Per chi suona la campanella?
A giugno siamo giunti un poco stanchi, tra caldo afoso e tigli, ricordando anche i tempi spesi, al tempo, tra nozioni e banchi.
Ho sempre visto il mese di giugno un po’ come settembre, ovvero come un mese di transito. Sono entrambi mesi animati da due sentimenti apparentemente contrastanti, l’entusiasmo e la malinconia: a settembre, a prevalere è la malinconia della fine dell’estate seguito anche dall’entusiasmo delle novità di un nuovo anno (se vi ricordate, è stata l’atmosfera che ha accompagnato il primo Almanacco di quest’anno), mentre a giugno si verifica l’opposto. A giugno è l’entusiasmo a farla da padrone -seppur comunque accompagnato dalla malinconia, come vi dirò più avanti – per l’inizio dell’estate. Rimbaud, in Romanza, di questo mese “di passaggio” rievoca il dolciastro odore dei tigli che si diffonde proprio nelle prime ore della sera1; per Emily Dickinson, invece, Giugno è
Rose di giornata da Zanzibar - E calici di Gigli - come pozzi - Api - a spanne - Canali d'Azzurro Che flotte di Farfalle - traversarono - E screziate Vallette di Primule –2
ed è ciò che lei darebbe per poter vedere, ancora una volta, il volto del suo amato.
Al contrario, per Ada Negri, poetessa dei primi del Novecento caduta un po’ nel dimenticatoio delle scrittrici e poetesse dimenticate, questo mese, per la precisione i cieli di giugno, sono
azzurra giovinezza dell'anno; ed allegrezza di rondini sfreccianti in folli giri nell'aria.3
Quando penso ai tigli odorosi di giugno, la mia mente torna sempre all’8 giugno 2018, il mio ultimo giorno di scuola del mio ultimo anno di liceo. Il mio caro vecchio liceo classico, infatti, affacciava su una delle più belle chiese di Roma, Santa Maria Maggiore, e nella piazza antistante alla facciata della chiesa crescevano e ancora crescono dei tigli, il cui odore, soprattutto in giugno, arrivava forte fin dentro le aule della mia scuola, soprattutto della mia classe, che si trovava al terzo piano dell’istituto, dove giungeva sempre una strana commistione di odori di alberi, smog e spezie di un ristorante indiano. Se è vero che la memoria degli odori ha un potere enorme, ovunque mi capiti di sentire l’odore dei tigli, con la mente ritorno a quel giorno e alle sue sensazioni, in particolare di malinconia. L’ultimo giorno di scuola è accompagnato perlopiù dall’entusiasmo di chi, l’anno successivo, tornerà a settembre sui banchi di scuola e vede nella fine l’inizio dell’estate, delle vacanze e del “dolce far niente” (e anche da quel pizzico di rammarico di chi ha scoperto che passerà l’estate a studiare per recuperare il famoso “debito” di settembre), ma c’è anche la malinconia, soprattutto per chi si trova alla fine di un ciclo scolastico, vissuta con crescente consapevolezza: quinta elementare e terza media, ma più di tutti quinto superiore. Proprio l’ultima ora dell’ormai lontano 8 giugno 2018, prima di recarmi in cortile per i festeggiamenti dell’ultimo giorno, approfittando della confusione generale, ho attraversato in solitudine per l’ultima volta i corridoi della mia scuola: ho guardato l’interno delle aule ormai vuote, ho fatto su e giù per la tromba delle imponenti scale, ho dato una sbirciata furtiva e fugace all’interno della sala professori, cercando di immaginare cosa passasse loro per la testa e se, dalle loro espressioni, si potesse comprendere i giudizi finali. Ho respirato lentamente ogni angolo, ripercorrendo i momenti salienti di quegli anni di liceo, dalle delusioni per un compito in classe andato male, alle chiacchiere in terrazzo, durante la ricreazione, con quella che avresti pensato come l’amica di una vita, o, nel mio caso, alle interrogazioni di filosofia che il mio amato professore ci faceva sostenere, spesso, proprio in terrazzo, per stimolarci il pensiero e i pensieri. Come dice, infatti, Luca Molinari su Notte prima degli esami:
Quando l’ultimo giorno di scuola dell’ultimo anno di liceo suona la campanella dell’ultima ora di lezione, hai come la sensazione che quello sia l’ultimo secondo della tua adolescenza.4
In effetti, la scuola è il primo e ultimo momento di spensieratezza adolescenziale, dove quei problemi che al tempo sembravano tanto grandi e insuperabili, con l’occhio di chi ormai è fuori, risultano improvvisamente meno grandi e insuperabili. Quella specifica parola, fine, porta con sé sul momento la liberazione da quello che, alle volte, abbiamo vissuto come un peso, una costrizione, ma è proprio e solo con la fine, a distanza di tempo, che cambiamo prospettiva, soprattutto su quello che la scuola ci ha lasciato. Alessandro d’Avenia, scrittore che ha messo su carta la propria esperienza di professore, intesa sia come racconto di fantasia come della realtà, descrive la fine della scuola proprio come dicevo in precedenza, divertendosi a rielaborare una nota poesia di John Donne, Nessun uomo è un’isola, in Nessuno studente è un’isola, concludendola con questo verso:
