Attenzione: in questo articolo si parlerà di violenza di genere.
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25 novembre 2021 Quello che mi tiene da dietro, tende tutti i muscoli… li sento intorno al mio corpo. Non ha aumentato la stretta, ha solo teso i muscoli, come ad essere pronto a tenermi più ferma. Il primo che si era mosso, mi si mette tra le gambe… in ginocchio… divaricandomele […] Quello che mi tiene da dietro si sta eccitando, sento che si struscia contro la mia schiena. Ora quello che mi sta tra le gambe mi entra dentro. Mi viene da vomitare. Devo stare calma, calma.1
Quando penso ad Artemisia Gentileschi, mi torna sempre alla mente lo straziante e crudo monologo di Franca Rame del ’75, Lo stupro, che racconta della violenza sessuale che Rame stessa ha subito da parte di cinque uomini di orientamento fascista. Tutte le volte che leggo e ascolto le sue parole, mi rabbuio e, dagli occhi, mi scende una lacrima. Una sola. Non capirò mai cosa significhi essere vittima di uno stupro, ma, da queste parole, percepisco, come lei stessa dice nella parte finale del monologo, dolore fisico, trauma psicologico e rabbia mista a paura. Paura soprattutto per il dopo. Perché una vittima di stupro subisce sempre violenza due volte, quella fisica e quella della “cultura dello stupro”, che fa capo al patriarcato, fatta di gogna mediatica, quindi giudiziaria e giornalistica, e, ancor di più, sociale. Ed è proprio qui che entra in gioco quello che gli anglofoni chiamano victim blaming, che in italiano suona come “colpevolizzazione della vittima”. Parlare di violenza, e, più nello specifico, di violenza di genere, non è mai semplice, ma le nuove prospettive critiche e sociologiche ci vengono in soccorso per meglio spiegare le implicazioni che ci sono dietro alla parola “violenza”. Userò la storia di Artemisia Gentileschi per parlarvene.
Voglio presentarvi Artemisia con le parole che Anna Banti, nell’opera del ’47, che della pittrice porta il nome, dedica al lettore nella premessa, intitolata, appunto, Al lettore, invitandolo a prestare attenzione alla storia che sta per leggere, storia che narra la vita di
Artemisia Gentileschi, pittrice valentissima fra le poche che la storia ricordi […] Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro […] Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi.2
In poche righe, possiamo notare quello a cui accennavo in calce all’articolo, ovvero la doppia violenza, quella fisica, subita, nel suo caso, dal pittore Agostino Tassi nel 1611, e quella sociale del processo e dell’opinione pubblica, ma non solo. Infatti, Banti, nell’opera, per quanto dedichi numerosi passi al racconto della violenza, soprattutto parlando del senso di colpa con cui Artemisia convisse per molti anni successivi alla violenza, dedica un’attenzione particolare alla narrazione del suo ruolo di pittora innovatrice. In più passi, racconta di come Artemisia avesse, fin dalla più tenera età, una predisposizione naturale per l’arte. Banti ha un profondo pregio che la accomuna ad Artemisia: lei, quando scrive, dipinge e le parole sono i suoi colori, e da quelle descrizioni traspare tutta la sua capacità di narrare, così come la capacità di dipingere di Artemisia:
Disegna ancora con una saggia applicazione che quasi smentisce i segni della stanchezza, gli occhi rimpiccioliti e il lividore delle orbite […] La sua mano, inaridita dal lavoro materiale, a poco a poco si scioglie e anche il silenzio notturno pare sciogliersi in quell'esercizio che per i Gentileschi è come una conversazione.3
È molto probabile che, in questo passo, Banti facesse riferimento alla realizzazione del quadro Susanna e i vecchioni (1610), opera che, attraverso la narrazione del noto episodio biblico del Libro di Daniele, si pone come denuncia delle molestie sessuali a cui le donne, a quell’epoca, erano costrette a sottostare (non che le cose oggi siano molto cambiate, ma questa è un’altra storia). Infatti, Artemisia rappresenta la donna, sottoposta a ricatto sessuale da parte dei due laidi e molesti anziani, intenta non a coprire le forme del corpo (come ci aspetterebbe, immedesimandosi nel pensiero moralistico dell’epoca), ma con una tensione potente e tangibile delle mani che allontanano i due uomini da lei.

