Padri d’infanzia
Le figure paterne nella lirica di Pascoli, Sbarbaro e Saba
In quasi tutti i manuali di letteratura italiana, così come nella stragrande maggioranza delle biografie dedicate agli apici della nostra tradizione, la presentazione dell’autore o dell’autrice di turno si avvia con la sua data di nascita e col nome dei genitori, quasi sempre nell’ordine padre-madre. Che si tratti di un fisima tutta nostrana, dati il biografismo e lo storicismo imperanti ancora oggi negli ambiti umanistici in Italia, oppure di un luogo comune profondamente umano – per abitudine culturale ci si è fatti il callo a credere che chiunque abbia una madre e un padre -, sembra sia necessario segnalare l’incombenza di questo “spettro genitoriale”, che, in qualche modo, avrà sicuramente influito sulla scrittura della prole.
A ben vedere, al di là dei meccanismi critici più o meno consci, non serve Freud per scoprire che il rapporto tra genitori e figli/figlie sia fra i più complessi, articolati ed eticamente interessanti per chi si dedichi alla letteratura, tanto da parte di chi la produce, quanto di chi semplicemente la “consuma”.
Millenni di tradizione ci restituiscono storie drammaticamente meravigliose di scontri generazionali, che, ovviamente, oltrepassano il mero confine famigliare per toccare temi quali l’autorità divina e umana (si pensi al ciclo tebano di Edipo scritto da Sofocle), le conseguenze delle colpe paterne che ricadono inesorabilmente sulla discendenza (tutto il filone che parte dall’Orestea di Eschilo per arrivare fino a riproposizioni molto recenti), o, banalmente, la libertà individuale e l’affermazione della propria identità a scapito di regole sociali prestabilite e imposte in contumacia, come nel caso della monaca di Monza1.
Insomma, questa prima ricognizione del tutto superficiale ci aiuta a constatare le potenzialità letterarie di un tale rapporto interpersonale, vero e proprio ganglio tematico per lo sviluppo dei personaggi, soprattutto in sede narrativa. Si tratta, infatti, di un modello che non solo ha avuto enorme successo in ambito drammatico, dove il conflitto padre-figlio/a costituisce uno dei topoi più sfruttati tanto in testi tragici quanto nelle commedie (una su tutte, la Mandragola di Machiavelli), ma anche nella prosa di romanzi e novelle, a partire, ad esempio, dai testi boccacciani del Filocolo e del Decameron per arrivare al Magrelli di Geologia di un padre. Meriterebbe una menzione a parte il melodramma, il cui schema dei personaggi è spesso una semplificazione all’osso di opere teatrali o romanzesche preesistenti e che, dunque, ripropone con estrema essenzialità le contrapposizioni generazionali già insite in quei testi, marcandone ulteriormente, se possibile, la forte polarizzazione tra bene (i giovani) e male (il genitore).
Tuttavia, in questi generi letterari, tale rapporto viene sempre inserito in una prospettiva evolutiva, rendendolo una tappa fondamentale del percorso formativo dell’eroe o dell’eroina, sfruttando le potenzialità della prosa nel cogliere i mutamenti progressivi, diluendone le sfumature in un racconto più disteso. Quando si decide di affrontare il tema in sede lirica, invece, la musica cambia poiché la forma condensata della poesia favorisce una concentrazione dei motivi topici per tratteggiare un quadro più universalmente valido rispetto a una specifica vicenda romanzesca. A farla da padrone sono, quindi, i forti parallelismi che segnalano gli aspetti di somiglianza fra la figura paterna e quella filiale, così come sono marcate le antitesi concettuali e sintattiche, che vogliono, invece, rendere a livello formale il conflitto sotteso al testo.
