Attenzione! Questo articolo contiene spoiler del film Spider-Man: No Way Home (id., J. Watts, 2021)
Non sono mai stata una grande fan del Marvel Cinematic Universe, ovvero quell’universo cinematografico in cui la Marvel, ora sotto Disney, sta facendo confluire tutti i personaggi apparsi nei suoi fumetti. Vidi Avengers (id., J. Whedon, 2012) perché mio padre l’aveva noleggiato, ma non piacque particolarmente a nessuno dei due: non conoscevamo abbastanza i personaggi per capire i numerosi riferimenti incrociati o la posta emotiva in gioco. I film Marvel si sono, nel tempo, moltiplicati, e la loro fama è cresciuta esponenzialmente, ma io ho continuato a recuperarne tutt’al più qualche spezzone in TV, senza apprezzarli particolarmente. Non che mi sentissi condizionata dalla mia identità di genere: anzi, per molti altri versi ero facilmente definibile “un maschiaccio”, ma per qualche motivo non sono mai riuscita a condividere la frenesia per Iron Man e compagnia. I supereroi, molto semplicemente, non mi interessavano.
A parte uno. Forse perché era, paradossalmente, il meno “super” di tutti gli eroi, forse perché era più facile empatizzare con uno studente come me, piuttosto che con un milionario, forse perché era uno dei pochi personaggi di fantasia che anche i miei parenti conoscevano, sono sempre stata piuttosto legata a Spider-Man. Quando d’estate, dopo pranzo, i miei nonni si ritiravano per la consueta siesta e io mi piazzavo davanti al televisore, Peter Parker veniva a farmi compagnia nella sua versione in 2D. Erano gli anni in cui cominciavo a familiarizzare sempre di più con Internet e i computer: cercavo in streaming gli episodi che avevo saltato (perdoname Polizia Postale por mi vida loca) e andavo a leggere le tavole originali, ad approfondire la storia dei personaggi principali e secondari, a seguire le notizie sulla produzione dell’imminente The Amazing Spider-Man (id., M. Webb, 2012). Trascinai persino mio nonno a vederlo, quando finalmente uscì al cinema.
Lo scorso dicembre, il mio ragazzo mi ha chiesto se volessi andare a vedere il nuovo Spider-Man con lui e io, naturalmente, gli ho detto di sì. I dieci mesi vissuti in Corea, nel frattempo, mi avevano leggermente aggiornata sul MCU – se non altro perché erano gli unici film che riuscivo a capire, non essendo doppiati – e, pur senza essere un’esperta, avevo visto con piacere i reboot con Tom Holland, attore che apprezzo. D’altro canto, il mio ragazzo aveva aspettative molto alte: mentre la me di dieci anni restava immune al fascino degli Avengers, lui cominciava a costruirsi un’impressionante enciclopedia di eroi ed eroine con nomi simili e abilità sempre più specifiche (seriamente, chi è Quicksilver? Perché si chiama come Silver Surfer, ma è una persona diversa? E che poteri ha Elizabeth Olsen?).
Come lui, a quanto pare, anche una notevole percentuale della popolazione torinese aspettava con ansia il nuovo capitolo dell’universo Marvel. Dopo due anni di Covid, e viste le mie passioni cinematografiche generalmente condivise solo dalla fascia 60-80, mi ha piacevolmente sorpresa vedere la sala del cinema gremita. Anzi, mi sono quasi spaventata quando, a pochi minuti dall’inizio, tutti si sono messi ad applaudire alla comparsa di un avvocato cieco dai riflessi fulminei.
«È Daredevil», mi spiega il mio ragazzo.
Ah. Un barlume nella nebbia della mia mente ignorante.
«Quello della serie Netflix?»