E dunque non chiedere mai per chi suona la campanella: suona per te.5
Perché per d’Avenia conta l’esperienza nella scuola come percorso formativo, ma conta anche e soprattutto il dopo quella fine e il peso di quella domanda che accompagna qualunque studente per tutto il corso dell’ultimo anno, ancor di più durante la maturità: e dopo cosa c’è? Cosa farò dopo? Che cosa farò “da grande”?. Domande difficili, su cui lo scrittore riflette in molta della sua produzione e in particolare sull’ultimo libro uscito da un paio d’anni, L’appello, una storia che unisce a filo doppio le sorti di un professore cieco, Omero, e quello di una classe di dieci studenti considerati, dal sistema scolastico, difficili, dei veri e propri “reietti” di quel microcosmo chiamato scuola. Studenti che, in realtà, di difficile non hanno il carattere, bensì il peso di una storia di vita personale. Allora, il professor Omero si mette in gioco e sfida le convenzioni sociali, i pregiudizi, la fatica, andando oltre come solo l’assenza della vista ti costringe a fare, e riuscendo a portarli tutti alla maturità dove è proprio lì che riflette, quando li sente rispondere alle domande poste dalla commissione d’esame:
Solo quando troviamo la ragione per essere possiamo cominciare a fare qualcosa di buono. Andiamo scoprendo la nostra origine lungo il cammino, crediamo di dover crescere, e invece dobbiamo nascere, per trasformare in nascita persino l’uscita da questo mondo: quando il frutto è maturo, può e deve essere colto.6
Perché la maturità, di cui abbiamo avuto tanto timore, non è altro che questo: non è un semplice coronomento di cinque anni di scuola superiore, ma è il momento della vita nel quale veniamo messi, per la prima volta, alla prova, con noi stessi e con la nostra stessa vita. Siamo chiamati a cercare pian piano la strada per salire una nuova scala: l’età adulta. È proprio in quella ricerca dell’Io adulto che ripensiamo al percorso appena concluso chiedendoci cosa la scuola ci abbia lasciato, soprattutto a distanza di anni dalla fine. C’è chi, ripensando al liceo, ne parla con parole di gioia, ricordandolo come il miglior periodo della propria vita, e chi il liceo, invece, lo ha vissuto come l’inferno dantesco. Che si siano proseguiti gli studi o che la vita dopo la scuola abbia portato per altri luoghi, la scuola lascia un metodo critico e di analisi del reale che nessun altro posto ti darà, donandoti qualcosa che va oltre il mero nozionismo, ovvero la cultura. Come diceva Skinner – e lo diceva sempre anche il mio professore di filosofia, lo stesso delle interrogazioni, docente che mi piace definire più come un “maestro” di vita, che un semplice professore -, «Cultura è ciò che resta nella memoria quando si è dimenticato tutto». A questo, allo sgomento e l’incertezza del dopo, all’avere le idee non chiare sul dopo, dedica alcune pagine molto intense e al contempo crude, Andrea de Carlo in Due di Due, romanzo di formazione che segue un’atipica amicizia, a volte scostante, a volte conflittuale, di due ragazzi, nata proprio sui banchi di scuola in una classe che si ritrova a fronteggiare i moti studenteschi del Sessantotto. Mario e Guido Laremi -così si chiamano, del primo il cognome non viene mai citato – non possono essere quanto di più diverso possa esistere: l’uno più introverso, borghese e di buona famiglia, sempre ligio alle regole; l’altro più estroverso, più hippie e anarchico, eppure, nonostante diverse visioni del reale, della politica e delle relazioni, la loro amicizia, in qualche modo, funziona, pur facendo prendere loro strade diverse alla fine del percorso scolastico. Anzi, addirittura Guido non concluderà le scuole superiori:
A volte mi chiedevo dov’era andato a finire Guido, cosa faceva […] Pensavo che non mi mancava in modo particolare; che aveva fatto parte di un periodo della mia vita ormai finito. Ho cominciato a pensarci sempre meno, alla fine non mi veniva più in mente. Avevo solo voglia che il liceo finisse, anche se non sapevo cosa avrei fatto dopo. Mi sembrava di avere avuto idee più pratiche sulla mia vita quando avevo dodici o tredici anni, prima di perdermi nella vaga foschia umanistica del liceo […] Sottraevo i giorni alle settimane, le settimane ai mesi; ricalcolavo di continuo lo spazio che mancava alla fine dell’anno scolastico.7
In realtà, a Mario, di Guido Laremi, interesserà sempre: tutto il suo percorso di vita sarà incentrato sulla costante ricerca di riempire una sorta di vuoto dovuto all’assenza di Guido stesso, la cui morte segnerà, in un certo senso, la morte cerebrale anche di Mario, che in Guido aveva trovato non solo un amico, ma una vera e propria ancora che lo portava fuori dall’apatia e dall’abitudine, nonostante la distanza. È un romanzo che si pone come specchio di una generazione che credeva nei grandi valori, soprattutto umani.
