“Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù”
Pier Paolo Pasolini, Supplica a Mia Madre
Qualche settimana fa ho visto Giovani amanti nella goffaggine della loro mancanza di conoscenza e nella gioia della loro continua scoperta reciproca1. Dico questo perché essere esposti al corto sperimentale del ‘59 di Stan Brakhage, Window Water Baby Moving, è come entrare nell’intimità di un romanticismo di cui forse non ci è del tutto concessa la visione. Vedere queste immagini tinte di un rosso passionale e molli, come immerse in una fonte battesimale, ci rimanda a un universo di amore primordiale, carnale dove l’Io si fonde con l’Altro e diventa l’io-Noi.
La visione della pellicola d’altro canto non è immediatamente accessibile: terminata la proiezione io e alcuni amici ci fermammo a discuterne e sui loro visi colsi le più svariate emozioni. Alcuni erano turbati, altri scossi, alcuni avevano addirittura trovato sequenze di una eroticità poco definibile a parole ma decisamente colta durante la visione. La pellicola ha catturato tanto il mio interesse da spingere a domandarmi: cosa Io ho provato? L’autoanalisi non è mai semplice ed esprimere a parole la complessità e l’indefinitezza dei moti interiori è, forse, ancora più complesso, ma cercherò di rendere un resoconto dettagliato per chi legge.
Innanzitutto l’eros, inteso nel senso più carnale possibile: le scene di vicinanza, complicità e procreazione mostrate in modo tanto esplicito hanno scatenato una perturbazione dell’animo denotata, a mio avviso, dalla mancanza di ciò che mi era visibile in quel momento. In secondo luogo ho notato la bestialità della sequenza, la sua essenza terrena, corporale. La lacerazione delle carni, il sangue, il neonato che a forza si faceva largo tra le membra materne ammetto abbiano avuto un effetto di repulsione. Credo per molti questo sia stato il fattore responsabile di una visione così disturbata, sono, però, anche convinto che – facendosi largo tra le immagini scosse di cordoni ombelicali, placente e guanti insanguinati – possa affiorare una Venere pronta a donarci la perla di colui che sa immergersi nelle acque più profonde senza temere l’oscurità.
Mi ritrovo dunque di fronte a una duplicità, una polarità interpretativa. Ma se sono sicuro che questa esista mi rendo conto di dover precisare con maggior chiarezza dove essa risieda. Un polo di questa tensione emozionale sono convinto si possa identificare con l’Amore. Concetto tutt’altro che banale, questo assume svariate forme a seconda delle parti in gioco e dai moti che lo alimentano. Per quanto riguarda il polo opposto della dicotomia, risulta assai più complesso tracciarne i bordi e ogni qual volta si pensa di aver raggiunto un risultato convincente questo si nebulizza, opacizzandosi nella sua molteplicità. Sono giunto, dunque, alla convinzione che il polo opposto non sia unico e coeso, ma composito. Esso deriva direttamente dal polo amoroso che, sgretolandosi, mette in luce due elementi costitutivi. Il primo che viene in mente è la Pulsione di Morte genitoriale: processo psichico concettualizzato da Freud emerge in modo evidente nella carnalità e brutalità del parto dove la madre rischia l’annullamento individuale a favore della sopravvivenza della specie. Per concepire il secondo elemento occorre, invece, assumere il punto di vista del neonato, che ognuno di noi è stato un tempo: nascere allora assume la forma di trauma; per Lacan e altri studiosi afferenti alla corrente di pensiero lacaniana è Il trauma.
Una luce entra dalla finestra e scolpisce due innamorati. Lei, col ventre gonfio, è immersa in un bagno di desiderio e aspettative; lui le accarezza la pancia, la sostiene e fissa la loro felicità su di una pellicola. Questa prima sequenza è dominata da un rosso che non rimanda né al sangue né alla morte: è un rosso passione, il rosso dell’Amore. Si osserva innanzitutto l’amore genitoriale. Incondizionato, senza remore o richieste, è la forma d’amore che con più forza penetra lo schermo e inonda lo spettatore. È un sentimento “semplice” in quanto rivolto verso un individuo che ancora non-è: esso, ancora nel ventre materno, non può che essere solo come oggetto amato. Ma questa non è l’unica forma di amore che si scorge vedendo la pellicola di Brakhage. Esso si fa strada anche nella coppia di futuri genitori. È un sentimento più complesso che coinvolge l’universo passionale ed è mosso da due tipi di pulsioni: la Pulsione di Vita e quella di Morte. La Pulsione di Vita, secondo la teoria freudiana, riguarda una serie di moti che spingono l’individuo all’autoconservazione. E, dunque, il sentimento amoroso – ricerca nell’Altro di un bisogno narcisistico, di soddisfazione della propria tensione pulsionale – viene inteso in questo senso: come bisogno appunto, una tensione propria dell’Io alla ricerca dell’appagamento; in ultima analisi, un moto esistenziale.