Il film avanza, l’atmosfera nella sala si fa sempre più elettrica e non solo per la comparsa di un certo nemico storico dell’Uomo Ragno. Persino io, digiuna di qualsivoglia fan theory, ho sentito le voci di corridoio secondo cui questo film avrebbe visto la partecipazione dei due ex-ragnetti, Tobey Maguire (che ha interpretato l’eroe mascherato nella trilogia diretta da Sam Raimi tra il 2002 e il 2007) e Andrew Garfield, volto di The Amazing Spider-Man e del suo seguito. No Way Home sembra andare proprio in questa direzione: facce conosciute spuntano a destra e a manca, il pubblico diventa sempre più rumoroso ed entusiasta. Uno ad uno, arrivano tutti: Alfred Molina/Dr. Octopus, Jamie Foxx/Electro, Rhys Ifans/Lizard. Quando compare Willem Dafoe, il Goblin, c’è chi si alza in piedi, chi fischia, chi lancia “oooh” e “aaaah”.
Un po’ mi viene da ridere, perché penso a quanto sarebbe infastidita mia mamma, che quando la gente rumoreggia al cinema si tramuta in madama borghese e scioglie la sua biforcuta lingua ligure. Più di tutto, però, sono estasiata, quasi emozionata. È facile farsi coinvolgere dall’entusiasmo di persone che sono cresciute con questi personaggi, che li conoscono come le loro tasche. Per chi, come me, spera di lavorare dietro la cinepresa, un giorno, è anche rincuorante vedere come, nonostante Netflix, la pandemia, lo streaming illegale e la morte periodicamente annunciata dell’arte, il cinema riesca ancora a smuovere le persone a questo modo. Ogni tanto alzo gli occhi, guardo il mio ragazzo. Non è tra i rumoreggiatori, per indole, ma gli leggo negli occhi un guizzo di euforia ad ogni nuova comparsa.
Il clou arriva circa a metà della pellicola. Ormai ci siamo, i ritardatari smetteranno di farsi attendere. Sullo schermo, Ned (Jacob Batalon) apre un portale verso un altro universo. Nella sala, le nocche diventano bianche da quanto stringono i braccioli delle poltrone. La fila dietro di noi, occupata da una comitiva di nostri coetanei (forse un po’ più grandi), ormai non si contiene più, è tutta un susseguirsi di commenti e anticipazioni e teorie e popcorn che volano. Come in tutti i film Marvel, la tensione da climax viene smorzata da un intermezzo comico – il portale che non si apre – che non fa che nutrire l’impazienza del pubblico. Forse qualcuno grida a Ned di muoversi.
Secondo tentativo: questa volta il portale si apre. La mano nella mia si fa tesa, la libero per lasciarla applaudire. La macchina da presa si avvicina sempre di più alla figura vestita di rosso e blu. «Tobey» sussurra il mio ragazzo; quel nome rimbalza sulle labbra di tutti. La figura si gira. Non è Tobey, è Andrew. Non fa nulla, la sala letteralmente erutta in un turbinio di applausi, fischi, cori. Non ho mai assistito ad uno spettacolo del genere, neanche quando sono andata a vedere l’episodio VII di Star Wars. Sì, l’applauso per Han Solo c’è stato, e va bene che lì ero in una saletta di una località sperduta in Normandia, mentre ora sono in un multisala nel centro di Torino, ma qua sembra l’esondazione di un fiume in piena. È quasi commovente.
Poi arriva anche Maguire ed empiricamente i decibel aumentano. Tuttavia, non percepisco il colpo con la stessa forza emotiva, forse per assuefazione. One too many, dicono gli anglofoni, ed effettivamente il resto del film è pieno di riferimenti, citazioni, strizzate d’occhio – il cosiddetto “fan service” abbonda, ma forse è giusto così. Dopotutto era inevitabile.
No Way Home, in quanto film, non mi ha colpita particolarmente. Carino, classico film Marvel, interessante il dilemma che pone per il protagonista alla fine, ma niente di più. Quello che mi ha davvero dato da pensare è stato quel Tobey sussurrato e la reazione del pubblico al film, viscerale, sentita, in tutto e per tutto esperita.