Trattandosi di un linguaggio spesso più difficile da maneggiare rispetto a quello prosastico, si è optato per l’approfondimento di alcune figure paterne abbastanza ingombranti nella vita e nelle opere di grandi autori italiani, sperando che l’interesse di tali liriche giustifichi almeno parzialmente la scarsa inclusività del corpus selezionato. Non è una novità, infatti, che molti poeti italiani abbiano avuto un rapporto per lo meno complicato con i propri genitori, specie col padre. Ad esempio, Dante non menziona il nome di Alighiero nemmeno una volta in tutta la sua opera. Eppure, com’è noto, il trisavolo Cacciaguida è protagonista di ben tre canti del Paradiso, dal XV al XVII, mentre vi sono molti altri riferimenti alla famiglia d’origine sparsi nella Commedia. Perché, allora, benché Dante volesse rivendicare la propria appartenenza alla famiglia Alighieri, non ha mai menzionato la figura paterna, fra tutti gli avi quello sicuramente a lui più vicino?
Nel suo recente saggio dedicato al poeta, il prof. Alessandro Barbero2 avanza l’ipotesi che questo silenzio fosse dovuto alla professione di Alighiero (forse meglio Alaghiero o Alighieri) Alighieri, dei suoi fratelli e del padre Bellincione, cioè l’usura. Senza invischiarci nell’intricata storia economica medievale, di difficile traduzione in termini contemporanei, non è difficile immaginare che il Dante letterato e politico non avesse alcun interesse a ricordare al mondo la professione poco dignitosa dei suoi parenti, “al limite del peccato”, secondo i cattolici. Bisognerebbe, invece, immaginare che egli cercasse assiduamente di nobilitare le sue origini, ad esempio “vantandosi” di avere un cognome da quattro generazioni3 (smarcandosi, quindi, dai nuovi arricchiti fiorentini), o dichiarando pubblicamente la sua discendenza da Cacciaguida, fatto cavaliere dall’imperatore Corrado III e morto martire, almeno se si vuole dare fede alla versione dantesca4 col rischio di cadere in un autoschediasma.
Non molto tempo dopo, ma con ben altro tono, Giovanni Boccaccio avrebbe posto suo padre, Boccaccino di Chellino, nel grande affresco del “Trionfo della ricchezza” descritto nell’Amorosa Visione (canto XIV, vv. 34-45), collocandolo spietatamente fra gli avari. Benché l’autore gli riconosca una certa liberalità come genitore, non gli può perdonare di averlo sottratto agli otia letterari per condurlo insieme a lui nel mondo degli affari napoletano, dove, fra il 1340 e il 1348, svolse la funzione di rappresentante per la banca fiorentina della famiglia Bardi. Scritto dopo la peste e almeno parzialmente a cavallo del Decameron, dunque dopo la rovina finanziaria dei Boccaccio, il poema visionario vuole convertire il Giovanni agens alla retta via cristiana, facendogli lasciare da parte le passioni terrene e il desiderio di gloria mondana, che avevano invece animato (e obnubilato) suo padre.
In questi casi, si trattava comunque di un rapporto giocato quasi esclusivamente sul piano biografico e poi trasposto, più o meno direttamente, su quello letterario. Il discorso si complica quando si parla di poeti i cui padri avevano un certo rilievo nella scena culturale e letteraria del loro tempo, come nel caso dei Tasso. Infatti, Bernardo, padre del rinomato Torquato, ebbe certamente un ruolo cruciale nella vita del figlio, essendo rimasto presto vedovo e facendosi accompagnare da lui nelle sue peregrinazioni di lavoro come ambasciatore presso le corti d’Italia. Al contempo, il suo modello agì anche sul piano poetico, dato che proprio Bernardo scrisse poemi epici, oltre ad essere l’inventore dell’ode-canzonetta – una forma metrica che spopolò fra Seicento e Settecento – e uno dei primi fautori della lirica sacra e della parafrasi salmica in volgare, generi quanto mai floridi nel secondo Cinquecento, che suscitarono grande interesse tanto poetico quanto devozionale nel Torquato ormai adulto.
