Negli ultimi mesi il dibattito circa il linguaggio inclusivo si è diffuso in modo sempre più capillare. Ad esempio, forse qualcuno si ricorderà dell’annosa polemica suscitata intorno a una voce della Treccani, che occupò la gran parte dei media per circa tre o quattro giorni, avendo quindi una vita mediamente lunga per questo tipo di discussioni. In quanto studente di lettere e di lingue ho avuto l’occasione di approfondire varie branche della linguistica, fra le quali la filosofia del linguaggio, la sociolinguistica, la storia della lingua e la linguistica generale. Osservando dunque la querelle in corso su questo tema, mi pare che esso si sia polarizzato soprattutto perché chi è intervenuto non possiede le competenze necessarie. È ormai un luogo comune dell’attualità politica e culturale che le discussioni trapassino gli argomenti trattati, senza che ci si interroghi veramente sui problemi che esse sollevano, offrendo piuttosto un campo di battaglia per schieramenti ideologici divergenti. In altri termini, coloro che propongono delle soluzioni alla mancante inclusività del linguaggio spesso non dominano la materia, poiché non possiedono una conoscenza sufficiente del settore linguistico e perché non si appellano a principi linguistici, bensì politici o addirittura morali.
Pertanto, mi accingo ad analizzare la notevole quantità di aporie che la questione suscita. Innanzitutto, una delle ragioni dello scetticismo dei linguisti nei confronti delle soluzioni “inclusive” è il cuore concettuale della filosofia del linguaggio, avviata da de Saussure. Dal suo punto di vista, la lingua non definisce gli enti in modo positivo, ma stabilisce relazioni di mutua opposizione tra diverse entità1. In soldoni, gli uomini sono non-donne così come i bambini sono non-adulti, e viceversa. Inoltre, il filosofo sostiene che il linguaggio è convenzionale. Esso non indica le connotazioni ontologiche degli enti cui si riferisce, ma si costruisce su scelte arbitrarie dei segni verbali che li esprimono2. Di conseguenza, le regole morfo-sintattiche non riflettono alcuna ideologia o pregiudizio. Nel caso contrario, si dovrebbe considerare anche il fatto che i nomi di città, nazioni e continenti, in italiano, siano femminili senza che esistano delle ragioni specifiche atte a spiegare il fenomeno, o che la parola morte cambi genere a seconda della lingua (in francese è femminile, mentre in inglese è maschile).
Tenuto conto di queste osservazioni, potrebbe sembrare che il problema non sussista. Al contrario, un’altra disciplina linguistica adotta un punto di vista radicalmente opposto. In effetti, la sociolinguistica studia l’influenza della società sulle pratiche conversazionali, almeno su quelle registrate dalla sua fondazione negli anni Cinquanta da parte di William Labov. L’idea di fondo di questa prospettiva critica è che le ideologie soggiacenti alle organizzazioni sociali umane determinino la maggior parte delle abitudini linguistiche individuali3. La matrice del linguaggio, pertanto, è culturale e politica e non totalmente arbitraria, e il linguaggio stesso nasconde dei pregiudizi ideologici. Si potrebbe concluderne che si tratti di uno strumento di dominazione e di gerarchizzazione della società per perpetuare i gruppi sociali più potenti, in questo caso specifico gli uomini bianchi etero-normativi.
In altre parole, ci sono due settori trainanti degli studi linguistici che propongono due approcci drammaticamente in contrasto. Sul versante filosofico di de Saussure, il linguaggio sembra esclusivo per natura, linguisticamente parlando; su quello sociolinguistico, lo è solo a causa di avvenimenti storici e la società civile dovrebbe cercare di renderlo più inclusivo. Tuttavia, pur adottando questa seconda prospettiva, cioè quella proposta per risolvere le discriminazioni esclusive del linguaggio, si rischia di contraddire i principi di evoluzione diacronica della lingua messi in luce dalla linguistica generale4. Solitamente, le lingue si evolvono semplificando le loro strutture morfologiche e, soprattutto, sintattiche. Ad esempio, nel passaggio dal latino alle lingue romanze le declinazioni si sono contratte e la sintassi ha perduto le sue costrizioni più limitanti (il verbo non deve più essere posizionato rigorosamente alla fine della frase e i complementi possono scorrere sull’asse sintattico più liberamente). Allo stesso tempo, le lingue possono sviluppare alcune strutture analitiche al posto degli elementi sintetici che connotano il ceppo di partenza: è il caso del passé composé e del passato prossimo che traducono il perfetto latino, corrispondente a livello formale del passato remoto italiano.
