Una foglia rossa per energia verde
La promettente prospettiva della fotosintesi artificiale
Nel clima attuale il dibattito sulle energie rinnovabili è sempre più acceso: è chiaro che l’umanità non potrà più fare affidamento sui combustibili fossili, in quanto risorsa esauribile e fortemente dannosa, a causa delle emissioni di anidride carbonica e altre sostanze nocive. Esse sono causa dell’effetto serra che sta aumentando la temperatura della Terra di pochi ma pericolosissimi gradi, un cambiamento in grado di distruggere irreparabilmente interi ecosistemi. Nel panorama della ricerca per la transizione ecologica, la fotosintesi artificiale potrebbe diventare una delle tecnologie di produzione di energia pulita più all’avanguardia: questa è l’ambizione dei vari gruppi di ricerca che studiano il modo per creare una “foglia artificiale”.

L’idea alla base è che forse la soluzione alla crisi climatica si annida nella straordinaria precisione della natura: non deve sorprendere, infatti, che il processo di conversione di energia solare più efficiente ad oggi conosciuto, sia la fotosintesi clorofilliana. Le piante sono in grado di produrre energia sfruttando la luce solare per innescare la reazione tra anidride carbonica e acqua prelevata dall’ambiente: i prodotti sono glucosio, uno zucchero, e ossigeno. La fotosintesi artificiale, quindi, si pone l’obiettivo di imitare questo processo naturale per produrre un combustibile pulito da una fonte praticamente inesauribile, eliminando così CO² e producendo ossigeno. Ma quindi, perché non è ancora diffusa su larga scala? Il problema risiede nell’immensa difficoltà nel replicare la fotosintesi, risultato di milioni di anni di evoluzione: la prima parte della reazione si chiama fotolisi, ovvero la separazione delle molecole d’acqua in idrogeno e ossigeno grazie alla luce del sole; nelle piante avviene nei cloroplasti (gli stessi che rendono verdi le foglie); quella condotta dall’uomo, invece, richiede la presenza di un fotocatalizzatore immerso in acqua. La seconda parte consiste nell’utilizzare lo stesso catalizzatore per convertire l’idrogeno ottenuto e l’anidride carbonica in un combustibile utilizzabile. Risulta, quindi, estremamente complesso scovare un materiale che abbia queste specifiche capacità reattive, che non si corroda in acqua e che permetta una produzione economica e, soprattutto, attuabile su larga scala. La soluzione a questo dilemma potrebbe essere rossa piuttosto che verde: un gruppo di ricerca dell’Università di Waterloo, in Canada, sta studiando il comportamento dell’ossido rameoso, un materiale di una spiccata tonalità scarlatta che, una volta esposto al sole in presenza di CO², realizza metanolo, un carburante la cui combustione genera molti meno gas serra di quelli utilizzati ad oggi, e produce ossigeno.

Questo combustibile è già diffuso su larga scala in molti contesti differenti: questo vuol dire che adeguarsi ad esso non sarebbe complesso quanto con un carburante completamente “originale”. Inoltre, il processo appena descritto avviene senza alcun apporto di elettricità, il che lo rende estremamente più economico e riproducibile su larga scala rispetto ad altre “energie verdi”. Insomma, si produce un carburante più pulito, con la luce del sole (inesauribile), senza elettricità e utilizzando il più nocivo gas serra nella nostra atmosfera, con una produzione collaterale di ossigeno, il gas che respiriamo!!! Una domanda che potrebbe sorgere spontanea sarebbe chiedersi quale sia la differenza con il fotovoltaico: seppur pulita, l’energia ricavata dai pannelli solari ha da sempre sofferto di problemi di ottimizzazione dell’efficienza, in quanto solo circa il 20% di tutte le radiazioni solari raccolte viene effettivamente trasformato in elettricità; inoltre, tutto il processo dipende, inevitabilmente, dalle condizioni meteorologiche, al punto che è sufficiente un solo giorno di pioggia per interrompere la produzione; un outcome impensabile, per le esigenze odierne. La ricerca sulle foglie artificiali, portata avanti in tutte le parti del mondo, sta cercando di andare oltre i limiti del fotovoltaico e della fotosintesi naturale stessa (le piante conservano meno del 1% dell’energia che producono) per sintetizzare un carburante pratico e immagazzinabile, guidata dalla strabiliante, ma non sorprendente, idea che la strada per salvare la natura sia essa stessa a suggerircela.
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