¿Por qué no ha de ser lícito a los presentes introducir en la lengua nuevas riquezas traídas de otras naciones? ¿No es una preocupación bárbara el querer que cada lengua se limite a sí sola, sin que reciba de las otras los auxilios que pueden darle y que tan indispensables son para los adelantamientos científicos?1
Uno degli argomenti maggiormente presi in esame nell’ambito della Linguistica generale è, senza dubbio, il concetto di “contatto linguistico”: le lingue vengono reciprocamente influenzate per mezzo di quelle che vengono tecnicamente dette “interferenze”2.
Molti forestierismi, che siano prestiti o calchi (soprattutto inglesi), entrano nel nostro lessico e vi attecchiscono a tal punto da divenire d’uso naturale e scontato. Ad esempio, quando proponiamo di mangiare sushi all’all you can eat, o diciamo di non volere un altro lockdown oppure digitiamo “Sequel degli Avengers” su Netflix, non stiamo parlando o scrivendo in italiano, ma stiamo usando in maniera del tutto spontanea e lato sensu dogmatica il cosiddetto itanglish: è un termine ibrido che designa la lingua italiana impiegata in certi contesti e ambienti, caratterizzata da un ricorso frequente ed arbitrario a termini e locuzioni inglesi.
L’itanglish sembra essere sempre più adoperato con naturalezza e spontaneità: infatti, non ci chiediamo perché sull’asfalto leggiamo “stop”, non ci meravigliamo se un’amica ci dice di voler diventare una “makeup artist”, né tanto meno se ci dice di aver comprato un nuovo “computer”.
Probabilmente, è in virtù di questa innocente abitudine linguistica che un mio compagno di corso all’università, qualche mese fa, salutò la professoressa di spagnolo augurandole un «buon weekend». Passo falso: anziché ricevere un contraccambio d’auguri, lo studente è stato benevolmente sollecitato ad utilizzare la «così bella» espressione italiana “fine settimana”.
L’episodio mi fece riflettere molto perché effettivamente siamo così abituati ad impiegare anglicismi da dimenticarci, talvolta, dei relativi termini italiani; anzi, spesso preferiamo di gran lunga i primi ai secondi. Uno spagnolo ci considererebbe dei pazzi.
Chi di voi conosce anche solo un poco della lingua spagnola, non può non aver notato la sporadicità con cui vi appaiono i prestiti non adattati o, comunque, più in generale, l’influsso anglofono. I calchi linguistici, ossia le parole inglesi che gli spagnoli hanno fatto proprie sia nella scrittura che nella pronuncia, sono moltissimi: per esempio, il “mouse” è letteralmente il “topo” (ratón). Quelle che, invece, si sono salvate dalla traduzione e sono arrivate in Spagna nella loro forma originaria si contano sulle dita di una mano e, se assorbite, vengono comunque pronunciate “alla spagnola”: WiFi, ad esempio, si pronuncia letteralmente “uifi” (una sorta di forma boomeristica italiana).
Quando mi addentrai per la prima volta nel lessico ispanico, mi parve davvero strano e, lo ammetto, a tratti buffo, definire il computer “ordenador”, l’email “correo electrónico”, la password “contraseña” e i jeans “vaqueros”. Mi stupì moltissimo anche la scelta di adattare tutte quante le sigle e gli acronimi: USA diventa EE UU (Estados Unidos) e la NATO diventa OTAN (Organización del Tratado del Atlántico Norte). Dopo l’iniziale e arlecchinesca reazione, non ho potuto fare a meno di riflettere su quanto avessi rilevato, cioè che degli spagnoli tutto si può dire tranne che siano un popolo esterofilo, il che non è affatto ed obbligatoriamente un male! Questo loro tratto mi ha colpita e affascinata a tal punto da spingermi a compiere innumerevoli ricerche: ero determinata a scoprire perché agli spagnoli l’inglese stesse così antipatico.
La cosa buffa è che, dal canto loro, gli spagnoli sono altrettanto testardamente determinati a scoprire perché agli italiani l’inglese stia così simpatico. Una situazione ilare che mi ricorda molto il meme degli Spiderman che si indicano vicendevolmente oppure il gioco del tiro alla fune.