Mia mamma se ne dovrà fare una ragione: il modo in cui siamo abituati a consumare i film è abbastanza innaturale e relativamente recente. Innanzitutto, la questione dell’orario di inizio, fonte di innumerevoli paturnie mie e di Woody Allen: fino almeno a tutti gli anni ’60, gli spettatori potevano entrare in sala in qualsiasi momento del film e al limite restare per lo spettacolo successivo a “recuperare i pezzi persi”. In più, la concezione, per dirla con i Måneskin, di dover stare “zitti e buoni” durante le proiezioni è stata totalmente aliena alla maggioranza dei pubblici otto e novecenteschi. Senza arrivare agli eccessi dei nickelodeon, i primi cinema che in America proiettavano corti per un nichelino, spesso usati per discutere affari, amoreggiare o allattare neonati urlanti, forse avrete presente le sale anni ’30 e ’40 di Amarcord o Nuovo Cinema Paradiso, affollate da anziani duri d’orecchio e piccoli mascalzoni, un vero turbine di strilli dialettali e bambini sfrenati. Rispondere verbalmente e gestualmente a ciò che accadeva sullo schermo era una pratica consolidata, specialmente nelle sale di provincia, dove la finzione filmica non veniva totalmente intesa dagli spettatori e Ghericùper e Brigittbardò diventavano volti familiari e quotidiani, cui ci si poteva rivolgere come ai compagni di giochi1.
Caotico? Forse; ma, in fondo, non è prerogativa dell’arte agitare l’animo umano? Già Giorgio Vasari, nelle sue celeberrime Vite (prima ed. 1550), sostiene che i più alti oggetti artistici siano quelli che provocano «timore e tremore» in chi li guarda; tanto che solo tre opere, in tutta la mastodontica produzione delle Vite, sono così descritte: la cupola di Santa Maria del Fiore di Brunelleschi, il ritratto di Monna Lisa di Leonardo da Vinci e il Giudizio Universale di Michelangelo.
Come detto, Spider-Man: No Way Home non è la Gioconda, ma vale la pena, secondo me, soffermarsi su quello scollamento avvenuto a metà del Novecento tra arte “popolare” e arte “colta”, in particolar modo per quanto riguarda la Settima delle muse moderne. Da una parte, lo snobismo di autori come Jean-Luc Godard o Béla Tarr è perfettamente comprensibile, se inserito in una più ampia cornice di propaganda del cinema come arte, iniziata con l’avvento del lungometraggio, nel 1915, che doveva attirare il pubblico borghese e fornire un ponte con la tradizione del romanzo ottocentesco, e in un certo senso mai davvero compiutasi. D’altronde, anche il romanzo, un tempo, era considerato produzione artistica di serie B, lo sapeva bene il Manzoni. Forse il cinema, questo giovincello di soli centoventisette anni, è presuntuoso nel volersi già affermare come una forma d’arte nel suo complesso e deve accettare di essere scisso, nel sentire comune, tra “cinema-arte” (Godard e Tarr) e “cinema-intrattenimento” (termine ombrello che riassume il film di genere, ivi compresi Ford e Petri, i cinepanettoni e tutto ciò che non è indorato da premi più o meno importanti).
Sul piano estetico, è difficile accostare Bergman ai fratelli Vanzina, ça va sans dire. Tuttavia, trovo illogico epurare l’esperienza cinematografica “alta” da ogni reazione empatica, come se il semplice fatto di trovarsi davanti a un’opera sviscerata nelle aule universitarie fornisse da anestetico verso la partecipazione estetico-emotiva. Dopotutto, cos’è un Oggetto senza un Soggetto? E come può l’Oggetto diventare Artistico se nel Soggetto non smuove nulla di più di un qualsiasi altro Oggetto? Posso analizzare l’Iliade secondo le teorie strutturaliste e mettermi comunque a piangere quando Andromaca e il piccolo Astianatte danno l’estremo saluto a Ettore.
Illogico, ma anche pericoloso. Perché pericoloso? Proprio per via di quella tendenza, cui accennavamo all’inizio dell’articolo, al considerare l’arte ogni giorno più morta, tendenza che non fa altro che uccidere l’arte stessa. “La gente non va più al cinema”, “Ormai lo streaming ha rimpiazzato la sala”, “Fanno solo sequel e remake perché sono l’unica cosa che attira”. Tutte frasi che chi si interessa di cinema sente ripetere tutti i giorni, tutto il giorno. In parte è vero, in parte è comprensibile.
