Negli ultimi tempi, si parla spesso di empatia come fosse un libro rimasto a lungo sconosciuto, poi improvvisamente ritrovato e rispolverato. Mi sono chiesta come mai, di recente, l’empatia abbia avuto una tale eco: se ne parla in termini di qualità preziosa e rara da riscontrare nelle persone (sicuramente, più dell’indifferenza) oppure di ricercata soft skill, ossia competenza trasversale da inserire a proprio vantaggio nei curricula vitae.
Ma siamo così sicuri che «la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato» (come la descrive l’Enciclopedia Treccani) sia un concetto solo attuale?
In realtà, collocare una riflessione sull’empatia nei tempi antichi è tutt’altro che anacronistico. Spesso, cadiamo nell’errore di modernizzare un po’ tutto quello con cui veniamo in contatto nella nostra esperienza di vita, pensando che un salto nel passato sia sempre e comunque un salto nell’ottusità.
Invero, non è sempre così, anzi è il contrario. Ad esempio, la riflessione sull’empatia, sebbene si servisse di differenti denominazioni e sistemi linguistici, affonda le sue radici in tempi assai lontani dagli anglicismi e dai curricula lavorativi, risultando , tuttavia, ancora estremamente attuale e profonda. Nato e sviluppatosi nell’ambito della filosofia etica, il concetto di empatia è stato, infatti, studiato in quanto possibile modalità di costruzione della morale personale. Come maturiamo nella nostra vita le idee di Bene e di Male? Di che criteri ci serviamo per giudicare il nostro e altrui essere ed agire? Alcuni tra i più grandi filosofi di sempre ci aiutano a fare luce sul legame tra etica ed empatia.
Pierre Reverdy diceva: “L’etica è l’estetica di dentro”1. In effetti, la filosofia morale può essere intesa come il tentativo dell’uomo di trovare e identificare il bello interiore, il Bene, i principi etici che possono guidare l’umanità ad un agire corretto e giusto.
La filosofia etica, configuratasi fin dalle sue origini come filosofia eudemonistica, poi declinatasi nei più disparati ambiti di azione umana, si prefigge, dunque, lo scopo di esaminare la condotta dell’uomo, così come quest’ultima viene dettata dalla coscienza umana e suggerita dalle sue idee di giusto e di sbagliato.
Numerosi i pensatori che, a partire da Socrate, hanno intrapreso la via della ricerca morale, individuando nel lógos, ossia nella ragione, la migliore luce di cui l’uomo disponesse per affrontare il buio della perdita morale e, quindi, della ricaduta nel male. Tuttavia, furono altrettanti i pensatori che si allontanarono da questa concezione razionale della moralità, trovandone, invece, il fondamento nella dimensione irrazionale dell’uomo.
Ad inserirsi in questo filone è sicuramente Hume, il filosofo che, nel suo “Trattato sulla natura umana”, sostiene che il comportamento etico dell’uomo debba fondarsi sulla simpatia. Da intendersi come amore per l’altro, la sympatheia indica, letteralmente, il “sentire insieme”, la capacità di immedesimarsi nei sentimenti e nelle condizioni dell’altro: quella rara e lodevole qualità che oggi chiameremmo empatia. Come scrive anche lo stesso Einstein nella raccolta di saggi “Il mondo come io lo vedo”, la morale non può prescindere dai legami sociali che uniscono gli uomini, le loro conoscenze e i loro comportamenti. La condotta etica di un uomo deve basarsi sui rapporti che egli intreccia quotidianamente con gli altri soggetti sociali: è solo da questa interazione profondamente umana che l’uomo plasma la sua coscienza e la sua personale etica di vita, approvando o disapprovando i comportamenti osservati nell’altro. In accordo con il pensiero di Smith, l’uomo è naturalmente portato a confrontarsi con gli altri e con i loro comportamenti individuali e sociali, ai quali talvolta si uniforma, talvolta si oppone.
In questa particolare concezione etica, la morale dell’uomo non è improntata alla ricerca della felicità, quanto, piuttosto, all’accettazione sociale che la precede. Va così configurandosi una morale sociale e intersoggettiva, che implica per l’uomo una continua ridefinizione di sé in virtù delle risposte sociali, che, di volta in volta, riceve nel suo percorso di vita.
Già Hegel aveva espresso, nella sua “Fenomenologia dello spirito”, una concezione molto simile, ricorrendo, però, al concetto di compassione. Dal latino “cum-patior”, essa indica la capacità intrinsecamente umana di immedesimarsi nell’altro, patendo con lui, sentendo con lui, partecipando con lui ad ogni sorta di sentimento. Hegel riteneva che la moralità, seconda espressione dello Spirito oggettivo, si fondasse proprio sulla compassione, sull’amore disinteressato per l’altro, sulla comprensione e il rispetto reciproci. Soltanto evitando cedimenti individualistici, mettendosi al servizio degli altri ed entrando in empatia con loro, l’uomo supera la mera legalità, interiorizza i principi etici del vivere insieme e li assume a guida morale per la vita. Dunque, le interpretazioni etiche esaminate finora evidenziano una morale che interessa l’uomo sia nella sua dimensione individuale che sociale, implicando rapporti di significativa interdipendenza tra i principi etici individuali e l’agire sociale.