Come si è visto, l’argomento non ha trattazioni univoche, men che meno in ambito accademico. L’evoluzione diacronica delle lingue è un principio inopinabile, checché ne vogliano certi fautori di grammatiche normative. Ciononostante, tale evoluzione non ha (quasi) mai seguito la stessa direzione che gli attivisti “inclusivisti” propongono5. In particolare, l’aporia più evidente di questo discorso è la volontà di combattere una regola di grammatica che si opporrebbe all’evoluzione naturale della lingua, imponendo delle altre regole che, almeno a questo livello cronologico, si pongono al di fuori della lingua stessa6. Si tratterebbe di una risposta normativa a una critica evolutiva contro un’attitudine normativa, il che rappresenta chiaramente una contraddizione.
Peraltro, pur optando per un’analisi storico-evolutiva, bisognerebbe ricordarsi che non tutte le lingue sono uguali. L’inglese, che viene sempre preso a modello per gli altri sistemi linguistici, è più incline ad accettare forme meno connotate per quanto riguarda il genere. Eppure, l’utilizzo di they per evitare discriminazioni è diventato corrente negli ultimi ottant’anni, rappresentando quindi un’innovazione linguistica recente. Al contrario, le lingue romanze mostrano una distinzione di genere più marcata, che rende pragmaticamente più difficile la creazione di forme “inclusive”. Tuttavia, non penso che un’imposizione normativa consentirà un cambiamento delle abitudini linguistiche, e per citare casi novecenteschi basterebbe menzionare i neologismi fascisti, che dovevano tradurre lessico straniero ma caddero in disuso immediatamente dopo la fine del regime (con qualche sparuta sopravvivenza). Forse sarebbe ancora più pertinente l’esempio dell’Esperanto – creato alla fine dell’Ottocento a partire da elementi latini, protoromanzi e germanici – che sarebbe dovuto diventare la lingua ufficiale europea, ma che fallì nel progetto proprio perché non esisteva nella prassi del parlato. Pertanto, tirando le fila del discorso, ritengo più probabile che sia la diffusione di una cultura più inclusiva a poter stabilire le strutture linguistiche necessarie per evitare questo tipo di discriminazioni. Ben lungi dall’ignorare il problema, penso che nel tempo si affermeranno vocativi più semplificati rispetto agli attuali, come il solo Buongiorno senza ulteriori specificazioni, che eviterebbe il bisticcio a tutte, a tutti, a tutt* ecc. Similmente, si potrebbe optare per soluzioni analitiche laddove quelle sintetiche costituiscano un intoppo, sostituendo termini quali i ristoratori, gli studiosi e via dicendo con locuzioni neutre come coloro che lavorano nel settore della ristorazione, della ricerca, oppure con termini collettivi più vaghi quali la critica, la comunità scientifica e altri, già in uso in ambito accademico. In sostanza, dal punto di vista linguistico è più economico, e forse più efficace, modificare le convenzioni educative della conversazione, che del resto sono in costante mutamento, rispetto a intervenire sul piano della morfosintassi, da sempre uno degli elementi più conservativi della lingua. Il risultato forse non sarà una lingua inclusiva, per come la si intende oggi, ma perlomeno un linguaggio neutro, non-esclusivo, che neutralizza le opposizioni superflue.
1 Cfr. F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Roma-Bari, Laterza 2009.
2 Per tesi più oltranziste circa l’incomunicabilità del linguaggio cfr. L. T. Hjelmslev, Saggi linguistici, 2 voll., Milano, Unicopli 1988 e Résumé: teoria del linguaggio, Vicenza, Terra Ferma 2009.
3 Per una prima ricognizione della sociolinguistica cfr. P. Stockwell, Sociolinguistics. A Resource Book for Students, London, Routledge 2002 e M. Meyerhoff, Introducing sociolinguistics, London, Routledge 2006.
4 Anche in questo caso, per eventuali approfondimenti cfr. F. Fanciullo Introduzione alla linguistica storica, Bologna, Il Mulino 2011 e G. Antonelli e L. Serianni, Manuale di linguistica italiana: storia, attualità, grammatica, Torino, Pearson 2017.
5 Un’eccezione potrebbe essere proprio la lingua francese, normata a metà Cinquecento e sostanzialmente immutata per quanto riguarda la scrittura standard. Ciononostante, grandi cambiamenti hanno investito l’aspetto fonetico e stilistico, a tal punto che le differenze tra francese standard e familiare, popolare o argotico sono tali da rendere questi ultimi di difficilissima comprensione per un parlante non nativo.
6 A tal proposito rimando alle dichiarazioni dell’Accademia della Crusca (https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/un-asterisco-sul-genere/4018) e a quelle dell’Académie Française (http://www.academie-francaise.fr/actualites/declaration-de-lacademie-francaise-sur-lecriture-dite-inclusive). Benché consapevole dell’approccio tendenzialmente conservativo di questi ambienti, si tratta comunque delle istituzioni più rilevanti a riguardo.