“Plastic Love” è il titolo di un singolo della cantante giapponese Mariya Takeuchi che, nel 2018, scala le classifiche e viene visualizzato su YouTube milioni di volte, grazie anche al contributo fondamentale dell’algoritmo della piattaforma, che abbina il pezzo a mix molto ascoltati di canzoni lo-fi o vaporwave.
Ma da dove viene questa canzone? È una reminiscenza di un vecchio genere, che fino a quel momento era rimasto relegato in ambienti culturali e confini geografici ben precisi; un’altra reliquia del passato riscoperta in Occidente tramite l’algoritmo di YouTube; è il City Pop, il genere rilanciato dal contraccolpo del singolo di Takeuchi.
Nato nella seconda metà degli anni ‘70, il City Pop trovò la sua migliore forma nel decennio successivo, per poi spegnersi lentamente nei primi anni ‘90. Considerato da alcuni una parentesi della più lunga evoluzione del pop giapponese, e da altri come un genere vero e proprio, padre del moderno J-Pop, sicuramente questo genere porta con sé un profondo immaginario sia estetico che sociale radicato in Giappone e, soprattutto negli ultimi anni, giunto fino a noi. Il Tokyo Weekender lo definisce così: “It was a style of circumstance, a product of the optimism, prosperity and security of Japan’s economic bubble of the 1970s and 1980s and mirroring of the futurism and luxury of sprawling cities and increased wealth.”
Quindi quello di cui stiamo parlando è un genere profondamente pop, ottimista, colorato e figlio di ben determinate coordinate socioculturali che ne hanno permesso la nascita e ne hanno, scomparendo, decretato la morte, sebbene solo in parte, ma l’immaginario del City Pop era troppo forte e radicato per estinguersi con la musica da cui era nato. Prodotto da influenze culturali profonde, ne è diventato a sua volta una matrice importante.
Il City Pop nasce con la scoperta della musica occidentale: “The thing was to take these western ideas of the exotic, but to subvert them. With Martin Denny, the exotica is kind of fake. But I am real! I am the target of that western exotica [genere musicale anni ’50 che riprendeva grossolanamente le sonorità orientali, N.d.A.]. So what I wanted to make was exotica from an oriental perspective”, così Haroumi Hosono, membro della Yellow Magic Orchestra, gruppo sciolto nell’84 e poi ricostituito nei primi duemila, descrive la sua musica al Guardian. Ma l’exotica non è l’unico genere di cui possiamo ritrovare le tracce: nel singolo Wanna Kiss di Hitomi Tohyama la traccia del basso viene da Another One Bites the Dust dei Queen.
Non sempre però gli elementi di derivazione occidentale sono facilmente individuabili: il carattere del genere è camaleontico, fatto da reinterpretazioni e mix di generi occidentali in discografie di singoli artisti, o addirittura in singoli pezzi. Nonostante i titoli fino ad ora citati siano in inglese, un’altra peculiare caratteristica dei testi City Pop è l’uso della lingua giapponese: l’inglese è spesso usato soltanto nei titoli, in singole frasi o ritornelli; la maggior parte dei quali cantati da voci femminili . Sebbene poco conosciuto da noi, sul mercato giapponese il CP è sempre stato musica di massa, nonostante le evidenti libertà artistiche di cui spesso gli artisti beneficiarono. Benché si trattasse di un genere in tutto e per tutto commerciale, in Occidente rimase molto di nicchia. A questo proposito è interessante leggere cosa viene detto dalla Yellow Music Orchestra al Guardian:
“We were very big,” sighs Sakamoto, “that’s why I hated it. We were always followed by paparazzi.”
“Yes, and teenage girls,” says Hosono. “They would literally chase us down the street and rip our clothes to shreds.”
“In Italy, the audience would start arguing during our concert,” says Hosono. “You had these very serious-looking men with beards and long hair, having a symposium about our music while we were playing.”
La differenza di pubblico è evidente nelle parole dei musicisti, ma lo diventa ancor di più analizzando il mercato dell’intrattenimento e dell’arte giapponese degli anni ‘80: il City Pop diventa colonna sonora di moltissimi anime, sia nelle opening e nelle ending, sia come elemento interno alla narrativa, come in Bubblegum Crisis, in cui una delle protagoniste è una cantante pop. Altri esempi possono essere Kimagure Orange Road, California Crisis o Sailor Moon.