D’altronde, come già Aristotele aveva bene evidenziato, l’uomo è un animale sociale, perciò è impensabile poterne collocare la dimensione morale esclusivamente in un campo d’azione e di pensiero individuale. L’uomo definisce se stesso e la propria coscienza non solo attraverso il dialogo interiore, tanto sollecitato a ragione da Socrate, ma anche e soprattutto in virtù delle relazioni che egli instaura con gli altri. Ritengo, dunque, che il comportamento etico di un uomo non possa prescindere dai legami sociali che egli sperimenta.
La scala di valori morali che dà forma al nostro pensare e soprattutto al nostro agire deriva da una motivazione intrinseca, da una riflessione di noi stessi con noi stessi, da una dialogo interiore, indotto, però, da quanto si osserva negli altri e con gli altri.
A mio avviso, la morale migliore non è quella eteronoma di eco agostiniano, ma quella autonoma di stampo kantiano, privata, però, del suo carattere deontologico. Siamo noi a decidere per la nostra morale, tuttavia non tanto perché guidati dal senso del dovere, che spesso soccombe a causa dell’egoismo individuale, quanto più dalla capacità di “sim-patire”, che dà significato alla nostra essenza di uomini. L’etica ha un fondamento individuale, che riguarda il nostro Io, la nostra coscienza e le nostre scelte, ma non si esaurisce in questa unica dimensione.
Costruirsi una propria etica di vita significa affrontare da soli un percorso intricato, durante il quale saremo, molto spesso, costretti a ridefinirci, talvolta anche completamente, ma avremo sempre e comunque la possibilità di specchiarci nelle azioni altrui e godere delle esperienze vissute con gli altri e per gli altri.
Immanuel Kant diceva: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona che negli altri, sempre come fine e mai semplicemente come mezzo”. Credo che questa formula, tratta dalla “Critica della Ragion Pratica”, racchiuda quel «bello interiore» di cui parlavo all’inizio del mio ragionamento: la bellezza di pensare e agire nel rispetto e nella valorizzazione di sé e dell’altro.
Riflettere su ciò che facciamo e su come agiamo ci rende consapevoli delle nostre responsabilità. E c’è una responsabilità che avrebbe superato il test kantiano di universalizzabilità, vale a dire quella che tutti noi abbiamo nei confronti del prossimo.
Al di là della ragione, dunque, la perdita morale si evita (o si recupera) in primis con l’empatia. Sentire l’altro e con l’altro ci rende persone migliori, non perché, così facendo, seguiamo ad litteram la “ricetta perfetta” per essere persone sempre buone e sempre giuste, ma piuttosto perché abbiamo saputo oltrepassare la nostra nicchia di valori morali personali, sicuri sì, ma anche sterili se non condivisi.
Essere empatici significa allora abbandonare la “comfort zone”, per toccare con propria mano i sentimenti degli altri e, con loro, nuove e sempre diverse forme di eticità: questo naturalmente spaventa. Lasciarsi vagliare e mettersi in discussione non è mai semplice, tuttavia è assolutamente necessario se desideriamo dare significato alla nostra umanità ed elaborare un’etica personale che sia autentica.
Forse, dunque, al termine di questo ritracciamento filosofico ed etimologico, riesco a trovare una risposta alla domanda che mi sono posta in apertura: perché l’empatia oggi ha una tale eco? Beh, probabilmente perché abbiamo finalmente rispolverato il senso dell’interazione e dell’immedesimazione nell’altro: solo attraverso l’alterità, possiamo costruire un’eticità idiografa.
- Le Livre de mon bord. Notes (1930-1936)
[…] Il termine “sympatheia” deriva dal greco antico e significa letteralmente “sentire insieme”. Si riferisce alla capacità di immedesimarsi nei sentimenti e nelle condizioni dell’altro, creando uno stato di condivisione sentimentale1. Nell’antichità, la sympatheia veniva intesa non solo come un sentimento umano di natura psichica o emotiva, ma anche come una forza cosmica, capace di pervadere ogni creatura e persino gli elementi fisici1. In tempi moderni, il concetto è stato esplorato da filosofi come David Hume, Adam Smith e Max Scheler, limitandolo all’ambito sentimentale dell’essere umano1. La sympatheia può quindi essere vista come un antico incontro tra empatia ed etica, un amore per l’altro che si manifesta nella capacità di condividere emozioni e sentimenti2. […]