La professoressa spagnola Sara Castro3, di cui ascolto con piacere i podcast, racconta come, nel suo primo anno in Italia, fosse letteralmente “andata fuori di testa” sentendo tutti i termini inglesi che utilizziamo noi italiani, rilevando che scelte linguistiche simili sarebbero assolutamente impensabili in Spagna. La sorpresero in particolare due cose: in primis, il fatto che il dizionario italiano recasse un lungo paragrafo con le parole inglesi più utilizzate nella lingua e, in secundis, il fatto che anche i giornalisti usassero spesso parole come scoop, blitz e blackout. Sara non si spiega tuttora come le persone anziane in Italia comprendano termini di questo tipo quando li leggono in un qualche quotidiano.
La professoressa prosegue spiegando che, certamente, anche lo spagnolo presenta degli anglicismi, così come altre parole derivanti da altri idiomi arricchenti, come il francese. soprattutto. Tuttavia, la maggior parte di esse si “spagnolizza” nella sua grafia e pronuncia (“leader” diventa líder in spagnolo); per farla breve, in Spagna, se si può, si preferisce sempre utilizzare lo spagnolo. Certo, con la diffusione di termini informatici, l’inglese è forse un poco più presente, ma, comunque, afferma Sara, gli spagnoli preferiscono di gran lunga chiamare il mouse “ratón”, il desktop “escritorio”, il link “enlace” e i social network “redes sociales”.
Per approfondire la questione più da vicino, mi sono fatta aiutare dall’omonima Marta Marzegalli4, che studia Lingue e Letterature Straniere presso l’Università Cattolica di Milano. Studia lo spagnolo da dieci anni, lingua di cui è estremamente appassionata, e parla il castigliano al livello C2.
Marta mi spiega come la Spagna abbia sempre adottato un approccio di chiusura ed isolazionismo, sia a livello storico e geopolitico (ricordiamo, infatti, che, ad esempio, il Paese non ha partecipato a nessuna delle due Guerre Mondiali), ma anche a livello culturale e linguistico. In Spagna, è estremamente vivo il sentimento di protezione e conservazione della purezza dell’idioma nazionale, soprattutto nei confronti della lingua franca dominante ai giorni nostri, vale a dire l’inglese.
«Istituti come la RAE e Cervantes hanno da sempre cercato di valorizzare quei termini spagnoli che potessero fare da contraltare a quelli inglesi, con l’obiettivo di salvaguardare il lessico spagnolo (quantomeno nella sua forma colloquiale e meno diafasicamente connotata). Per questo motivo, è decisamente preferibile dire “fin de semana” piuttosto che “weekend”.»
Marta prosegue dicendomi che, quando parla in spagnolo, utilizza molti termini presi dall’inglese. L’idea della “presa”, tuttavia, implica una qualche derivazione, ossia un certo margine di modifica. Ciò che Marta pronuncia non sono quindi forme integrali anglofone e prestiti non adattati, bensì calchi strutturali, ovvero termini d’origine inglese rivisitati in materiale spagnolo autoctono. Alcuni esempi sono: fútbol da football, beicon da bacon, vóleibol da volleyball.
«Persino le parole più “international” vengono spagnolizzate: gli spagnoli cercano sempre di appropriarsene in qualche modo prima di adottarle nella versione originale. Pensa che “WhatsApp” si scrive e si pronuncia “wasap” in Spagna e in sostituzione del verbo “chattare” gli spagnoli hanno scelto il verbo “wasapear”.»
Marta mi racconta anche che, a differenza degli insegnanti madrelingua italiani, quelli madrelingua spagnoli sono più propensi a correggere gli studenti laddove questi cadano nella tentazione di usare anglicismi:
«A tutti è capitato, mentre si parla in spagnolo, di dire “computer” anziché “ordenador” o “computadora”: sebbene non sia una scelta grammaticalmente scorretta e nemmeno elemento di disturbo per l’intercomprensione, gli insegnanti tendono a correggere scelte lessicali di questo genere. Esprimersi in spagnolo è sempre meglio che farlo in inglese.»
Al contrario, i suoi giovani amici spagnoli non sono tanto sorpresi dall’uso in sé degli anglicismi (anche perché, mi spiega Marta, molti di loro frequentano Accademie d’inglese), quanto dal contesto in cui noi italiani siamo soliti usarli. I conoscenti ispanici rimangono sbigottiti, ad esempio, quando lei dice “al fly” (espressione d’itanglish per dire “al volo”), perché si aspettano un uso più didattico, scolastico e settoriale dell’inglese, lingua che, invece, in italiano costella anche e soprattutto la conversazione quotidiana.