[…] i dibattiti mai concessi allora
e le fughe vigliacche
davanti al cancello
e le botte nel cortile
e nel corridoio,
primi vagiti di un '68
ancora lungo da venire
e troppo breve, da dimenticare!
E il tuo impegno che cresceva
sempre più forte in te...
Due di Due è un libro che ha accompagnato la mia adolescenza e che tutt’oggi mi accompagna a distanza di anni. Il rapporto tra Guido e Mario mi ricorda Compagno di scuola (1973) di Venditti, cantante che ha dedicato molte delle sue canzoni più celebri, da Notte prima degli esami a Giulio Cesare, al mondo della scuola. In Compagno di scuola, Venditti parla a tu per tu col suo storico compagno di banco, ripescando, come da un album di vecchie foto, ricordi più o meno importanti della scuola:
"Compagno di scuola, compagno di niente
ti sei salvato dal fumo delle barricate?
Compagno di scuola,
compagno per niente
ti sei salvato
o sei entrato in banca pure tu?
Dopo i ricordi, come spesso succede, subentrano le domande, come quelle che poniamo al compagno di classe incontrato per caso, dopo anni, per strada al centro, perché un’altra cosa che la scuola ti insegna è farti sempre domande, che, però, non sempre hanno risposte:
“Ti sei salvato” gli chiede, sperando che almeno l’idealismo, a lui, lo avesse portato a qualche risultato.
Alla fine di questo mio lungo filosofeggiamento, anche io, a distanza di anni, mi chiedo cosa mi abbia lasciato quella scuola, quella classe che odorava di tigli e quel professore di filosofia appassionato che mi interrogava sul terrazzo… e mi piace rispondermi con le parole di un altro maestro, cioè Vecchioni, al quale, in una intervista, fu chiesto che cosa, secondo lui, lascia la scuola e perché si va a scuola. Lui rispose così rispettivamente:
Alla prima: «Questo deve dare la scuola: il senso, il significato. Non solo Umanismo, ovvero essere usati o semplicemente aiutati dalla scienza, ma anche Umanesimo, cioè capire il senso, avere il fine».
Alla seconda: «Per diventare una persona».8
… parlo tanto, non mi dire,
tra versi e canzoni,
tra emozioni e riflessioni;
al prossimo mese, tutto da sentire.
1. «Come profuma il tiglio nelle sere di giugno!/A volte l’aria è dolce da farti chiudere gli occhi;/il vento trascina i rumori della città vicina/e profuma di vigna e di birra…», in Romanza, da Rimbaud, A., Tutte le poesie, Newton Copton Editori, 2007.
2. I versi sono tratti da What would I give to see his face?; per lei rimando alla raccolta completa dei versi di Emily Dickison che si trova sul sito ufficiale: https://www.emilydickinson.it/j0201-0250.html
3 In Ombre d’Ali, da Negri, A., Il dono, Mondadori, Milano, 1936.
4 p. 9, da Notte prima degli esami, Mondadori, Milano, 2006.
5 Dal blog di Alessandro d’Avenia, Prof 2.0: https://www.profduepuntozero.it/2009/06/11/per-chi-suona-la-campanella/
6 p. 258, D’Avenia, A., L’appello, Mondadori, Milano, 2020.
7 pp. 109-10, De Carlo, A., Due di Due, Mondadori, Milano, 1989
8 Le risposte sono tratte dall’intervista a Vecchioni di Gregoretti, Marco, Onore al rigore e al merito, da CLASS, ottobre 2007