E se il tardo capitalismo fosse la soluzione?
C’è l’eco della Scuola di Francoforte e in particolare di Marcuse in concetti come la decrescita felice, l’eliminazione del superfluo (viene in mente la faccia serafica di Marie Kondo che dice: “This does not spark joy”), o il ritorno ai bisogni primari e ad una vita più semplice. Agli antipodi di questo approccio minimalista, mi tornano in mente i borghesi di Stendhal, consumati dal desiderio di avere ciò che ha l’altro: uomini che, in ultima istanza, vogliono essere l’altro, poiché cioè che si è non è mai sufficiente. Dove sta ognuno di noi all’interno di questo spettro che ha come suoi poli il minimalismo consapevole e il massimalismo spregiudicato? Soprattutto, è sufficiente, a questo stadio del capitalismo accelerato, diffondere consapevolezza circa i danni che l’uomo ha causato agli ecosistemi in cui vive e al pianeta nella sua totalità? È davvero necessario affidarsi ai contributi dei singoli e sperare che la somma di comportamenti quotidiani corretti possa portare ad un cambiamento radicale?
Possiamo tornare a Marcuse e alla sua disillusione totale nei confronti degli esseri umani: “Respingere lo Stato del benessere a favore di un’idea astratta di libertà è cosa che convince poco. […] Se gli individui sono soddisfatti, al punto d’essere felici, dei beni e dei servizi loro offerti dall’amministrazione, perché mai dovrebbero insistere per avere istituzioni differenti capaci di produrre in modo differente beni e servizi differenti? […] È vero, le merci materiali e mentali offerte possono essere cattive, fonti di spreco, pattume – ma il Geist (lo spirito del tempo) e la conoscenza non sono argomenti efficaci contro la soddisfazione dei bisogni”.
Si potrebbe replicare al pessimismo del grande filosofo citando l’esempio recente di Greta Thunberg e del movimento Fridays for future, così come una miriade di altri, che hanno combattuto e stanno combattendo battaglie ecologiste per il Pianeta. Ma qui la questione è un’altra, ed è molto più pratica. Il cambiamento nei sistemi di produzione deve avvenire a grande velocità se vogliamo preservare l’abitabilità del pianeta. Le idee, nobili e latrici di verità profonde e ineludibili, si diffondono velocemente, ma la prassi dell’uomo è lenta a modificarsi. E soprattutto, come sottolineato dalle parole di Marcuse, non ci sono incentivi spendibili immediatamente a stravolgere la propria vita per quello che sembra un ideale lontano come un pianeta più vivibile per tutti.
E, se posso dirla tutta, la nostra stessa possibilità di riflettere circa un mondo diverso è un privilegio. La possibilità di comprare prodotti ecosostenibili, biologici, a basso impatto ambientale è un privilegio. La possibilità di vivere in case poco inquinanti, di comprare (comprare!) vestiti usati, di boicottare le aziende più inquinanti è un privilegio. Siamo i consumatori del Primo mondo, e solo a noi è concesso di rinnegare il sistema che garantisce la nostra sopravvivenza.
Mi viene in mente una barzelletta, spesso raccontata dal filosofo Slavoj Žižek e amata da Derrida, su un gruppo di ebrei in una sinagoga. Un rabbino si alza e dice: “O Dio, so di essere inutile. Io non sono niente!” Dopo che ha finito, un ricco uomo d’affari si alza in piedi e dice, picchiandosi sul petto: “O Dio, anch’io sono inutile, ossessionato dalla ricchezza materiale. Io non sono niente!” Dopo questo spettacolo, anche un povero ebreo si alza e proclama: “O Dio, io non sono niente”. Il ricco uomo d’affari dà un buffetto al rabbino e gli sussurra all’orecchio con disprezzo: “Che insolenza! Chi è quel ragazzo che osa affermare che anche lui non è niente!”
Apparentemente molto semplice, la stratificazione di senso di questo piccolo estratto di umorismo tipico è in realtà notevole. Il cuore del significato è che solo le persone privilegiate hanno la possibilità di auto-criticarsi, oltre che di criticare. Insomma solo chi è nel privilegio può negare la propria essenza, mentre tutti gli altri devono combattere per affermare la propria esistenza. Per dirla in altri termini, l’idealismo è un lusso che solo noi ci possiamo permettere.