Da questo generale quadro introduttivo e dalle esperienze mie e di Marta, emerge, dunque, con chiarezza quale sia l’atteggiamento della lingua spagnola nei confronti dell’influsso linguistico inglese e quanto questa condotta si differenzi da quella invece adottata in ambito italiano. Lo spagnolo predilige l’utilizzo di calchi strutturali o semantici, come le traduzioni letterali; l’italiano, invece, tende ad accettare numerosi prestiti a contatto e a distanza, riempiendosi di una moltitudine di anglicismi5, soprattutto per venarsi di maggiore professionalità.
Preso atto di un effettivo e diverso grado di esterofilia, come lo si può, quindi, spiegare? Dove affonda le sue radici, sempre che queste siano individuabili, l’isolazionismo linguistico che si osserva nell’idioma español?
Per trovare risposta a questi interrogativi, mi sono fatta aiutare dall’esperto Gabriele Valle, filosofo e insegnante italo-peruviano, e dal suo stimato saggio “L’esempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi: l’italiano e lo spagnolo a confronto”.
Valle apre la sua riflessione definendo lo spagnolo come “la sorella minore dell’italiano”, in quanto nato cronologicamente dopo, vale a dire nel 978 d.C. con le Glosas Emilianenses. Ammesso, dunque, che la lingua italiana sia nata prima della spagnola, essa può comunque trarre profitto dall’esperienza della seconda per quanto concerne l’assimilazione degli anglicismi moderni: la sorella maggiore segue l’esempio della minore. Lo studioso prosegue individuando una prima constatazione che potrebbe spiegare la differenza d’approccio agli anglicismi mostrata dalle due lingue. Scrive Valle:
«Lo spagnolo, malgrado la sua enorme dispersione geografica e le varietà diatopiche che ne conseguono, conserva una vigorosa unità che si rivela proficua anche nel terreno della demarcazione delle frontiere con altre lingue.»6
Sebbene lo spagnolo sia parlato in ben 22 nazioni, si configura paradossalmente come una lingua molto unita: ciò significa che il patrimonio linguistico comune a tutti i popoli ispanici è talmente dominante in ciascuno dei dialetti che le differenze tra questi, in proporzione, appaiono infime. Al di fuori degli strati più mutevoli si scopre, infatti, una “sbalorditiva unità”7, come diceva Ángel Rosenblat. Valle sostiene che questa unità si debba al permanente scambio in passato tra l’impero spagnolo e le sue colonie e, attualmente, agli intensi legami tra la Spagna e le repubbliche ispano-americane. A partire dal Seicento, l’evoluzione dello spagnolo avviene dunque contemporaneamente, sotto il segno della simbiosi, su ambo le sponde dell’Oceano.
Alla notevole unità della lingua spagnola fa da contraltare, secondo gli studiosi, il complesso di inferiorità degli italiani:
«C’è una spiegazione […]: un complesso d’inferiorità, che è segno di autostima povera verso la propria cultura.»8
L’italiano sarebbe, dunque, una lingua più propensa alle importazioni inglesi, dovutamente al fatto che i suoi parlanti ne nutrono poca stima, sentendosi necessitati ad adottare un lessico straniero in quanto unico mezzo per addurre professionalità, precisione ed eufonia alle proprie comunicazioni. Affine a questo giudizio ma più moderato, è quello espresso da Maurizio Dardano:
«Un certo senso di inferiorità nei riguardi dell’inglese è dimostrato da vari aneddoti riguardanti la pretesa “incapacità” della nostra lingua di rendere taluni significati, che l’inglese esprimerebbe con disinvolta naturalezza.»9
Secondo questa prospettiva, se il nostro linguaggio è sempre più punteggiato di termini inglesi è perché non è in grado di gareggiare con Golia: l’italiano pare una lingua claudicante, non sufficientemente dotata per le competizioni internazionali.
