In questi giorni di caldo atroce, cosa fare dopo una giornata interamente dedicata allo studio? Semplice: zapping puramente disinteressato, in attesa di sprofondare tra le braccia di Morfeo.
Qualche sera fa, scorrendo tra i canali del servizio nazional popolare (premetto di essere una delle poche creature nyctophile a non avere Netflix, N.d.A.) mi imbatto, su Rai 3, in uno di quei film pressoché sconosciuti ma che, per prendere sonno, come semplice sottofondo, vanno benissimo. Sto parlando di Likemeback (2018, regia di Leonardo Guerra Seràgnoli). Il solo titolo mi ha fatto rabbrividire e pensare immediatamente: “Oh, no, mi va tutto bene, ma l’ennesimo caso clinico che parla di adolescenti, realizzato affinché lo spettatore si senta da esso rappresentato già nel solo titolo inglesizzato e allusivo no, grazie, ne faccio volentieri a meno”. Ma siccome tendo a dare fiducia anche alle cose scadenti e sfrutto ogni occasione, anche la peggiore, per una spassionata riflessione sociale, ho deciso di dare comunque una possibilità ai primi dieci minuti del film. Senza rendermene conto mi sono ritrovata a guardarlo tutto fino alla fine, non per reale interesse, ma perché ogni singolo fotogramma ha suscitato in me una sola domanda: “perché?”.
Andiamo con ordine. Likemeback si presenta come il tipico coming-of-age movie dove tre ragazzine neodiplomate di nome Carla, Lavinia e Danila affrontano il viaggio della maturità in barca a vela, guidate da un aitante nostromo trentenne prossimo al matrimonio. Sullo sfondo, lo sbiadito paesaggio costiero della Croazia, fatto di spiagge, scogli e locali con la musica a palla. Tutta l’esperienza, ovviamente, è accompagnata dalla costante presenza degli smartphone, visti qui come il mezzo della realizzazione sociale. Una vacanza vissuta su Instagram, in sostanza, tra Stories provocanti e post in posizioni ammiccanti, tra like, commenti e reazioni rapide, tra messaggi in direct e incontri organizzati dopo un match su Tinder. Raccontata così, sembrerebbe il possibile scenario nel quale un* adolescente medio potrebbe ritrovarsi. La vicenda (non mi vergogno a fare spoiler), ovviamente, si conclude in modo prevedibile (secondo l’ottica del regista): Lavinia, la ragazza che aveva accordato, dopo aver fissato un appuntamento in un locale con un ragazzo conosciuto su Tinder, scappa a seguito di una tentata violenza sessuale (nel corso della storia si capisce anche che la ragazza si presta alla pubblicazione di contenuti per adulti su piattaforme come Onlyfans), e tornando alla barca vede la sua amica Carla, appartata all’angolo di una strada, avere un rapporto sessuale col nostromo. Forse per vendetta ed invidia, forse per l’alcool, ha la brillante idea di riprenderla col cellulare e postare il video su internet; l’amica scoprirà il video (e la sua grande diffusione) il giorno dopo. La terza, Danila, si perde tra i ragazzi della festa, bevendo fino a perdere ogni cognizione spazio-temporale, ritrovandosi (non si sa con quale dinamica) a dormire nella cabina della barca con una maschera di bellezza sul viso.
