Ritratto di un padre d’antan
Genitori non si nasce, non lo si è mai nati: è una questione su cui l’umanità si arrovella dalla notte dei tempi. Che cos’è la genitorialità, se non una forma di insegnamento su come muoversi nell’intricata società umana? La famiglia, d’altronde, è il primo sistema sociale con il quale ci si confronta. Quello che si impara tra le mura di casa costituisce – o almeno dovrebbe – le regole essenziali per affrontare il mondo esterno. Ed è proprio il mondo a influenzare la nostra educazione e, di conseguenza, la genitorialità. Essere genitori in un’epoca in cui le popolazioni sono nomadi e vivono esclusivamente di caccia e pesca non ha granché in comune con l’esserlo diecimila anni dopo, in un pianeta fortemente antropizzato. Perché proprio questo esempio? In effetti, è nello stadio primario dell’evoluzione della nostra specie che si sono verificate le suddivisioni dei compiti tra i due generi biologici, e con essi la divisione delle caratteristiche attribuite alla figura materna e paterna, dando origine una consuetudine che, col passare dei secoli, si è più volte modificata ed è, tuttora, in divenire. L’obiettivo di questo articolo è utilizzare alcuni riferimenti letterari per riflettere sulle caratteristiche positive e negative attribuite al “padre d’antan”, la tradizionale figura paterna che al giorno d’oggi si trova ad essere piuttosto in discussione.
Partiamo dallo stereotipo, ampiamente discutibile, di uomo. Quello che non ha la cellulite, i dolori mestruali o le fitte al seno – e come potrebbe senza il seno? Quello che non ha i fianchi ondeggianti, perché il suo bacino ha una forma diversa rispetto a quello femminile, cosa del resto abbastanza scontata visto che l’uomo non ha né l’utero, né la possibilità di portare avanti una gravidanza, non potendo “restare incinto” – l’unico ad averlo fatto è stato Arnold Schwarzenegger in un film degli anni ’80. Lo riconoscerete, il prototipo esclusivamente biologico del maschio, il signor Cromosoma Y, colui che non dovrà partorire con dolore perché, parafrasando la Bibbia, il suo compito sarà zappare la terra.1
Ironia al vetriolo a parte, è quello che è successo più di diecimila fa, con tutta probabilità anche prima della venuta dell’Homo sapiens. La donna partorisce, allatta, dunque si prende cura della prole, mentre l’uomo procaccia le fonti necessarie al sostentamento della famiglia. Oggettivamente parlando, se non lo facesse lui, a chi toccherebbe? Anche nel regno animale (a cui gli esseri umani appartengono, in quanto primati) avviene la divisione dei compiti, soprattutto nelle specie che prevedono le cure parentali e, se avete guardato qualche documentario di sfuggita in televisione, ricorderete che babbo pinguino cova l’uovo quando mamma pinguina va a pesca. Quando si tratta di mammiferi, il maschio (o più maschi, se si parla di animali che vivono in branco) difende la femmina e i cuccioli. È un’evidente divisione binaria dovuta alla logica istintiva di sopravvivenza. Se c’è qualcosa che, negli ultimi diecimila anni, è sopravvissuto nella storia dell’umanità è questa idea di uomo che, effettivamente, crea la vita, ma non ha gli strumenti meccanici per consentirle di svilupparsi all’interno del proprio corpo e quindi si vede naturalmente deputato alla sua difesa. Chi difende è più forte, chi è più forte comanda e controlla: insomma, il patriarcato in due parole.
Dunque, che cosa rende forte un uomo, un padre? Tutto ciò che gli garantisce il controllo degli eventi, ovvero la razionalità unita alla forza fisica. Non c’è molto spazio per esprimere le proprie emozioni, quelle se le è già prese la mamma nell’arco di nove mesi: del resto, come fai a costruire un legame con una creaturina che strilla e si dimena, se nemmeno la conosci? Il padre d’antan non può che appoggiarsi a un concetto astratto come l’onore – dopotutto, mater semper certa est, pater mica tanto, come insegna Aleksej Karenin! – e, in un certo senso, partire da zero, inventare qualcosa da condividere o, meglio, trasmettere. Un esempio all’interno della letteratura italiana potrebbe essere Padron ‘Ntoni, de I Malavoglia, il patriarca che assiste allo sgretolamento della propria famiglia sventura dopo sventura. Che cosa rimane ai suoi discendenti, una volta perse la Casa del Nespolo, la Provvidenza e la reputazione? L’età e le fatiche di una vita passata a lavorare duramente gli impediscono di reagire in modo efficace, ed è il più giovane dei Malavoglia, Alessi, ad assumere il suo ruolo e migliorare la situazione della famiglia.
