Con l’avvicinarsi del periodo della maturità, quest’inverno, avevo scritto un breve articolo nel quale esponevo brevemente le mie opinioni su come riformare questo venerando istituto della nostra Pubblica Istruzione. Dopo averlo scritto e fatto correggere, finii per pensare che il mio punto di vista fosse abbastanza banale, e decisi di non pubblicarlo. Le proposte che presentai, comunque, non mi erano sembrate completamente fuori luogo: una maturità uniforme per tutte le scuole, più compatta, più difficile ma anche più giusta, che elimini la necessità di ulteriori test di ammissione alle università, concedendo a tutti un solo test su cui concentrare ansie e dolori – un solo test per domarli tutti.
Il periodo della maturità, però, si è avvicinato sempre più, e oggi i miei amici della coorte 2003 stanno attraversando il piccolo calvario che porta all’esame finale. Mi raccontano quello che avrei raccontato io, probabilmente, se il Covid non mi avesse privato degli aspetti positivi dell’ultimo anno di scuola: dover scegliere tra vedersi fra compagni o studiare, studiare come dei pazzi un giorno e non riuscire a sfogliare una pagina quello dopo, dubbi amletici sulla propria preparazione, timori insensati (facile dirlo, attraversato il guado!) sulla difficoltà delle prove, sul tal professore, sulla tal materia. Ogni storia e ogni piccolo dettaglio che mi raccontano sminuiscono un po’ le opinioni che avevo messo su carta solo qualche mese fa.
Un po’ è la sindrome dell’impostore: io non l’ho vissuta sul serio, gli scritti me li sono scampati – sento un brivido nervoso percorrermi la faccia quando incontro qualcuno che ha fatto la maturità l’anno prima del mio, un istinto primordiale che mi obbliga a star zitto, come se stessi per dire capisco cosa provi ad un malato terminale. Un po’ è la voglia di “osservar tacendo e tacendo morir”, come un fotografo che lascia che i suoi soggetti si muovano spontaneamente, un naturale agire da sociologo che mi porta a non voler influenzare l’oggetto del mio studio. Un po’ è anche il desiderio di capire se avessi ragione o no, se la maturità faccia veramente paura o no, se sia solo una facciata o se ci sia dietro qualcosa di serio.
Per carità, le statistiche non mentono: il 100% degli ammessi viene promosso. Però resta il dubbio feroce, nelle menti di chi ha combattuto per il sei di media. E poi, come è naturale, se tutti passano, l’obiettivo diventa avere un buon voto. Di nuovo, l’esperienza mi dice che del voto di maturità non importa niente a nessuno; eppure, sembra difficile togliersi dalla testa la paura che, prima o poi, qualcuno punti l’indice su quel difetto. Sarà vero che “gli studenti riconoscono correttamente che è inutile stressarsi per la maturità quando, subito prima o subito dopo, saranno sottoposti ad una prova (come il test di Medicina, NdA) […] che avrà un impatto reale sul loro futuro”, come scrissi qualche mese fa? Mi sembra che gli studenti si stressino eccome per la maturità. Le riconoscono un qualche valore, per lo meno simbolico.
Trovo affascinanti le teorie funzionalistiche, che sostengono che i gesti umani e le nostre azioni sociali abbiano sempre una funzione. Il rito di passaggio in cui il giovane dà la caccia ad un animale pericoloso nella foresta non è soltanto una tradizione religiosa: dimostra come l’individuo sia capace di prendere parte alla vita della comunità in modo utile, procacciando le risorse necessarie per il suo funzionamento. Con il passare del tempo, il rito però cambierà, perdendo quegli aspetti pratici che lo caratterizzavano prima; in un certo senso, diventerà auto-giustificato, perderà la giustificazione razionale che aveva e ne acquisterà una tradizionale.
La maturità sta, forse, andando incontro a questo processo: spogliata del suo significato pratico – perché a nessuno importa più di quel voto che, a ragion veduta, e specialmente da due anni a questa parte, non misura più nulla – sta mantenendo il suo solo ruolo simbolico di momento di passaggio per i giovani, di limen fra un’età della vita e un’altra. La maturità non ha bisogno, come scrissi – sbagliando – un anno fa, di avere un reale senso come prova educativa, di avere un valore in quanto a sostanza, un voto che abbia un senso di essere, che qualcuno possa usare come parametro. La maturità è pienamente auto-giustificata: esiste perché deve esistere; esiste perché è sempre esistita. Il suo valore rituale, le sue tradizioni millenarie, i suoi significati simbolici hanno largamente eclissato i significati reali, e ora la fanno da padrone.
In un certo senso, oggi ha senso guardare alla maturità come una sorta di cerimonia ricca di rimandi e significati nascosti.