Il film ha un andamento monotono ma ciclico: si apre e si chiude nello stesso modo, con due scene simili, ma dagli umori diversi. Il tutto inizia con le tre ragazze che, libere dall’impegno scolastico, si tuffano in acqua: una metafora dell’inizio dell’età adulta, quella nella quale pensano di entrare a seguito della vacanza. Unico momento di verità in una storia il cui copione filmico diventa, in un certo senso, il copione anche della vita reale. Un momento fatto di felicità e spensieratezza vera, come dovrebbe essere a diciotto anni, lontane dalla finzione scenica imposta dai social. Quello stesso realismo lo ritroviamo, questa volta crudo e disincantato, anche nel finale, con le tre ragazze sedute sulla barca con lo sguardo fisso davanti a loro, vuoto, alla ricerca di un perché, più che di una soluzione, agli eventi della sera prima. Le tre ragazze sono personaggi che mancano di spessore caratteriale, quasi stereotipati; l’unico personaggio ad avere una sorta di evoluzione, seppur in negativo, è Carla. Delle tre è l’unica che ha già le idee chiare, un progetto di vita in via di definizione, una vita sentimentale consolidata: insomma, è una ragazza che sembra già adulta nei fatti. Una ragazza comune che, nel microcosmo creato dall’escamotage dalla barca, che accentua quell’idea di solitudine di cui le tre ragazze non sono altro che il riflesso più acceso, sembra perdere completamente il senno. Carla viene continuamente derisa dalle amiche per il suo modo di essere, da loro definito come “pesante”, tanto che, inconsciamente, sarà lei a tirare fuori il suo lato peggiore e forse più nascosto. Questo particolare scenario mostra come l’altra componente costante di questa storia sia il sesso. In questo contesto notiamo come questo elemento intimo non sia vissuto come un momento di crescita e un’esperienza di condivisione con un’altra persona, bensì come il fine ultimo della vita di queste tre ragazze, un mezzo sociale per imporsi, per realizzarsi e ricevere gratificazione personale. Un modo per giocare “a fare le grandi”, quando si è adulti anagraficamente ma non nella pratica.
Questo film, sarò sincera, mi ha lasciato l’amaro in bocca. A prescindere dall’intento di denuncia del regista su questioni come cyberbullismo, revenge porn, dipendenza dai social, ipersessualizzazione, stereotipi, eccetera eccetera, ciò che mi interessa è il ritratto che emerge da questo presunto spaccato di vita. Il ritratto della mia generazione, della nostra generazione. Ho preso questo film, ma avrei potuto prendere una qualsiasi altra serie o film usciti negli ultimi anni: Baby, Elite, Sex Education, The End Of The F****ing World, SummerTime, e via dicendo, solo per fare alcuni nomi. Il discorso non cambia. Mi rendo conto, purtroppo, di come la prospettiva offerta da questo film e da quelle serie sia fin troppo realistica. Non mi sento parte di questa parte di mondo raccontato, né me ne sono mai sentita. Odio gli eccessi e gli estremismi, amo l’equilibrio. Le ragazze del film parlano poco e quel poco che dicono è privo di contenuto, non si guardano negli occhi, se non attraverso la fotocamera interna del loro telefono, unico loro momento di condivisione, non si confrontano su temi che potrebbero diventare un legante, come paure, delusioni, sogni, progetti, musica, film, presente. A diciotto anni hanno già provato tutto e, non avendo più nulla da sperimentare e conoscere, si ritrovano con il vuoto e la noia tra le mani. Semplicemente vivono proiettate nelle vite che hanno deciso di costruirsi nei loro social, vite digitali che lentamente hanno assorbito il loro reale modo di essere e di pensare. Ma allora mi chiedo, riferendomi a molt* ragazz* che sono già su questa strada: volete veramente essere così, o vi comportate così perché credete di non poter essere altro se non quella immagine? Mi è capitato spesso di rendermi tristemente conto della vuotezza e della desolazione della mia generazione: bisogna fare salti mortali per trovare le famose pecore nere della situazione.
Per fortuna, e dico per fortuna, non sono tutti così, ci sono ragazzi, come noi che scriviamo qui di tanto in tanto, che investono tempo in sogni, progetti e che il tempo lo riempiono davvero, con ciò che piace loro davvero, con chi piace loro davvero.
Forse Seràgnoli, nel trarre la morale di questo film, aveva in testa il ritornello di quella canzone dei The Zen Circus, Vuoti a perdere (2009):
La morale che
Ci vuoi mettere
Che morale c’è?
Vuoti a perdere
Tempo al tempo
Senza crescere.