Il 22 Agosto 2021 è uscito su Domani “Lascio a voi la body positivity, io voglio solo essere magro”, un racconto-articolo-sfogo-allucinazione-delirio di Jonathan Bazzi, autore asceso alla popolarità dopo essere comparso tra i finalisti del premio Strega 2020 con il suo romanzo Febbre. Sebbene la mia definizione iniziale vagamente fenomenologica potrebbe lasciar trasparire un mio pregiudizio nei confronti dello scrittore milanese, dovete prenderla, in questo caso, come una difficoltà oggettiva a definire il genere di ciò che ho letto (non nascondo comunque che la produzione di B. non trovi quasi mai la mia approvazione). Chissenefrega del genere e della forma, voi mi direte, siamo nel 2021! Un conto però è districarsi con abilità sintetica tra i generi e creare prodotti meticciati dall’identità letteraria autonoma e stabile, un altro è fare tanto rumore e spacciarlo per musica d’avanguardia. E questo pezzo di Bazzi non ricorda nemmeno vagamente gli splendori, o piuttosto gli abissi, di un Dostoevskij poliziesco e tragico, di un Kafka realista e surrealista, di una Didion saggista cruda e intimista. “Chi pensa bene scrive bene” o, se preferite l’eco ciceroniano della vostra professoressa di latino, “rem tene, verba sequentur”. Qui, invece, troviamo solo un lirismo e un alessandrinismo di chi non conosce la sua meta ed urla per riempire l’horror vacui.
Il mio maggior rimprovero nei confronti dell’autore è di non aver seguito e sviluppato la sua intuizione iniziale: il laissez-faire della body positivity è tanto illusorio quanto l’adesione e l’uniformazione a modelli estetici che ci sono imposti dall’esterno. Siamo trasportati nel Macbeth, atto quinto, scena quinta, in cui un Bazzi invasato dal Dio del soggettivismo postmoderno ci racconta una storia “full of sound and fury, signifying nothing”. Eppure, nonostante il disordine argomentativo-narrativo, vale la pena soffermarsi sulle grida e sulla furia di Jonathan. Quello che, a mio avviso, il suo pezzo sta cercando di dirci è che non c’è una maniera di avere un rapporto non violento con il proprio corpo, poiché tanto la violenza del fare quanto quella del non fare avranno su di esso un effetto trasformante. Non possiamo fare a meno di cambiare e di cambiarci e Bazzi, qui acutamente, sente che è preferibile scegliere un modello che ci soddisfi, per quanto ideale e tossico che sia, piuttosto che scegliere l’ipocrisia della body positivity. Poiché lo scontro con gli altri e con il loro giudizio ci vedrà sempre perdenti (lo scrittore fornisce vari esempi di feedback ricevuti in seguito ai suoi cambiamenti recenti), meglio essere fedeli al proprio desiderio di cambiare, anche se questo comporta rischi per la propria salute psicofisica. Che in altre parole vuol dire che i concetti di salute e malattia sono arbitrari. Che in altre parole vuol dire che non esiste una fonte di verità che sia il soggetto. Bazzi dunque sale a bordo della nave dei folli, una delle imbarcazioni che fanno la loro comparsa in Europa alla fine del Medioevo e attraversano i fiumi senza sosta, e da questa, impersonificando il ruolo dell’insensato, maldestramente, prova ad avvisarci del pericolo che corriamo nel fare della body positivity un’ideologia, una verità oggettiva e unica che marchia come malato chiunque abbia un comportamento difforme alla piena accettazione di sé come si è, pena l’essere tacciati come malati o __phobici.
Questi sono il mio train of thought, la mia esegesi, ed è un peccato che nel racconto di tutto questo troviamo ben poco e questo poco è presentato in maniera disordinata.