Il tradizionale festeggiamento dei cento giorni inaugura un periodo sacro in cui ogni momento della vita cosciente, specialmente dentro la scuola, è vissuto in funzione di quel centesimo giorno. È il Carnevale, il Mercoledì delle Ceneri. Con l’avvicinarsi del momento fatidico, si moltiplicano i preparativi. Il canto tradizionale, le cui origini si perdono nella notte della civiltà, riecheggia sempre più frequentemente nelle stanze del rito: Notte prima degli esami, notte di polizia… L’intera società sembra momentaneamente non interessarsi ad altro che a questo. Le premure si susseguono: “Quest’anno hai la maturità, dunque?” diventa una domanda quasi quotidiana, seguita da lunghe prediche sul complesso funzionamento della cerimonia, i cui dettagli sono rimasti segreti fin quando un sommo sacerdote non li ha svelati pubblicamente. L’attesa della materia o della data o della lettera estratta sono come l’attesa per conoscere il nome del Papa o il responso divino della Pizia.
Nel frattempo, le classi piene di giovani adepti si rinsaldano, formando una sorta di spirito di corpo che ricorda un po’ i racconti di quei soldati che forgiano, al fronte, amicizie fortissime, che però si smontano immediatamente quando la condizione sociale che le permetteva – la guerra – finisce.
Gli ultimi giorni prima del rito sono spesso accompagnati da piccoli festeggiamenti, lacrime, gesti apotropaici. È il cameratismo di una comunità che si stringe intorno ai suoi figli, rivivendo ogni anno, con loro, il momento del proprio passaggio. I genitori raccontano storie divertenti su come hanno vissuto la loro maturità, con i loro incubi sempre presenti – “ancora sogno il professor Cantalamessa che mi squadra”, dice in coro ogni madre d’Italia. I professori indossano lentamente gli abiti di ieratici giudici silenziosi, rinviando a un momento successivo quei momenti di tranquillità ed empatia che segnavano, fino ad allora, la fine dell’anno scolastico.
Le prove si susseguono in un ordine fissato e rigidamente scandito da formule a volte ridicole. Si arriva in forte anticipo. Si attende con ansia l’arrivo, sul computer della scuola, del testo da commentare, del compito da svolgere (o almeno, così era ante Covid. Prima ancora, si attendeva l’arrivo della Pubblica Sicurezza, mandata dal Prefetto a consegnare la prova da fotocopiare). Ci si riunisce negli anfratti per commentare e condividere difficoltà, ansie, paure. I telegiornali trasmettono ogni anno la stessa nenia: “Anche quest’anno, la seconda prova di maturità. Per i licei classici, Seneca; per gli scientifici, un problema sull’elettromagnetismo. Sentiamo dal nostro inviato le testimonianze degli studenti…”
Il susseguirsi delle prove è un climax ascendente. Si comincia con l’italiano, con il tema, relativamente accessibile, simile per tutti. La seconda prova assilla gli studenti ben più della prima, perché spesso il professore che li ha preparati è quello con cui hanno passato più ore, su quella materia giudicata più severamente proprio perché di indirizzo. E si arriva infine all’orale, la fase individuale: lasciato solo, il candidato/iniziato entra nel sancta sanctorum, dove lo attendono tutti gli officianti del rito, disposti (solitamente) a ferro di cavallo. Lo scorrere dei minuti è lento e veloce al tempo stesso. A questo punto della sua iniziazione, lo studente conosce il rito minuto per minuto, sa cosa lo aspetta, l’ordine in cui gli verranno sottoposte le sue sfide. Finisce dopo trenta minuti di stillicidio. Il sorriso torna sulle bocche di tutti. Il sole splende più brillante del solito, il sudore arriva tutto insieme, esce dalla segreta stanza, fuori lo aspettano gli altri. Sul muro della scuola, il nome dell’istituto non è più il cartello dell’Inferno dantesco: svuotato del suo incubo, non resta che il titolo di un edificio sonnacchioso, sornione, come un demone domato. Lo ha sconfitto. Gli dèi lo hanno premiato.
di Adriano Zonta
Per L’Eclisse faccio il correttore di bozze, seguendo un solo criterio: nessun articolo deve mai tornare come è arrivato. Riservo le battute più divertenti e le precisazioni più puntigliose per gli autori più simpatici, che si sottopongono di buon grado al supplizio del mio giudizio. Oltre all’inserimento di virgole non necessarie, mi piace anche la letteratura, la storia, l’arte, la musica, l’economia e la buona tavola. Soffro di Assenteismo e Sindrome del Ritardatario, morbi estremamente invalidanti. Nel tempo libero studio Scienze Politiche all’Università di Pavia.