Abbiamo dunque scoperto una delle possibili spiegazioni sottese al diverso approccio agli anglicismi di italiano e spagnolo. Tuttavia, ve ne sono altre degne di essere ivi esposte, come suggeritomi da Letizia Laganà10. Letizia frequenta il corso di Lingue per l’Impresa presso l’Università Cattolica di Milano e studia lo spagnolo dall’età di 11 anni, lingua di cui è profondamente appassionata. La mia coetanea mi spiega come le vicende storiche di Spagna e Italia possano illuminare la questione degli anglicismi:
«Non bisogna dimenticare che la politica protezionistica del regime dittatoriale di Francisco Franco isolò e lasciò nell’arretratezza la penisola. Questo non valse soltanto per l’economia e l’innovazione tecnologica, bensì anche dal punto di vista linguistico.» 11
Letizia mi spiega, infatti, che la maggior parte degli anglicismi entrati in uso comune nella lingua italiana durante il XX secolo non sono stati presi in considerazione in Spagna, proprio per la più lunga sopravvivenza della dittatura franchista rispetto a quella fascista. È certamente cosa indubbia che anche il regime mussoliniano abbia avviato una vera e propria campagna di repressione nei confronti di tutti i prestiti linguistici, tuttavia…
«…la dittatura franchista è terminata molto tempo dopo rispetto alla primavera del 1943, impregnando in misura maggiore le politiche linguistiche spagnole. Al contrario, la repressione linguistica avviata col fascismo cadde con lui. Questo determinò una ripresa dell’utilizzo di anglicismi e francesismi al momento della caduta del regime di Mussolini, che andò via via sempre più incrementando fino ai giorni nostri.»12
Oltre ai motivi culturali e storici fino ad ora analizzati, mi sono chiesta se vi sia una qualche spiegazione prettamente linguistica (fonologica, lessicale, sintattica) alla base di una tale differenza di atteggiamento nei confronti dell’influsso inglese. Trovo risposta nel saggio di Valle, nel quale questi sostiene che la bocca spagnola è naturalmente incline ad assorbire gli anglicismi con risorse proprie:
«Questa tendenza, a mio avviso, è favorita dal vantaggio di possedere un lessico le cui parole terminano le une in vocale e le altre in consonante, il che consente un passaggio impercettibile. […] Tale tendenza è dunque favorita dalla doppia uscita delle parole.»13
Valle afferma che nella lingua spagnola vi sono molte parole terminanti in consonante, condizione invece assai più sporadica in italiano. Il fatto che molti anglicismi finiscano in consonante, esattamente come i lessemi autoctoni, facilita il trattamento dei primi nelle modalità “tradizionali” della lingua stessa. In virtù di ciò, il termine “bar” è già prestito integrato che si comporta come qualsiasi nome del sistema spagnolo, per cui al plurale diventa “bares”, esattamente e semplicemente come vuole la regola. Il fatto che, invece, in italiano di norma i nomi terminino in vocale, rende più difficile l’adattamento dei forestierismi su base autoctona, prediligendo invece la strada del prestito integrale, vale a dire non adattato.
Infine, esiste un ultimo motivo che potrebbe aiutarci a capire perché gli spagnoli sono meno propensi ad utilizzare anglicismi e, ancora una volta, a suggerirlo è Valle. Lo studioso mette in evidenza come le Istituzioni linguistiche nazionali esercitino molta più influenza in Spagna che in Italia. La Real Academia Española e l’Instituto Cervantes sono ben più autorevoli – e soprattutto consultati – di quanto non lo sia la nostra Accademia della Crusca.
«La Reale Academia Spagnola (RAE) fu fondata nel 1713 con lo scopo, definito dal suo emblematico motto, di “pulire, fissare e donare splendore” alla lingua spagnola.»14
L’aspirazione degli accademici raggiunse la sua vetta più alta nella compilazione del Diccionario panhispánico de dudas (dizionario panispanico dei dubbi), che fornisce validi consigli per evitare gli anglicismi.
«La RAE inoltre patrocina un consultorio linguistico, la Fundación del Español Urgente. Trattasi di un istituto senza fini di lucro il cui precipuo obiettivo è quello di promuovere il buon uso della lingua.»15
Questo “pronto soccorso lingua” si è rivelato particolarmente prezioso per i giornalisti del vasto mondo ispanico che spesso vi si rivolgono, assillati da anglicismi elusivi. È cura dei consulenti produrne adattamenti o calchi nella lingua d’arrivo.
La RAE ha un potere culturale e linguistico non trascurabile, dato dalle sue finalità prescrittive e dalla sua notevole attività anche sui nuovi media. L’istituto, per esempio, ha lanciato nel 2016 una finta campagna pubblicitaria16 che faceva uso improprio degli anglicismi: erano sponsorizzati il profumo “Swine” (letteralmente, profumo di maiale) e gli occhiali con “Blind effect” (letteralmente, occhiali effetto cecità). Iniziative come queste, che ricorrono all’ironia per dimostrare la ridicolezza degli anglicismi e la loro potenzialità ingannevole, sono parte di una politica linguistica molto influente nel Paese.