“L’analisi dimostra che l’amore nella sua essenza è narcisistico, e denuncia che la sostanza del preteso oggettuale […] è di fatto quel che, nel desiderio, è resto, cioè sua causa, e lo sostiene con la sua insoddisfazione, anzi con la sua impossibilità.”2
L’Io necessita la continua ricerca dell’Altro proprio per l’insoddisfazione che la nutre. L’amore, dunque, diventa campo di ricerca di un bisogno individuale ed esistenziale. Ma, come si è detto, è anche condotto da un’altra pulsione: quella di morte. Per Freud la pulsione sessuale, che individua una trasmissione del plasma germinale al di là dell’individuo, “rivela un’affinità con la morte”3. La pro-creazione si costituisce, dunque, come atto volto alla conservazione della specie anche a costo del sacrificio dell’individuo; è un amore prospettivo che non considera l’Io ma si rivolge al post-Io.
È dunque l’amore della coppia che apre alla crisi emozionale provata dallo spettatore e che si concentra nella seconda parte del corto: la nascita. Qui la pulsione di morte diventa assai evidente: il corpo della madre si piega ai dolori fisici del parto. Essa spinge, si lacera, urla per dare finalmente alla luce una nuova creatura: piange.
“Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.”4
I versi di Leopardi avvisavano il mondo, già nella prima metà dell’Ottocento, del trauma del nascere. Il bambino appena nato piange e il pianto è sintomo della condizione di vita.
Propongo due teorie differenti che possano spiegare il trauma originario sulla base dei contributi di Lacan/lacaniani. In primo luogo, si tenga conto che il neo-nato è neo in quanto si è trovato a essere, fino a quel momento, un pre-nato. La condizione della pre-nascita è caratterizzata da una “integrità pretraumatica”5 in simbiosi con il corpo e le aspettative genitoriali. Al momento della nascita, tuttavia, l’Io genitore-figlio si divide irreversibilmente creando un Io bambino e un Altro genitore. In questo momento l’Uno diventa un non-Uno e l’Amore “semplice” e incondizionato di cui si parlava sopra diventa campo della ripetizione data dall’impossibilità di raggiungere la piena soddisfazione pulsionale. “L’amore è impotente, benché sia reciproco, perchè ignora di non essere altro che il desiderio di essere Uno”6. Allora il bambino cercherà l’amore genitoriale nella stessa forma in cui lo aveva esperito fino a quel momento ma rimarrà deluso da un’alterità non più assimilabile del tutto. Una differente ipotesi deriva da una prospettiva alternativa sulla condizione pre-vita. In questa fase l’Io è individuo nel senso più letterale del termine: esso coglie esso stesso e unicamente la propria dimensione. Egli non ha rapporti con l’Altro. “Il rapporto che l’Uno ha con sé non è mediato”7. In questa fase egli non deve pensarsi in rapporto con l’Altro ma egli esiste all’infuori di una qualsiasi postura riflessiva. Al momento della nascita, tuttavia, il neonato si relaziona per la prima volta con un’alterità che non gli è propria: egli tenta un’espressione della propria identità, del proprio Io ma gli è impossibilitato. Quel pianto diventa allora tentativo di espressione di una identità indipendente dall’Altro e diventa anche metafora per un linguaggio che non riuscirà mai, per Lacan, a esprimere quel Reale proprio dell’individuo.
Diviso, opaco, Window Water Baby Moving appare di una complessità psicanalitica che rispecchia quella difficoltà di avvicinarsi al reale espressa negli scritti del filmaker statunitense. La visione si fa granulosa, sgranata, appannata quasi come se si ritrovasse di fronte a un mondo indecifrabile se non attraverso una riproposizione continua. Allora l’occhio dello spettatore viene a scontrarsi ripetutamente con un’immagine che evoca un qualcos’altro, una verità che affiora solo scavando e dilaniando il tessuto spesso, indurito dall’abitudine, calloso dell’esperibile. Un processo difficoltoso, nelle profondità delle carni per far sgorgare il sangue, rosso vivido, della percezione e delle sensazioni: comunione tra corpo e spirito. Propongo, allora, una rinnovata visione del corto nella speranza che queste immagini possano squarciare il quadro percettivo e far affiorare una Reale sfuggente.
“Rose is a rose is a rose is a rose.”8
Note
- Stan Brakhage, In Difesa del cine-”amatore”, 1971, cit., p. 69.
- Jacques Lacan, Il seminario, Libro XX, 1972-1973, cit., p. 7.
- Sigmund Freud, Metapsicologia, Pulsioni e i loro destini, 1915.
- Giacomo Leopardi, I canti, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 1831.
- Patrizia Gilli, Il trauma necessario, seminario tenuto in data 13/01/2018
- 8Jacques Lacan, ibidem., p. 7
- Alex Pagliardini, Jacques Lacan e il trauma del linguaggio, 2011.
- Gertrude Stein, Geography and Plays, Sacred Emily, 1922.
di Matteo Paguri
Matteo Paguri, 10 settembre 1998. Vergine ma, ve ne prego, non chiedetemi l’ascendente perché non me lo ricordo: già troppe volte l’ho “calcolato”, “cercato” e già troppe volte me lo sono scordato. Profondo amante dell’astrologia come si può dedurre. In realtà non amo troppo descrivermi quindi che dire? Studio l’arte del cinema all’università di Padova in particolare frequento il corso di Scienze dello Spettacolo e Produzione Multimediale. Laureato al Dams di Bologna, il motto della mia vita è “sarà quel che sarà”.
P.S. I soggetti dei miei pezzi sono tutto ciò che mi ha colpito, attratto, rapito durante il corso di questa bellissima esperienza con Eclisse. Piccole tessere che compongono il mosaico della mia attrazione verso l’arte-cinema.