Andare al cinema, nella migliore delle ipotesi, è uno sbattimento (mangia presto oppure tardi, prendi i mezzi sperando non ci sia sciopero, oppure prendi la macchina sperando di trovare parcheggio, paga una cifra spropositata per sederti di fianco a uno che mastica rumorosamente ed emana un odore di sudore e umanità). In alcuni casi è quasi impossibile: la mia infanzia si è svolta a Pavia, città con una sola, piccola saletta, che generalmente proietta il film meno allettante della settimana; quindi, bisognava prendere la macchina, se la mamma non arrivava troppo tardi dal lavoro, per andare fino al Bennet di San Martino Siccomario, dove c’è il grande Movie Planet. Molto più comodo noleggiare un paio di DVD da Blockbuster, o, se fossi nata nel 2012, invece che nel 2002, accendere Netflix e Disney+ e stravaccarsi sul divano.
Nonostante tutto, però, non condivido totalmente la visione apocalittica di molti. Intanto, non è vero che al cinema ci sono solo sequel e remake, ve lo assicuro. Poi, se i sequel e i remake “attirano”, ben vengano: da una parte rimpolpano le casse delle case di produzione, che possono quindi devolvere qualche briciola al giovane regista indipendente di turno, ma soprattutto avvicinano intere generazioni al mondo del cinema e alla magia (parola retorica e stucchevole, ma in alcuni casi appropriata) della visione collettiva. Neanche Calvino si è avvicinato alla lettura con l’Iliade, immagino. In più, anche se ora alcune Arti hanno perso la loro dimensione collettiva, la Settima la trattiene e permette ai suoi spettatori di godere delle sintesi degli occhi altrui, anche e soprattutto quando non è “alto”. Quante volte ci è capitato di andare a vedere un film con amici, di discuterne davanti ad una birra in seguito e di pensare “Cavoli, non l’avevo notata questa cosa!” o “Proprio non l’avevo interpretato così!”.
Come ogni oggetto artistico, anche l’oggetto-film viene metabolizzato in solitudine, nel silenzio del cricetino mentale che si affanna a far girare i pensieri. Insieme agli altri, però, nel buio della sala, lontani dalla tentazione di tirare fuori Instagram, davanti a uno schermo che ci proietta il film per quello che è – cioè più grande di noi – lo viviamo davvero e lo viviamo anche grazie alle connessioni tacite che creiamo con gli altri, quando ridiamo insieme, quando tratteniamo una lacrima, quando applaudiamo alla vista di Tobey Maguire. Dopo due anni e mezzo di pandemia, questa connessione con gli altri non può che essere un toccasana.
P.S. A M., se stai leggendo: grazie di avermi permesso di citarti in questo articolo. E sì, ci vengo a vedere Doctor Strange 2 con te, ma solo se ammetti che sugli alpaca ho ragione io.
Note
- Consiglio, a questo proposito, il capitolo La cattedrale del desiderio in Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano di regime. Da “La canzone dell’amore” a “Ossessione”. 1929-1945, Roma, Laterza, pp. 285-313.
di Valentina Oger
Nata a Bologna nel lontano 2002, ha girato l’Italia (e, per dieci mesi, la Corea del Sud) prima di approdare al DAMS dell’Università di Torino. Generalmente è la meno socievole del gruppo, un po’ perché ha madre ligure e padre francese, un po’ perché è posseduta dallo spirito di un’ottantenne bisbetica che comincia a chiedere “quando si va a dormire?” alle dieci di sera. La sua ossessione principale è il cinema (per farla apparire basta dire davanti allo specchio “Martin Scorsese” otto volte e mezzo), ma è abbastanza eclettica: le sue ultime celebrity crushes includono Orson Welles, Magnus Carlsen, Farinata degli Uberti e Paul McCartney nel ’66. Ha due gatte e molti dubbi.