Alla luce di questo percorso argomentativo, abbiamo a nostra disposizione un quadro più chiaro ed ampio circa i motivi per i quali la lingua italiana e la lingua spagnola si pongono in maniera così diversa rispetto agli anglicismi. Tuttavia, lungi dal fare i conti senza l’oste, ho deciso di intervistare anche uno “spagnolo DOC”, per toccare la questione con mano: potete leggere le risposte di Alvaro nella categoria Interviste.
Ho scritto questo articolo senza l’intento di condurre una troppo seriosa riflessione linguistica, né tanto meno per fornire una mia personale versione normativa della questione (è giusto o è sbagliato usare anglicismi?), alla quale, tra l’altro, troppe persone si avvicinano asintoticamente, senza mai di fatto fornire una soluzione definitiva ed univoca. Ho piuttosto scritto di questo tema, che tanto mi ha colpita e tanto continua ad affascinarmi, semplicemente per sollecitare noi parlanti italiani a ragionare con maggiore consapevolezza sull’uso scontato e naturale che facciamo degli anglicismi. L’ho voluto fare portando alla vostra attenzione un modo di pensare e di agire linguisticamente alternativo al nostro, poiché trovo che inforcare gli occhiali degli altri ci aiuti a ridurre la nostra miopia interpretativa. L’esempio della sorella minore ci ricorda sì di guardare oltre il nostro orticello ma, al tempo stesso, di saperne apprezzare i frutti.
Vi lascio nell’onda della riflessione con un bellissimo pensiero che Marta ha condiviso con me:
«La lingua non è solo veicolo di un senso, ma anche di una cultura. E il modo in cui diciamo le cose, veicola già un modo di guardare ad esse.»
- Tratto dal discorso tenuto dallo scrittore Nicasio Alvarez Cienfuegos durante una sessione solenne della Reale Accademia Spagnola. Cfr F. Lazaro Carreter, Casticismo y purismo, in El dardo en la palabra, Random House Mondadori, Barcelona 2003. p.579.
- G. Gobber, Lingue, culture ed esperienza, VITA E PENSIERO, 2018.
- https://www.saracastro.net/ – Instagram: @sara.castro.online
- Instagram: @martamarze
- Fonte: Letizia Laganà; Instagram: @_letizialagana_
- G. Valle, L’esempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi: l’italiano e lo spagnolo a confronto, Studium, 2013, p 743.
- R. Ángles, El castellano de España y el castellano de América: unidad y diferenciación, Caracas 1962, p.46.
- G. Valle, L’esempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi: l’italiano e lo spagnolo a confronto, Studium, 2013, p 759.
- M. Dardano, La lingua della Nazione, Laterza, Bari 2011, p.24.
- Letizia Laganà; Instagram: @_letizialagana_
- Ibidem
- Ibidem
- G. Valle, L’esempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi: l’italiano e lo spagnolo a confronto, Studium, 2013, p 754.
- G. Valle, L’esempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi: l’italiano e lo spagnolo a confronto, Studium, 2013, p 755.
- G. Valle, L’esempio della sorella minore. Sulla questione degli anglicismi: l’italiano e lo spagnolo a confronto, Studium, 2013, p 757.
- https://youtu.be/mdPyZtUR7Gs
di Marta Gatti
Vi presento Marta: made in 2001, vive in provincia di Brescia ma studia Scienze della Comunicazione a Bergamo. Ama profondamente la Città dei Mille: infatti, per la gioia della metà bresciana dei suoi parenti, preferisce definirsi bergamasca («eretica!»). Da grande vorrebbe diventare una giornalista. Ama dibattere e ama scrivere: se l’avete persa di vista, probabilmente sarà rimasta a discutere con qualcuno su femminismo, donazione del midollo osseo e vegetarianesimo. Per lei non esiste parola e scrittura pubblica che non sia connotata e mobilitata (e spera, mobilitante). Quando non studia con fastidiosa pignoleria, suona Morricone al pianoforte, mangia Nutella e ascolta podcast in spagnolo; ah, e dimostra il suo affetto scrivendo chilometriche lettere sigillate con cera lacca. Su L’Eclisse scrive solo di ciò che la galvanizza.