Ovviamente, parlando di tali relazioni familiari non si può non ricordare Giacomo Leopardi, e il suo fantomatico padre Monaldo, cui il poeta indirizza una lettera molto celebre e toccante, datata luglio 1819, prima di una tentata e fallita fuga dalla casa natale. Dalle righe di un Leopardi appena ventunenne traspaiono grande disagio e risentimento nei confronti del padre, accusato di non aver né voluto né saputo coltivare le straordinarie doti del figlio: «I padri sogliono giudicare dei loro figli più favorevolmente degli altri, ma Ella per lo contrario ne giudica più sfavorevolmente d’ogni altra persona, e quindi non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande: forse anche non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli, e colle norme geometriche. Ma quanto a ciò molti sono d’altra opinione; quanto a noi, siccome il disperare di se stessi non può altro che nuocere, così non mi sono mai creduto fatto per vivere e morire come i miei antenati».
Eppure, mentre per Tasso e Leopardi il rapporto col padre rimane sullo sfondo della loro produzione poetica senza mai palesarsi con eccessivo livore, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, invece, il rapporto col padre si tematizza, complici anche le inquietudini e le angosce dell’epoca che saranno la linfa vitale delle teorie psicanalitiche di Freud. Fra le più celebri ci sono X agosto di Giovanni Pascoli (Myricae 1897), Padre, se anche tu non fossi il mio di Camillo Sbarbaro (Pianissimo 1914), e Mio padre è stato per me l’assassino di Umberto Saba (Autobiografia 1924). Pur con declinazioni, stili e temi peculiari a ciascuno di loro, queste poesie tratteggiano insieme un ritratto originale della paternità, che si distacca dal modello tendenzialmente negativo e oppressivo del mito e della prosa narrativa per accedere a un dialogo più pacato coi figli, ormai maturi ed emancipati (almeno nel caso degli ultimi due poeti).
In effetti, si potrebbe affermare che l’intera opera letteraria di Pascoli sia un tentativo (fallito) di metabolizzare i propri traumi familiari, qualcuno lo ha anche sostenuto. Per quanto sia certamente opinabile ridurre un’espressione artistica alla mera biografia dell’autore, è innegabile che i pochi eventi drammatici della vita di Pascoli, tutti concentrati negli anni della pubertà e dell’adolescenza, costituiscano una fonte di ispirazione costante per il poeta, che vi ritorna a più riprese nelle sue opere in italiano e in latino. In particolare, egli era ossessionato dalla ricomposizione di quel “nido” familiare della sua infanzia infrantosi dopo la morte dei genitori e di alcuni fratelli e sorelle. Non è, quindi, un caso che il tema del dialogo coi defunti e, più in generale, dell’incombenza della morte nel mondo contadino inserita nella forse scontata contrapposizione tra i cicli naturali e la linearità della vita umana, rappresenti una delle strutture portanti di Myricae, che si apre proprio con un poemetto in terzine intitolato Dialogo e dedicato al tentativo di interloquire con i propri parenti mancati.
Tutto questo ritorna in maniera concentrata, in X agosto, poesia scritta in memoria di quella infausta notte di san Lorenzo del 1867 che fu fatale per il padre di Pascoli, ucciso in condizioni ancora poco chiare mentre tornava a casa. L’io lirico cerca di tracciare una sorta di racconto eziologico, riconducendo a quell’evento il fenomeno astronomico delle stelle cadenti, che diventano, nel testo, le lacrime di pietà versate dal cielo per la morte del padre. Seguono due strofe in cui viene raccontata brevemente la storia di una rondine uccisa mentre stava portando un vermicello al suo nido per darlo in pasto ai cuccioli. La metafora paterna viene esplicitata dalle successive due strofe, che montano parallelamente la vicenda di un padre la cui vita viene stroncata mentre si sta dirigendo verso casa con in braccio due bambole per i figli.
Il páthos latente della poesia, che esplode nel finale («E tu cielo, dall’alto dei mondi | sereni, infinito, immortale, | oh! d’un pianto di stelle lo inondi | quest’atomo opaco del male!»), risalta l’immedesimazione da parte di chi legge, rendendo immediatamente chiaro il valore metaforico dei versi sulla rondine. Inoltre, l’attenzione dedicata al “nido” del volatile («e il suo nido è nell’ombra, che attende, | che pigola sempre più piano») e a quello dell’uomo («Ora là, nella casa romita, | lo aspettano, aspettano invano»)5 sottolinea sia lo spaesamento e il senso di abbandono da parte di una famiglia che ha perso uno dei suoi principali punti di riferimento, sia il suo destino di inevitabile corrosione a causa del tempo. La figura paterna, quindi, è una sorta di garante dell’unità familiare, vissuta come un rifugio protetto dalla meschinità del mondo e unico veicolo di serenità.