Perché prendersela con la body positivity? Bazzi, dotato certamente di una sensibilità spiccata, ha il presentimento che si tratti solo dell’altra faccia della medaglia del conformismo, e si ribella sul palco di questa storia che ha costruito per sé. E in effetti, gli si deve dare atto di aver evocato il fantasma di un problema reale: qualsiasi atteggiamento o pratica che si dica superiore alle altre e pretenda la genuflessione del soggetto e l’esercizio alla fede non è altro che un’ideologia. Un’ideologia che nasconde e mistifica la realtà intersoggettiva e intrasoggettiva dell’uomo. A parole, ci si conforma ai dettami body positive, ma nei fatti i nostri desideri e le nostre azioni dimostrano che l’uomo sceglie sempre arbitrariamente e su base pregiudiziale. La volontà di chi si fa portatore dei vessilli del politically correct e della body positivity, che tanto risulta odiosa a molti intellettuali e artisti, è il voler snaturare l’uomo, il voler proiettare fuori da esso tutto ciò che è scontro, violenza e ingiustizia. Ma questa è una velleità che risulta irrealizzabile, poiché sempre smentita dall’esperienza della vita. Scrive il premio Nobel Elias Canetti, rampollo di una ricca famiglia ebrea spagnola nato nell’attuale Ruse, Romania, nel suo romanzo La lingua salvata, che uno dei suoi primi propositi fu quello di allontanarsi dai pregiudizi di nascita e di casta che dominavano nella sua casa. Finí così per idealizzare gli uomini di umili origini e dover perdonare, ai pochi aristocratici con cui strinse amicizia, la loro estrazione alta. «Tutti i pregiudizi sono determinati da altri pregiudizi, e i più frequenti sono quelli che nascono dai loro opposti». Così, volendosi allontanare da un canone di bellezza rigido e non inclusivo se n’è generato un altro, quello della real beauty, della bellezza naturale che abbraccia tutti quelli che prima erano considerati difetti. I media hanno incluso una nuova popolazione, ben diversa dalla normalità banale di tutti i giorni che la body positivity si proponeva di rappresentare: un esercito di freaks, persone in verità quasi sempre molto vicine agli standard di bellezza tradizionali (bel viso, bei capelli, bel sorriso, corpi tonici anche se di forme diverse) scelte con un particolare difetto che viene strumentalizzato e, per metonimia, dovrebbe rendere quelle totalmente brutte e quindi degne della nostra identificazione. Questa imperfezione dovrebbe avvicinare i modelli in questione a noi persone che guardiamo, ma ci ritroviamo invece ancor più straniate, coi nostri capelli secchi, i nostri denti un po’ storti, i nostri visi asimmetrici, i nostri corpi dalle linee sgraziate, e soprattutto con un’emozione nuova, il senso di colpa. Perché non possiamo anche noi, come questi nuovi modelli fintamente inclusivi, accettarci e mostrarci con tutti i nostri difetti? Siamo passati da standard estetici assolutamente irraggiungibili ad un’eliminazione fittizia di qualsiasi standard estetico. Ogni crema, correttore, trucco, attività fisica, nuovo vestito ci fanno sentire come se avessimo mancato la verità esistenziale che altri hanno compreso, e stessimo ripiegando su un palliativo perché non siamo forti abbastanza per amarci. Dimentichiamo che è precisamente questa la nostra libertà: di poterci modificare finché non sentiamo che quell’immagine allo specchio tanto temuta ci rappresenta. Dovremmo tuttə far maggiore riferimento alle persone transessuali e queer, che scelgono sempre la loro verità prima di qualsiasi altra, quando si tratta dei percorsi da intraprendere per conciliare l’immagine-di-sé con l’immagine-per-gli-altri.
Insomma quello che Bazzi sta provando a dirci – proponendosi come modello di novità, pur nel suo desiderio esibizionistico di far scandalo e provocare, far notizia suscitando sdegno e reazioni contrarie, che precludono necessariamente una riflessione più profonda e articolata (è necessario fare silenzio per pensare e ascoltare i propri pensieri) – è che dobbiamo diventare la fonte della nostra verità. Fare del rispetto di sé, rispetto che deriva necessariamente dalla conoscenza di sé – gnōthi seautón, conosci te stesso, diceva l’oracolo di Delfi – una pratica.
Abbiamo fatto finora l’avvocato del Diavolo.
C’è, dunque, qualcosa di buono nel movimento body positive? Sì, e molto!
Innanzitutto esso rimette al centro della riflessione circa il corpo il soggetto, e prova a superare quel dualismo mente-corpo ereditato dalla tradizione del pensiero cristiano nell’ottica di un benessere sinergico di entrambi.
In secondo luogo, esso chiarisce che la natura del desiderio è mimetica, sottolineando quanto può essere dannosa, soprattutto per i soggetti più giovani e influenzabili, l’esposizione attraverso i media a pochi modelli estetici, spesso falsificati e quindi irraggiungibili, ridotti nel numero e nella rappresentatività.
Il movimento si propone di creare una breve parentesi di epochè, un lasso temporale in cui si prova a sospendere qualsiasi giudizio sulla scorta dei propri pregiudizi e a non conformarsi a nessun modello estetico credendolo oggettivamente superiore ad un altro, che va sfruttata per riflettere riguardo alla propria esistenza come soggetti nel mondo.
