Attivismo consapevole
Intervista ad Amalia Fumagalli
Quando si parla di crisi climatica, di ambientalismo e affini spesso si incorre in pregiudizi, assunzioni e modi di dire, sia che se ne sostenga l’importanza, sia che se ne neghi il valore. Eppure, si tratta di argomenti poliedrici che solo raramente hanno soluzioni univoche e che potrebbero, anzi dovrebbero animare il dibattito pubblico molto più di quanto accada, o per lo meno in modo più attento e approfondito. Per questa ragione ho deciso di intervistare Amalia Fumagalli, una giovane attivista che ha già accumulato una notevole esperienza nel campo, che le ha giovato una prospettiva multilaterale della questione.
Ciao Amalia, prima di cominciare con le domande più ostiche ti invito a presentarti, raccontando la tua esperienza come attivista contro il cambiamento climatico. Hai cominciato con Fridays For Future, giusto?
Sì, ho iniziato col gruppo locale di Monza nel 2019. Al tempo ero rappresentante d’istituto del Liceo Classico Zucchi e insieme a colleghe e colleghi di altri istituti abbiamo dato vita a questo gruppo per organizzare il primo Sciopero Globale per il Clima a Monza nella mattinata del 15 marzo. A distanza di due anni ho ridotto la mia attività nel gruppo locale, pur rimanendo una figura di riferimento che partecipa ad assemblee ed eventi quando possibile. Ora come ora frequento il secondo anno della triennale in Scienze Economiche e Sociali in Bocconi e sono parte di varie associazioni che si dedicano a questioni sociali, ambientali, ma anche politiche ed economiche, con particolare attenzione all’Unione Europea.
In questi giorni, la prima domanda non può che riguardare la COP 26. Che opinione hai dei risultati raggiunti? In particolare, cosa ti sembra vada nella giusta direzione, e cosa invece si sarebbe potuto fare meglio?
Ritengo si siano fatti alcuni progressi su questioni specifiche che da tempo avevano bisogno di una soluzione, come l’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi sul mercato di emissioni di carbonio. Tuttavia, nel complesso penso si sia trattato dell’ennesimo fallimento. Data l’urgenza della riduzione delle emissioni e dell’adattamento a nuove filiere energetiche e produttive, non si possono posticipare scelte fondamentali alla COP 27 in Egitto (novembre 2022), o peggio. La gran parte della comunità scientifica concorda, da almeno trent’anni, sulla natura antropogenica del cambiamento climatico, ma i risultati sono ancora scarsi. Il contrasto a questo fenomeno è più efficace, oltre che economico, se avviato con congruo anticipo, a differenza di quanto dimostrato dalla miopia delle amministrazioni pubbliche, delle imprese e di parte della società civile. In particolare, l’inefficienza è dilagante nell’affrontare tanto gli obiettivi più prossimi, legati allo sviluppo economico, quanto quelli di lungo periodo, uno su tutti il non-più-così-lento e inesorabile innalzamento della temperatura media globale. Certamente, una parte del settore privato è pronta a soluzioni di maggiore portata, così come alcuni governi nazionali (Danimarca, Costa Rica) sembrano molto ambiziosi. Ciononostante, gli obiettivi condivisi a livello internazionale mancano di una comune visione strategica, pur dovendo teoricamente contenere a +1,5°C l’innalzamento della temperatura.
In aggiunta, nel resoconto finale della conferenza ci sono alcuni nodi da sciogliere. Non si sa quando saranno effettivamente stanziati i 100 miliardi di dollari promessi per aiutare la decarbonizzazione nei paesi in via di sviluppo. Non è nemmeno previsto un fondo per il contenimento dei danni per i paesi più vulnerabili, mentre la fuoriuscita dal carbone cessa di essere vincolante, passando nella versione finale del comunicato dal termine “phase-out” a “phase-down”.
Immaginavo che i risultati fossero discutibili. D’altra parte, pensando al discorso del presidente indiano Narendra Modi, mi sono chiesto se le soluzioni proposte da alcuni movimenti principalmente occidentali non tengano conto delle aree in via di sviluppo. In particolare, secondo te limitare le potenzialità economiche delle tigri asiatiche non rappresenta un atto di profonda ingiustizia, politica forse più che etica?
In effetti, Cina e India hanno dichiarato di avere bisogno di più tempo per raggiungere la neutralità carbonica. È anche vero che, a partire dall’industrializzazione, la crescita economica è legata a doppio filo all’aumento del consumo energetico. Dunque, all’inizio si ricorre alle risorse più accessibili per prezzo e modalità d’impiego, nello specifico i combustibili fossili. Tuttavia, credo sia necessario interrogarsi se, con l’attuale avanzamento tecnologico, la crescita economica debba legarsi ancora a fonti di energia non rinnovabili. Inoltre, bisognerebbe chiedersi quanto sia anacronistica l’idea che un paese in via di sviluppo possa permettersi di “inquinare” e solo dopo, una volta raggiunte le economie più floride, si conceda il “lusso” di occuparsi prioritariamente della tutela. Infine, come conciliare il progresso sociale ed economico e la lotta al cambiamento climatico? Sebbene il dibattito accademico e politico a tal proposito sia ancora molto acerbo, secondo me bisogna partire da queste domande per trovare una valida alternativa al modello di produzione e di sviluppo attuale, raggiungendo gli obiettivi previsti senza pregiudicare il benessere sociale.