Un quadro che risale ad un anno prima dello stupro, ma che sembra già presagire gli eventi degli anni successivi. Un quadro con cui Artemisia cerca una propria autonomia pittorica dal padre Orazio, anch’egli pittore e sempre profondamente presente nella vita e nell’educazione della figlia, soprattutto pittorica, non potendo Artemisia andare a studiare in un’accademia di disegno, all’epoca riservata solo ai maschi. Ed è proprio per questo che nella vita di Artemisia entra Agostino Tassi, ritenuto dal padre pittore esperto e capace di insegnarle la prospettiva. Artemisia è stata vittima, sia prima dello stupro, che dopo lo stupro, della violenza simbolica di cui ci parla Bordieu, quella «dolce, insensibile, invisibile per le stesse vittime, che si esercita essenzialmente attravero le vie puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza […]»4. È una violenza attuata tanto dal singolo Agostino, che, prima di compiere la violenza fisica, aveva fatto molta pressione psicologica sulla ragazza, corteggiandola insistentemente nonostante il rifiuto di Artemisia di fronte alle suddette avances, quanto dal contesto sociale in cui Artemisia viveva: ad esempio, possiamo riferirci a Tuzia, una presenza molto forte anche nel romanzo di Banti, qui concepita come l’unica figura femminile di riferimento di Artemisia, avendo perso la madre biologica durante l’infanzia, la quale aveva persuaso la ragazza a fidarsi di Tassi, in quanto «cavaliere e gran pittore»5 e, quindi, in grado di offrirle mille possibilità nella vita matrimoniale:
«[…]tu dà retta a chi ti pol esser madre, c’è Agostino che se ne more e Cosimo me l’ha detto, domandaglielo se non ti sposa […] Sposa Ag., sciocca, quello ti fa andare in carrozza meglio di Cosimo».6
Più volte mi sono chiesta da cosa e da dove nasca la violenza, e, più nello specifico, cosa abbia spinto Agostino Tassi ad attuare violenza nei confronti di Artemisia, se per semplice diritto non scritto maschile o invidia per le indubbie capacità pittoriche della ragazza. Così, mi sono imbattuta in due elementi che mi hanno fornito, più che una risposta definitiva, se non altro una risposta esaustiva, per la precisione un TEDxTalks e un libro, entrambi di una personalità di spicco del femminismo della quarta ondata, quella che stiamo vivendo nel presente, ovvero Carlotta Vagnoli. Dalle sue parole emerge che la possibile origine della violenza sia da ricercarsi negli stereotipi di genere a cui siamo sottoposti fin da piccoli, da quelli apparentemente più innoqui, come il binarismo che attribuisce certi colori, certe caratteristiche estetiche, ad un certo sesso biologico (per capirci “rosa e capelli lunghi = bambina”, “celeste e capelli corti = bambino”), per arrivare a quelli riguardanti le qualità morali ritenute proprie di un certo sesso, quindi «forza, virilità, aggressività, anche sessuale [si riferisce alle caratteristiche ritenute propriamente maschili]. Se io penso a una donna, invece, penserò a romanticismo, emotività, passività, anche sessuale. Queste semplificazioni creano dei veri e propri mostri nella nascita di quelle che sono le relazioni che crescono in ottica eteronormata.»7. Da queste semplici parole, capiamo come il passo verso la violenza sia breve. Se la società è stata formata nell’ottica che i maschi debbano essere aggressivi e le femmine docili, è normale, sempre secondo quest’ottica, che un elemento femminile che “non sta al suo posto”, debba essere punito. Questo procedimento si chiama normalizzazione, «e consiste nel rendere accettabile un comportamento eticamente sbagliato sull’onda di una prassi comune»8. Proseguendo su questo ragionamento, quindi, «per essere “un vero maschio” un uomo deve abbracciare proprio la violenza e farne parte integrante della propria vita, usandola all’occorrenza»9. Traslando il senso di queste parole sul racconto di Artemisia, capiamo un possibile perché: Agostino, così come Artemisia, sono stati vittime (e Agostino pieno rappresentante) della cultura degli stereotipi. Agostino è stato educato secondo ideali di machismo, dunque forza fisica, possesso dell’altro sesso, superiorità sull’altro sesso, “qualità” che oggi raggrupperemmo sotto la più breve perifrasi “mascolinità tossica”, che lo ha portato ad abusare senza alcun diritto di quella che, freudianamente, chiamiamo “supremazia del pene”. Artemisia, in sede processuale, raccontò la violenza soffermandosi su ogni singolo dettaglio:
Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne.10
Nonostante la testimonianza dura e cruda, Artemisia fu ulterioremente sottoposta a diversi tipi di violenza, dall’umiliazione medica della visita ginecologica da parte di due levatrici per verificare che fosse stata veramente stuprata, al supplizio della Sibilla (così chiamato perché l’intento era di far dire “la vera verità” alla vittima) affinchè ritrattasse la sua testimonianza, una tortura che prevedeva le dita avvolte da cordicelle strette così forti da stritolarle le falangi. È chiaro come questa tortura sia violenza non solo nei confronti della persona Artemisia, ma anche della sua arte, in quanto avrebbe potuto perdere le dita. La forza di volontà di Artemisia era più forte della violenza e non ritirò minimamente le sue accuse. Dopo un anno di supplizi e senso di colpa con cui convisse in quel periodo, Artemisia vide finalmente Tassi condannato, nel ’12, a cinque anni di carcere per la violenza nei suoi confronti, che, per di più, era vergine (quindi, il reato aveva un peso maggiore), ma anche e soprattutto per oltraggio ai danni di Orazio Gentileschi, in quanto la violenza era avvenuta sotto il tetto paterno. Questo dettaglio non è scontato e, negli atti del processo, è proprio questo particolare ad essere il più importante: Orazio, prima di essere un padre, era un uomo, e il suo orgoglio di uomo era stato ferito da una donna, poco importava che quella donna fosse sua figlia. Intentò lui per primo il processo contro Tassi e, come prevedeva la norma del tempo, provvise sempre lui a far sposare Artemisia, per farle recuperare la dignità perduta, col pittore Pierantonio Stiattesi.