In On self respect, uno dei saggi della raccolta Slouching towards Bethlehem, Joan Didion, giornalista, scrittrice e saggista statunitense, scrive: «Il rispetto di sé è una disciplina, un’abitudine della mente, che non si può fingere ma si può sviluppare, allenare, portare avanti. […] Ci lusinghiamo pensando che l’istinto a compiacere gli altri sia una caratteristica attraente: la sostanza di un’empatia fantasiosa, una prova della nostra disponibilità a dare. […] Alla mercé di coloro che non possiamo fare altro che disprezzare (nota: per via della nostra condizione di subalternità), recitiamo ruoli destinati a fallire prima ancora di cominciare […].»
È una pratica, quella che Didion ci invita ad esercitare, che ella chiama self-alienation: la capacità di dire di no, di non fare nulla di ciò che non vogliamo, raggiunta a seguito di un percorso di profonda conoscenza di sé. Il rispetto di se stessi da cui nasce anche l’amore per il proprio corpo può essere raggiunto anche senza salire sulla nave dei folli, ma rimanendo coi piedi saldi per terra, o, per meglio dire, con le radici ben ancorate in noi stessi.
di Nikolin Lasku
Studiavo medicina, mi sono perso e ritrovato a lettere moderne. Leggo di critica sociale da un iPhone lilla. Mi piace scrivere in stile advanced pop e ascoltare l’hyper-pop. Sono su Instagram @lsknkln
“La volontà di chi si fa portatore dei vessilli del politically correct e della body positivity, che tanto risulta odiosa a molti intellettuali e artisti, è il voler snaturare l’uomo, il voler proiettare fuori da esso tutto ciò che è scontro, violenza e ingiustizia. ”
È dalla fine del 2017(dal #metoo) che ormai mi sto abituando a leggere opinioni conformiste scritte come se volessero essere coraggiose e controcorrente, mi viene in mente questa frase “Siamo pur sempre il paese che ha fatto la Controriforma senza avere la Riforma “, insomma beate le minoranze, all’estero, che provano a gran voce a cambiare lo stato delle cose presenti, anzi a “snaturare l’uomo” (sic) come scrivi tu.
Ai miei occhi, che tu commentatore evidentemente reputi cinici e disfattisi, o peggio ancora conservatori, difensori dello status quo e perciò caratterizzati da una vista viziata, la Controriforma e la Riforma protestante rappresentano esattamente la stessa cosa: un idealismo che ne sostituisce un altro. Io non sono convinto e fiducioso di nessuna riforma, o rivoluzione che non parta con un cambiamento radicale del singolo. In questo senso sono anarchico, non credo né nella massa che si riunisce per rovesciare lo status quo, né in una riforma che proviene dall’alto, da un legislatore o da una guida illuminata. È precisamente questo il senso dell’articolo, non certo di sminuire i movimenti, ma di metterne in luce la loro debolezza riformatrice e più in generale criticare una fede nel progresso delle civiltà, che è sottintesa anche nel tuo commento, a mio avviso mal riposta. Solo noi possiamo salvare noi stessi.
“In questo senso sono anarchico, non credo né nella massa che si riunisce per rovesciare lo status quo, né in una riforma che proviene dall’alto, da un legislatore o da una guida illuminata.” C’è chi trova eccitante, in regime di “repressione tollerante”, passarsi per anarchico, naturalmente senza esserlo e senza “farlo” veramente. Più divertente, per “scandalizzare il borghese”, “Contro-corrente” quasi come farsi un tatuaggio nel 2021. evidentemente ti piacciono le cose come stanno, comunque mi rivendico la lotta alla snaturazione dell’uomo.
“La volontà di chi si fa portatore dei vessilli del politically correct e della body positivity, che tanto risulta odiosa a molti intellettuali e artisti, è il voler snaturare l’uomo, il voler proiettare fuori da esso tutto ciò che è scontro, violenza e ingiustizia. ”
È dalla fine del 2017 (dal #metoo) che ormai mi sto abituando a leggere opinioni conformiste scritte come se volessero essere coraggiose e controcorrente, mi viene in mente questa frase “Siamo pur sempre il paese che ha fatto la Controriforma senza avere la Riforma “, insomma beate le minoranze, all’estero, che provano a gran voce a cambiare lo stato delle cose presenti, anzi a “snaturare l’uomo” (sic) come scrivi tu.