Seppur indubbiamente meno conosciuta della lirica pascoliana, Padre, se anche tu non fossi il mio (1914) di Camillo Sbarbaro anch’essa è strutturata intorno al ricordo dell’età infantile, dei giochi del poeta con il padre e la sorella, di un’epoca quasi edenica dominata dall’affetto per il genitore: «padre, se anche a me fossi un estraneo | per te stesso egualmente ti amerei», recita il secondo verso. Il poeta non omette i lati più inquietanti della figura paterna («E di quell’altra volta mi ricordo | che la sorella mia piccola ancora | per la casa inseguivi minacciando | (la caparbia avea fatto non so che)»), ma, citandoli, dà risalto alla quotidiana bontà che gli impedisce di diventare per i figli una vera “minaccia”, anche nei suoi accessi di rabbia: «Ma raggiuntala che strillava forte | dalla paura ti mancava il cuore: […] e con carezze dentro le tue braccia | l’avviluppavi come per difenderla | da quel cattivo ch’era il tu di prima».
A ben vedere, un aspetto su cui vale la pena soffermare la nostra attenzione è, appunto, lo smussamento del principio di autorità paterno, che costituirà uno degli elementi principali del sonetto di Saba. In Sbarbaro, infatti, alla giovinezza dei due fratelli si accosta il «cuore fanciullo» del padre, che scardina l’aprioristica gerarchia generazionale, offrendo un esempio raro di leggerezza nell’opera del poeta e, più latamente, nel Novecento italiano. Anche la scelta di descrivere il padre in senso denotativo, ovvero tramite azioni compiute (e non) e rapidi quadretti di vita familiare, contribuisce alla sua caratterizzazione sensibile e un po’ infantile, subito incorniciata nella sua leggiadra meraviglia per i primi segni della primavera: «Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno | che la prima viola sull’opposto | muro scopristi dalla tua finestra | e ce ne desti la novella allegro».
Pur nella sua breve tessitura metrica di ventisei endecasillabi, sebbene questa contribuisca, in realtà, non poco in termini di efficacia emotiva e comunicativa, la poesia si chiude su una nota di languida nostalgia per un passato vissuto già come incredibilmente remoto. La quartina conclusiva conferma la patina malinconica della lirica, riprendendo l’incipit come per incastonare definitivamente quel ricordo nell’arco dei versi precedenti, unico spazio di sopravvivenza per il cuore fanciullo del padre e anche dell’io lirico. Così, a guardare questa figura paterna tanto dolce e amorevole, chi legge resta come i piccoli protagonisti «alla finestra», senza poter scacciare l’angosciosa solitudine peculiare alla poetica di Sbarbaro, che emerge anche da alcune ambiguità sintattiche disseminate nella poesia, come il gioco sintattico-anaforico intorno a padre nei primi versi o l’aggettivo vacillante, che potrebbe riferirsi sia al padre sia alla piccola figlia: «e, tutta spaventata, | tu vacillante l’attiravi al petto»6.
Molto interessante è anche il testo di Saba, di certo il più preparato in materia di psicanalisi fra i tre autori proposti. Nel sonetto selezionato, l’occasione biografica del rapporto con una figura paterna assente e incontrata solo a vent’anni avvia un discorso più ampio, che abbraccia la problematizzazione dei miti familiari e la rappresentazione di un insanabile conflitto culturale. Infatti, Ugo Edoardo Poli, padre di Umberto, aveva abbandonato la moglie Felicita Rachele Cohen dopo solo pochi anni di infelice matrimonio, dovuti anche alle differenze religiose dei due, essendo lui di confessione cattolica mentre lei ebrea, «due razze in antica tenzone».