In aggiunta, alcuni studi individuano una diretta correlazione tra PIL pro capite e degradazione ambientale. Questa ipotesi, nota come curva di Kuznets ambientale (EKC), suggerisce che il degrado ambientale aumenti nelle prime fasi di crescita, diminuendo una volta superata una soglia di reddito. Quando applicata alle emissioni, questa teoria incontra molte critiche. Non sempre, infatti, si osserva una riduzione delle emissioni con l’aumento del PIL pro capite, come nel caso di USA ed Emirati Arabi.
In sintesi, l’opposizione di Cina, India, Russia e Brasile a piani di riduzione più ambiziosi mi pare che dipenda maggiormente dalla volontà di conservare un’autonomia strategica in campo economico e di non ridurre la propria competitività. Visti gli obiettivi prefissati, sarebbe cruciale e imprescindibile una stretta collaborazione in un clima di cooperazione internazionale tra le diverse potenze, impegno che queste nazioni, governate da leader decisamente autocratici, scelgono ancora di non assumersi.
Tornando sull’ingiustizia, mi piacerebbe che mi spiegassi a grandi linee cosa significhi giustizia climatica, e a quale grado essa implichi il concetto di giustizia sociale.
Cercherò di essere sintetica. Il concetto di giustizia climatica, ormai accolto da vari rappresentanti di alte cariche istituzionali, è il riconoscimento del fatto che il cambiamento climatico può avere un drammatico impatto sociale, economico, sanitario e demografico, incidendo principalmente sulle aree geografiche e sugli strati sociali più svantaggiati. Chi sostiene la giustizia climatica ritiene che, per affrontare tali disuguaglianze, siano necessarie strategie di mitigazione e adattamento a lungo termine. Il legame con la giustizia sociale è dunque intrinseco, e di fatto pare si tratti di un concetto vagamente condiviso a livello istituzionale, come possiamo notare nel riferimento a una “Giusta transizione” presente nel documento finale della COP 26. Ovviamente è molto facile concordare sugli astratti principi di equità, ma è ben più complicato applicarli trovando soluzioni efficaci che soddisfino tutte le parti coinvolte. Ad ogni modo, il fatto inequivocabile è che le popolazioni dei paesi più vulnerabili agli effetti della crisi climatica hanno contribuito minimamente a questo fenomeno. A questo si sommano le disuguaglianze di classe. Secondo una ricerca di Oxfam in collaborazione con lo Stockolm Environmental Institute, dal 1990 al 2015 il 10% più ricco della popolazione mondiale ha emesso il 52% delle emissioni di gas a effetto serra.
Ovviamente, quando si parla di giustizia sociale si tende ad associare questa istanza a orientamenti genericamente di sinistra, e del resto storicamente parlando il tema del cambiamento climatico è stato una parola d’ordine di questa famiglia politica. Eppure, fra i movimenti ambientalisti si può rintracciare una certa varietà di approcci, non è vero?
La lotta per il contrasto al cambiamento climatico accomuna (quasi) tutte le forze politiche negli obiettivi, dividendo nelle soluzioni. A causa di un retaggio storico, in Italia soprattutto legato alla figura di Alexander Langer e dei movimenti della sinistra extraparlamentare, è vero che il tema del cambiamento climatico viene visto come argomento “di sinistra”. Ciononostante, sono convinta che per riuscire a trovare piani d’azione efficaci ci sia bisogno della collaborazione di tutte le forze politiche. Proprio perché il contrasto alla crisi climatica ha soluzioni così divergenti, si può rintracciare una galassia di movimenti e associazioni attive sul tema. Si tratta di un’arma a doppio taglio: da un lato, garantisce il pluralismo, dall’altro a mio parere ostacola l’attuazione di misure all’altezza della sfida. Mi piacerebbe vedere anche in Italia da parte del governo la volontà di istituire un organo sul modello francese della Convention Citoyenne pour le Climat, che rappresenta uno strumento di democrazia partecipativa volto alla sensibilizzazione della cittadinanza e alla proposta da parte di questa di soluzioni condivise, ovviamente col contributo di persone specializzate nel campo. In Italia, il dibattito sul cambiamento climatico è assente a livello politico. Se esiste, o ripete luoghi comuni sull’urgenza di agire senza poi entrare nel merito di come farlo; oppure il centro-sinistra rimane arroccato sulle sue posizioni, mentre il centro-destra e i liberali hanno poca lungimiranza. Il motivo è lo scarso interesse a mettere in discussione l’attuale modello socio-economico, che sostanzialmente viene accettato così com’è.
Una persona molto giovane, in particolare liceale o ai primi anni dell’università, come può avviare un’esperienza come attivista per la crisi climatica? Insomma, come si entra in contatto con le varie associazioni, com’è strutturata la formazione dei membri e quali sono i risvolti concreti sul territorio?
In primo luogo, consiglio di approcciarsi a qualsiasi movimento o associazione con una buona dose di spirito critico, accompagnando l’attivismo con studio e approfondimento personale. Non significa diventare esperti onniscienti, ma bisogna affrontare le questioni nel loro complesso, calandole nel contesto sociopolitico e culturale oltre che scientifico. Ad ogni modo, consiglierei di contattare il gruppo locale di Fridays For Future più vicino oppure, se più affini, i gruppi di Extinction Rebellion locali. Esistono anche realtà più strutturate, come The Climate Reality Project, organizzazione no-profit fondata da Al Gore nel 2006 che si occupa di educazione e patrocinio sul cambiamento climatico. Non posso, infine, trascurare Legambiente, benché sia fortemente connotata da decenni di ambientalismo italiano e forse più concentrata sulla difesa ambientale che sul contrasto della crisi climatica.
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