). In film come TÁR e Paisà, il regista non fa questo lavoro di selezione preventiva per noi. Allo stesso modo, la realtà non è mediata da un “terzo”, esterno alla nostra vita: nessuno ci dice in che ottica guardare un certo avvenimento ed è per questo motivo che ognuno ha una visione diversa dei fatti e nessuno ha mai completamente ragione.
Proprio come Bazin scriveva: «I fatti si susseguono e la mente è costretta a constatare la loro somiglianza; e così, richiamandosi a vicenda, finiscono per significare qualcosa che era insito in ciascuno e che è, per così dire, la morale della storia: morale che la mente non può non cogliere poiché tratta dalla realtà stessa.»7
Per usare un termine inglese, direi che Todd Field “killed many of his darlings” (letteralmente “ha ucciso molti dei suoi cari/tesori”), ovvero ha scelto di tagliare molte scene ritenute da lui “di troppo” in fase di montaggio, per permettere allo spettatore di creare una propria narrativa, senza indirizzarlo eccessivamente verso ciò che TÁR significa per i suoi ideatori.
Alcune delle interpretazioni di questo film suggeriscono che tutto ciò che segue la scena in cui Lydia Tár viene attaccata da una sorta di cane randagio nei sotterranei di un edificio abbandonato sia frutto di un sogno o un’allucinazione della protagonista. Ai miei occhi TÁR vuole essere il racconto della rovina professionale e personale di una direttrice d’orchestra che nella vita ha osato troppo. Il finale, che per quanto mi riguarda non è in nessun modo la conclusione al sogno allucinato di Lydia di cui parlano alcuni spettatori, è piuttosto comico se comparato alla dimensione algida caratterizzante tutto il resto del film; ma dopo molte riflessioni (e dissezioni da me tanto auspicate) sono stata in grado di trovare una risposta soddisfacente a quella scena.
La tipologia di cuffie che la protagonista indossa per dirigere il concerto Monster Hunter9 potrebbe avere la particolarità di farle sentire una sorta di metronomo, un “click” computerizzato e predeterminato che permette all’orchestra di sincronizzarsi con il video proiettato alle loro spalle. Questo è un dettaglio cruciale se pensiamo alla scena d’apertura del film: Lydia Tár, intervistata al The New Yorker Festival, dichiara che la sua fonte di potere principale come conduttrice è la possibilità di manipolare il tempo attraverso il ritmo. Oltre ad essere un’umiliazione per lei, quest’ultima scena la priva completamente della sua supremazia e la rende un burattino nelle mani del tempo: abbiamo assistito al rapido declino del personaggio e il finale, a mio avviso, potrebbe mostrarci proprio questo.
La verità, però, è che questo film è in grado di essere qualunque cosa tu ritenga esso sia; Field e l’intero cast in primis sono sempre stati sfuggenti e riluttanti nel rispondere alle domande dei giornalisti tormentati dal finale10, ma hanno così adempiuto all’obiettivo principale di TÁR. Non ci sono risposte, proprio come nella vita. Tutto questo aumenta il nostro senso di realtà rispetto al film. Certo, i dibattiti tra amici cinefili saranno accesi e innumerevoli, ma l’aura quasi allucinata che circonda TÁR è sorprendentemente ciò che lo rende un film più realistico di quelli che ci regalano tutte le risposte e dove la “verità” è chiara, artefatta e univoca.
Ecco perché ho trovato pace ripensando al momento in cui ho lasciato in preda al panico quella sala di Venezia a notte inoltrata, dopo essermi resa conto che, poiché le prime persone ad aver visto quel film stavano camminando con me verso il vaporetto di ritorno, avrei dovuto aspettare giorni interi per avere una risposta certa da terzi. Per giunta, una volta arrivato questo riscontro tanto atteso, le opinioni e le spiegazioni degli altri spettatori non riuscivano a persuadermi, anzi, aprivano in me una miriade di questioni ulteriori e questo circolo vizioso sembrava non avere fine.
Ripensandoci adesso, a distanza di anni, mi dico che probabilmente avrei dovuto vivere quei giorni con più serenità, perché non esiste spiegazione se non quella che scegliamo di dare a noi stessi. Il cinema è pur sempre un’arte e come tale si presta a diverse interpretazioni; quella di non spiegare il finale è una scelta di assoluta magnanimità da parte dei registi, io ho impiegato troppo tempo per accorgermene.
La verità è che una risposta, semplicemente e quasi banalmente, non c’è.
Note
- Il piacere maligno che si prova davanti agli insuccessi e alle sfortune altrui. (Fonte: Vocabolario online Treccani)
- La fotografia, essendo oggettiva, conferisce un senso di credibilità che non si trova in altre forme d’arte come la pittura, ad esempio.
- A. Bazin, André Bazin and Italian Neorealism edited by Bert Cardullo, New York, Continuum International Publishing Group, 2011, p. 5.
- Ibidem.
- A. Bazin, André Bazin and Italian Neorealism edited by Bert Cardullo, New York, Continuum International Publishing Group, 2011, p. 46.
- A. Bazin, Le réalisme cinématographique et l’école italienne de la libération in “Esprit”(1940-), I 1948, no. 141, pp. 58–83.
- A. Bazin, André Bazin and Italian Neorealism edited by Bert Cardullo, New York, Continuum International Publishing Group, 2011, p. 46.
- Serie di videogiochi giapponesi.
- Non faccio riferimento a frasi specifiche, perciò allego un paio di interviste come esempio: TÁR Conversations at LACMA (Los Angeles County Museum of Art) moderated by John Horn, 7 gennaio 2023, TÁR press conference from the 60th New York Film Festival moderated by Dennis Lim
di Alice Borghi
Sono nata nel 2002, ma misuro gli anni in quanti film riesco a guardare tra un Capodanno e l’altro. Mi piace scrivere e parlare, anche in inglese. Il mio magnum opus? Il mio diario. Quando non studio Scienze Umanistiche per la Comunicazione all’Università di Milano, sto probabilmente prendendo sul ridere qualcosa di serio, cercando di capire perché Alice Rohrwacher venga proiettata più all’estero che in Italia o imitando Francesca Fagnani per i miei amici.