Ho sorvolato molto sulle dinamiche processuali, non essendo il mio ambito di competenza, ma il fulcro della questione continua ad essere la violenza di fondo e sempre quel senso di colpa con cui Artemisia convisse assieme al sonno tormentato dal ricordo dello stupro. C’è da dire che Artemisia ebbe la sua rivalsa, soprattutto sociale, perché, per quanto sia passata alla storia soprattutto per il cause celebre del processo, ricordiamo che è stata la più importante e nota pittrice che il Seicento abbia avuto e, infatti, il suo celebre quadro Giuditta che decapita Oloferne (1620) non è altro che il mezzo con cui Artemisia è riuscita ad esorcizzare il trauma dello stupro. Banti ce lo racconta con queste parole:
Agostino, il pugnale, la miseranda scena del letto a colonne avevan trovato la via di esprimersi non a parole o con interiore e compianto, ma con mezzi che la mente avrebbe dovuto difendere e mantenere inviolati […] Intanto un'immensa fierezza le gonfia il petto, un'orribile fierezza di donna vendicata in cui trova luogo, malgrado la vergogna, la soddisfazione dell'artista che ha superato tutti i problemi dell'arte[…] 11

La potente descrizione dell’atto pittorico e del messaggio nascosto nel quadro, «la cui truculenza le ricorda il proprio corpo martoriato è, nel contempo, vendetta contro l’uomo, tutti gli uomini»12
Per Artemisia, Franca e tante altre donne che hanno subito violenza, l’arte è stato lo strumento che ha permesso loro di portare alla luce e fuori da sé il terribile peso della duplice violenza. Nelle prime fasi della mia riflessione, avevo esposto la mia domanda sull’origine della violenza, in fattispecie quella di genere, chiedendomi con fare retorico se mai ci sarà effettivamente una fine a questo circolo vizioso. Tra la violenza di Artemisia e quella di Franca Rame ci sono di mezzo trecentosessantaquattro anni di storia e ben due ondate di femminismo e, nonostante le lotte, l’informazione e la sensibilizzazione, ancora oggi, nel 2021, sentiamo parlare di violenza, al cui esito possiamo assistere ogni giorno, semplicemente ascoltando la rassegna stampa del telegiornale, che, quasi sempre, porta tra le notizie un caso di femminicidio, culmine della violenza di genere. Solo nel 2021 si contano circa 103 donne vittime di femminicidio (secondo l’ultimo report settimanale dell’ 8-14 novembre attuato dalla Polizia criminale ad opera del Ministero dell’Interno), per una media di una vittima ogni 72 ore, la cui dinamica, tristemente, è sempre la stessa: vittime di un compagno o di un ex compagno o di un membro appartenente alla sfera famigliare, che vede la donna come una sua proprietà o che non riesce a farsi una ragione della fine di una relazione o di un rifiuto. Sono numeri preoccupanti a cui bisogna porre rimedio, così come si stanno cercando soluzioni alla crisi climatica. C’è una soluzione? Immediata no, culturale sì, e consiste, da un lato, in un’azione di sensibilizzazione nei confronti delle vittime affinchè trovino la forza di denunciare, dall’altro in una educazione affettiva sistematica fin dalla scuola dell’infanzia, soprattutto del genere maschile, affinchè gli stereotipi, da quelli apparentemente più banali a quelli morali, diventino solo parole e non fatti, «perché in definitiva sarà proprio questo a renderci persone libere»13.
1 Stesura dattiloscritta del monologo Stupro di Franca Rame, 1975, dall’Archivio Rame- Fo, in http://www.archivio.francarame.it/scheda.aspx?IDScheda=1194&IDOpera=170
2 Banti, A., Artemisia, SE Edizioni, Milano, 2015, p. 11.
3 Ivi, p. 34
4 Bordieu, P., Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 7-8.
5 Ivi in Artemisia, p. 19.
6 Ivi, p. 23.
7 Dal TEDxTalks di Brianza Stereotipi di genere e linguaggio delle relazioni, di Carlotta Vagnoli, 2021.
8 Vagnoli, C., Maledetta sfortuna. Vedere, riconoscere e rifiutare la violenza di genere, Fabbri Editori, Milano, 2021, p. 21.
9 Ibidem, p. 21.
10 La testimonianza in questione è tratta dalle Lettere precedute ad “Atti di un processo per stupro”, a cura di Menzio, E., di cui io non dispongo; in questo caso è stata da me estratta da Corio, N., Processata ad arte in Focus Storia, anno MMX, aprile, n° 42., pp. 104-5.
11 Ivi in Artemisia, pp. 48-49.
12 Storini, M. C., Vicissitudini di un (presunto) romanzo storico, in L’esperienza problematica. Generi e scrittura nella narrativa italiana del Novecento, Carocci editore, Roma, 2020, p. 182.
13 Sempre dal TEDxTalks sopracitato di Vagnoli, cfr. nota 8.