Siamo noi i rabbini e i ricchi uomini d’affari, quando scendiamo in piazza a manifestare con l’iPhone in mano e lo zaino della North Face da 100 euro in spalla (perché ok i vestiti dell’usato, ma gli accessori sempre e comunque meglio nuovi); quando mangiamo zucca arricchita allo iodio comprata all’Esselunga e cucinata seguendo le ricette di Cucina Botanica. Siamo noi che ci rendiamo conto di non poter aderire ad un pauperismo totalizzante, che la nave del capitalismo è salpata e non si può più tornare indietro ad un’Arcadia di semplicità e vita rurale. Stretti, come in una carrozza di Snowpiercer, tra la paura per un futuro incerto e catastrofico e un’alternativa di decrescita irrealizzabile, per cui possiamo solo provare una Sehnsucht che sensualmente ci accarezza l’ego; e mentre il treno accelera, ci vantiamo della nostra wokeness e ci dimeniamo con in mano cartelli dalle scritte e dai concept arguti, mentre la temperatura media globale accelera di anno in anno, di giro in giro attorno al mondo.
Che fare, dunque?
The Green Vortex
Il nichilismo, a mio avviso, non è mai un punto di arrivo, ma un punto di partenza. È la lezione di Nietzsche sul decluttering, è la fedeltà alla terra. Via qualsiasi fantasia romantica, via qualsiasi idealismo. È sempre bene partire dalla nuda roccia, che in questo caso è il dato di fatto che il capitalismo accelerato non si può arrestare né invertire, o che quantomeno è terribilmente difficile farlo, e richiederebbe uno sforzo di volontà e dei sacrifici che nessuno, a mio avviso, sarebbe disposto ad accettare (basti pensare al caso dei no-vax in Italia e nel mondo per rendersi conto di quanto l’osservanza degli esseri umani sia inaffidabile).
Come raggiungere la decarbonizzazione allora? Potremmo avere una ricetta vincente.
Nonostante gli Stati Uniti, come scrive Robinson Meyer sull’Atlantic, non abbiano fatto passare nel 2009, sotto l’amministrazione Obama, il Climate Bill, e nonostante le politiche tutt’altro che rispettose dell’ambiente, almeno a parole, di Trump, essi hanno ridotto le loro emissioni del 21%. Contemporaneamente sono arrivati a sintetizzare il 20% della loro energia da fonti rinnovabili. Ma com’è stato possibile tutto questo? Rendendo la transizione conveniente per le aziende. Se il mostro capitalismo ingloba qualsiasi tecnologia che mantenga o aumenti la sua produttività, e se questa integrazione procede in maniera accelerata (direbbero gli anglofoni “spiraling into something else”), allora la maniera migliore di agire è sfruttare la voracità del sistema, combinando politiche di detassazione ad incentivi feroci. L’idea economica alla base di questo procedimento empirico è il c.d. learning by doing, “imparare facendo”. Se si favoriscono tecnologie ecosostenibili stanziando fondiche ne incentivino la creazione e l’adozione, le imprese imparano a produrre componenti a costi minori e più velocemente; le tecnologie stesse vengono rodate e migliorano; si crea un loop positivo che genera competitività, finché ad un certo punto anche le aziende più piccole e dei paesi in via di sviluppo non possono permettersi di abbandonare i combustibili fossili.
Un esempio di questo fenomeno, chiamato green vortex, riguarda la Danimarca degli anni ‘70. Nel bel mezzo di una crisi dovuta all’aumento del prezzo del petrolio, lo Stato danese ha iniziato a investire nell’industria dell’energia eolica. All’inizio degli anni ‘80 quest’industria ha trovato un mercato enorme in California, che aveva iniziato a patrocinare le centrali eoliche;col risultato che il 90% dell’energia dal vento degli USA oggi si produce nel Golden State. Esempio analogo quello che riguarda la collaborazione tra Germania e Cina per quanto concerne il solare:le componenti dei pannelli prodotte nello stato orientale e acquistate poi dagli europei.
Quattro tipi di industrie e il piano di Biden
Nel nuovo contesto mondiale di pressione internazionale alla riconversione energetica ci sono industrie destinate al declino, ovvero tutte quelle coinvolte nella trasformazione e utilizzo dei combustibili fossili, e industrie fiorenti, cioè tutte quelle che si occupano di produrre componenti essenziali per l’energia pulita.