Come Padron ‘Ntoni, anche Esteban Trueba, protagonista de La casa degli spiriti di Isabel Allende, conosce bene il peso del sacrificio, del dolore e dei suoi effetti: il giovane Esteban innamorato che parte per lavorare in miniera e, al suo ritorno, assiste impotente al funerale della promessa sposa non sembrerebbe avere quasi nulla del vecchio Trueba, senatore dispotico e, all’apparenza, insensibile. Nel corso del romanzo, il suo personaggio si svela in tutte le sue umane contraddizioni, accentuate dalla necessità di nascondere i propri sentimenti, ma senza mai saperli reprimere davvero. L’ideale mascolino tradizionale si sviluppa tra numerose incongruenze a livello psicologico, che si riflettono sulle azioni e, di conseguenza, sulla figura paterna. Esteban Trueba, infatti, non è solo un personaggio letterario, ma anche un diffusissimo modello comportamentale tanto per i figli, che “dovranno” essere come il padre, quanto per le figlie, che “dovranno” rispettarlo e, perché no, trovarsi qualcuno come lui, ossia un uomo solido e presente. La storia e la letteratura ci insegnano che di uomini (e padri) assenti non ce ne sono mai abbastanza. Dunque, forse è meglio rimanere all’interno del ciclo patriarcale di protezione e controllo, anche quando queste due funzioni vengono esercitate attraverso la violenza. D’altronde, non è questa una dimostrazione di forza?
Più che di un ciclo, sarebbe il caso di parlare di tristi circoli viziosi, benché la letteratura non sia priva di esempi virtuosi, talvolta atipici per l’epoca. Un padre che farebbe invidia anche oggi è sicuramente il signor Bennet di Orgoglio e pregiudizio, mite capofamiglia inglese di inizio Ottocento, accerchiato da una moglie assillante e da ben cinque figlie, nessuna delle quali potrà ereditare la casa in cui vivono a causa delle leggi allora vigenti. Jane Austen ritrae un uomo apparentemente fiacco, quasi disinteressato, che al contrario ama moltissimo le figlie, tanto da non opporsi nemmeno una volta alle loro scelte sentimentali. Quanti, al suo posto, avrebbero voluto per la propria figlia un matrimonio riparatore senza alcuna prospettiva economica che potesse risollevare le sorti della famiglia? E quanti, ancora, avrebbero accettato di buon grado che la loro figlia preferita scegliesse autonomamente marito? Certo, direte, il tenebroso Darcy ha una lunga lista di pregi che lo rendono un buon partito, il migliore dei quali è essere ricco, ma se conoscete le vicende di Elizabeth Bennet saprete anche che non è questo a determinare l’esito del romanzo.
Altra figura paterna sui generis è Robert March, il padre delle quattro Piccole donne di Louisa May Alcott, cappellano militare durante la Guerra di Secessione e, in seguito, pastore della comunità. Il signor March è un uomo piuttosto diverso dagli altri, molto riflessivo e pacifico, e per nulla indispettito dall’aver avuto quattro figlie, che in lui vedono non soltanto un ideale maschile, ma anche un esempio di coerenza con la propria etica. Alcott tratteggia un personaggio che rasenta la perfezione prendendo spunto dal padre, Amos Bronson Alcott, vegetariano, abolizionista convinto e sostenitore dei diritti delle donne. Amos, tuttavia, non sempre riesce a dimostrare di essere all’altezza dei principi che sostiene, né del suo ruolo di guida: la professione di educatore e filosofo sarà, infatti, la principale causa di instabilità economica per la famiglia Alcott.
Potremmo parlare per ore di padri come il colonnello senza nome, protagonista del romanzo breve di Gabriel García Márquez, Nessuno scrive al colonnello, che sceglie addirittura di digiunare pur di nutrire il gallo da combattimento del figlio morto in guerra; o di Papà Goriot, opera in cui Honoré de Balzac racconta il declino di un padre che ama tanto le figlie da essere sopraffatto dalla loro avidità. Così come potremmo stupirci di fronte alla durezza del Padre padrone di Gavino Ledda, scrittore e intellettuale, e della rigida gerarchia familiare inasprita dal contesto, le campagne sarde degli anni ’40 e ’50 in cui l’analfabetismo, anziché essere contrastato, viene perpetuato attraverso il lavoro minorile. D’altra parte, nella sua autobiografia, Ledda ricorda che il padre lo ritirò dalla scuola per iniziarlo alla professione di pastore a soli sei anni. In linea di massima, quello che emerge da queste e molte altre figure è la complessità del ruolo paterno, in costante oscillazione tra la repressione dei sentimenti e il bisogno di stabilire un legame vero, forte quanto un cordone ombelicale. La limitazione dell’emotività maschile e, più in generale, la divisione netta e sbilanciata tra i sessi si ripercuote sul concetto di paternità. Sarebbe finalmente ora di ripensare alla genitorialità in modo meno “biologico”, impari in sostanza, e più attento alla sensibilità di ciascuno, indipendentemente dai suoi genitali.
di Joanna Dema
Note
1. […] maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. (Dal Libro della Genesi 3,7, La Sacra Bibbia)
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