Questo atto di separazione, che, in qualche modo, si configura come uno spettro sul tradimento subito da Saba da parte della moglie Lina e trasfigurato nella raccolta Trieste e una donna (1913), ha conseguenze drammatiche sulla famiglia del poeta. Mettendo a rischio le risorse finanziarie del nucleo ormai ristretto, il padre è anche responsabile del primo trauma di Saba, ovvero l’allontanamento dalla sua balia prediletta da cui pare abbia tratto il proprio pseudonimo. Per queste e per altre ragioni, Felicita insegnerà al figlio a odiare suo padre, a identificarlo come l’«assassino», colui che ha messo drasticamente fine alla sua vita agiata per un atto di mero egoismo.
Tuttavia, questa narrazione soggettiva, benché giustificata, cede nel momento stesso in cui l’io lirico si confronta direttamente con la figura paterna, nella quale non può che ritrovare più elementi di prossimità che di divergenza a scapito del monito materno: «Non somigliare – ammoniva – a tuo padre». Al mostro dipinto dalla madre subentra il “bambino” cui va incontro il poeta, dallo «sguardo azzurrino» e «un sorriso, in miseria, dolce e astuto»: insomma, semplicemente un uomo «gaio e leggero», inadatto alle responsabilità della vita matrimoniale e al ruolo di genitore. Anche a livello stilistico, la scelta di suoni dolci e aperti, quasi stilnovistici, scanditi dalle rime a prevalenza vocalica in -ino, -uto, –adre, -eso e -one, contribuiscono a ribaltare le attese di chi legge, restituendo un’immagine paterna del tutto anticonformistica. Il rapporto genitoriale viene invertito, tanto che l’io lirico giudica il proprio padre un «bambino», mentre il ruolo di rappresentante dei «pesi della vita»7, ovvero delle costrizioni economiche sociali e culturali, viene assunto dal principio materno.
Complice il ruolo sociale da sempre rivestito dalla figura paterna – basti pensare alla frequente identificazione delle divinità maggiori in “padri” (da Geova a Zeus) -, essa spesso simboleggia, in poesia, la sicurezza della casa, la protezione dai mali e i “pesi” del mondo, l’immagine stessa della felicità infantile. Mentre Pascoli esplicita l’inevitabile fine della spensieratezza a seguito dell’assassinio del padre, Sbarbaro – alle soglie di quella Prima Guerra Mondiale che fece conflagrare le certezze positivistiche e tardo-ottocentesche – si rifugia in un ricordo nostalgico nel tentativo di recuperare una delicatezza che sente in procinto di disfarsi. Più elaborata è, invece, la reinterpretazione di Saba, dove manca il confronto con un periodo “più felice” custodito nel passato, poiché proprio tale passato ha conosciuto la miseria e gli stenti a causa dell’abbandono paterno. Eppure, in Mio padre è stato per me l’assassino, il poeta recupera il capovolgimento della relazione adulto-bambino, già presente in Sbarbaro, per innescare un processo di immedesimazione e riconoscimento, dunque di empatia, sia col “mostro” della propria infanzia, sia con l’Ugo Poli reale, ancora un po’ irresponsabile e assolutamente incapace di incarnare il ruolo paterno tradizionale.
Note
- Cfr. Alessandro Manzoni, I promessi sposi. Storia della colonna infame, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Torino, Einaudi 2015.
- cfr. Alessandro Barbero, Dante, Roma, Laterza 2020.
- cfr. Dante Alighieri, Paradiso, canto XV, vv. 88-94, in ID. Divina Commedia, a cura di Giorgio Inglese, Roma, Carocci 2016.
- Ivi, vv. 139-141.
- Per tutte le citazioni pascoliane, cfr. Giovanni Pascoli, X Agosto, in ID., Myricae, a cura di Gianfranca Lavezzi, Milano, Rizzoli 2015.
- Per tutti i riferimenti a Sbarbaro, cfr. Camillo Sbarbaro, Pianissimo, a cura di Lorenzo Polato, Venezia, Marsilio 2001.
- Per i riferimenti a Saba, cfr. Umberto Saba, Il canzoniere, introduzione di Nunzia Palmieri, Torino, Einaudi 2014.
p. 4 →
← p. 2