Ce ne sono poi due tipi che si trovano in una zona più grigia: quelle che già adottano politiche di risparmio energetico e di efficienza nello sfruttamento delle materie prime; e quelle che sono apparentemente destinate al declino ma potrebbero, con un adattamento radicale, diventare trainanti per l’economia. Tra queste ultime ci sono l’industria metalmeccanica e quella di componenti elettriche che, a seguito di rapida riconversione, potrebbero essere il vero fattore di accelerazione del green vortex. Questo poiché entrambe avrebbero un ampio e vorace mercato da sfruttare per vendere i loro prodotti.
In quest’ottica, il piano Biden che include il Clean Energy Plan, criticato per la sua eccessiva generosità e bassa incisività , acquista un significato preciso. La ricetta più adatta per sfruttare la fame di efficienza del capitalismo americano e al contempo ridurre le emissioni di anidride carbonica e gas serra sembra essere spalmare finanziamenti per favorire anche le industrie più piccole alla conversione energetica e al contempo finanziare la nascita, ex novo, di fabbriche per la produzione di idrogeno verde e acciaio, cemento e prodotti chimici a impatto zero .
Anche i recenti finanziamenti a pioggia dell’Unione Europea, a seguito della frenata nella crescita economica causa Covid, paiono orientati a seguire questo modello. Resta da vedere se i singoli Stati europei potranno agire in un’ottica più nazionale o dovranno organizzarsi, anche produttivamente, in una transnazionale.
Chi pensa ai paesi del Terzo Mondo? Un piccolo esempio italiano
Al momento i maggiori inquinatori sono i paesi recentemente sviluppati: Cina e, a seguire, India. Ammesso che essi si allineino, prima o poi, alle economie del Primo mondo, in termini ecologici, rimangono alcuni quesiti aperti come l’Africa subsahariana, l’Indonesia e alcune zone rurali del Sud America (Cile e Colombia in testa). Il pianeta non può tollerare una terza rivoluzione industriale basata sui combustibili fossili ad opera di questi attori, quindi alcuni si sono impegnati nella cooperazione internazionale volta ad impiantare direttamente in questi luoghi tecnologie di produzione dell’energia, possibilmente green. È il caso della professoressa del Politecnico di Milano Emanuela Colombo che tiene, tra gli altri, il corso di Engineering and Cooperation for development. Leggendo il programma del corso si scopre che esso si propone di tracciare una storia dei modelli di cooperazione e sviluppo a partire dagli anni ‘50, di analizzare lo stato della produzione di energia nel mondo e in particolare in Africa, di immaginare delle possibili soluzioni a partire dalla pianificazione e che terminano con l’attuazione dei progetti e, infine, una riflessione sul delicato equilibrio tra esportazione del progresso e cultura locale (e compliance delle popolazioni coinvolte), tra sussidio verso le aree più arretrate e necessità di ritorno economico dei finanziatori; insomma, tra beneficenza e regole del libero mercato.
Tra ambizione idealistica e visione lungimirante il confine è sempre labile, e tuttavia quello che conta, nel caso di questo corso di studi, è la volontà di immaginare scenari nuovi e possibili.
Conclusione
Confesso che è stato piuttosto difficile per me scrivere un articolo che si abbandona così liberamente alla speranza nei confronti di un approccio che coniuga ricette economiche estremamente liberiste ad un interventismo statale silenzioso. Lo spaventapasseri del comunismo è sempre dietro l’angolo ed evidentemente il capitalismo è un leviatano che mal tollera interventi a viso aperto e preferisce l’illusione di onnipotenza di poter fare tutto da sé. Forse dare corda a questa necessità, accarezzare la volontà di potenza del sistema, è la maniera migliore per ottenere dei risultati in tempi utili. Sicuramente ci sono alcuni esempi a favore di questa tesi. Non resta che attendere di vedere se il vortice verde si allargherà a tutto il Pianeta.
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Il cielo è sempre meno blu
Editoriale · L’Eclisse
Anno 1 · N°7 · Novembre 2021
Copertina di Francesco Fatini, Noor El-Hajjeh, Laura Maroccia e Tommaso Strada.
Hanno partecipato alla realizzazione di questo editoriale: Greta Beluffi, Elisabetta Capovani, Anna Cosentini, Joanna Dema, Noor El-Hajjeh, Alice Fenaroli, Eugenia Gandini, Chiara Gianfreda, Nikolin Lasku, Matteo Mallia, Valentina Oger, Alessandro Orlandi, Mattia Romaniello, Luca Ruffini, Alice Santamaria, Vittoria Tosatto, Marta Tucci, Marta Urriani, Margherita Verri, Adriano Zonta.