Da notarsi poi il legame stretto che il City Pop instaura con lo sci-fi, e più in particolare con il cyberpunk giapponese, di cui Bubblegum Crisis e Megazone 23 sono rappresentanti esemplari. I prodotti cyberpunk degli anni ’80 che risentono di questa influenza culturale non sono, spesso, in totale linea con gli schemi del genere che verranno: in Bubblegum Crisis si è lontani dalle atmosfere cupe e sporche di un Ghost in the Shell o di un Akira; il primo Megazone 23, benchè con una trama più significativa, trova un character design morbido e una palette molto accesa che permettono atmosfere meno pesanti; rimangono ovviamente alcune caratteristiche di genere, ma il pessimismo e la satira dai tratti anticapitalisti, che ora sono inscindibili dal cyberpunk, sono attenuati per lasciare spazio a prodotti d’azione con estetiche accese e con personaggi e trame meno impegnate.
Questo sodalizio con il cyberpunk ci porta ad un altro importante elemento della produzione artistica di questo genere: gli oggetti di consumo. Negli anime del periodo non esiste la consuetudine, ormai consolidata (ma neanche scontata), di storpiare i nomi dei brand: Honda, Pepsi, persino Alitalia non sono celati, e anzi vengono spesso messi in mostra. Questo accade in particolare con i beni di consumo, in cima a tutti Coca-Cola e Pepsi, che esistono anche in un eventuale futuro cyberpunk di cui sono i protagonisti culturali.
All’immaginario anime si collega il più immediato mondo dell’illustrazione: a dettare la linea in questo campo è Hiroshi Nagai. Illustratore che inizia a lavorare verso la fine degli anni ’70, si occupa di cover di dischi disegnando luoghi quasi mai abitati, ispirandosi ad un ideale d’oltreoceano, che riprende estetiche anni ‘50, con piscine, auto americane e gli skyline della West Coast: “Without American pop art I would not have started painting the way I did. This experience made me paint my summer skies as deep blues from that point on. That said, surrealism was also a big influence, and of course hyper-realism.” Nagai deve molto alla pop art di Lichtenstein e Warhol, sia concettualmente che visivamente, dai colori pastello accesi ai soggetti del consumismo made in USA. Come Nagai anche altri: alcune illustrazioni di Hisashi Eguchi richiamano apertamente i quadri di Lichtenstein, e qui il mondo dell’illustrazione si fonde con quello del manga e anche dell’hentai con U-Jin, manga-ka attivo soprattutto in campo erotico; questi due autori hanno come soggetti prediletti ragazze, spesso in costume (a richiamare quell’immaginario estivo legato a determinati elementi come le piscine che già era presente nei lavori di Nagai), mentre i colori rimangono accesissimi nei vestiti e negli ambienti, entrando in contrasto col pallore dei soggetti.
Negli ultimi anni il City Pop è tornato alla ribalta, come già detto, grazie all’algoritmo di YouTube, ma la sua influenza culturale nel Sol Levante non è mai scomparsa e si è fatta strada oltre i confini dell’arcipelago nipponico, in altri stili musicali come la Vaporwave e il FutureFunk. Artisti come Macross 82-99 reinterpretano o incorporano elementi e brani City Pop nelle loro produzioni; The Weeknd, uno degli artisti più ascoltati degli ultimi anni, in Out of Time ha utilizzato la base del singolo Midnight Pretenders della cantante Tomoko Aran. Si ripresenta, anche nelle letture successive, il legame profondo del genere con il mondo dell’animazione: l’estetica retro-anime accompagna, ad esempio, i video di Ganymede Cafè. Il filone delle illustrazioni rimane vivo: tutti gli autori nominati sono ancora in attività, come Eguchi, che recentemente ha lavorato come character designer dell’anime Sonny Boy; Banahsuan e Tree13 sono solo due dei molti nuovi nomi che si rifanno proprio a questo immaginario: ambienti cittadini, soggetti femminili, colori pastello, oggetti di consumo e ambientazione estiva, tutti gli elementi fondamentali della visual art City Pop sono presenti.
Forse il risveglio di questa lunga parentesi musicale anche in Europa e America è da imputarsi al profondo attaccamento che le nuove generazioni stanno dimostrando per un decennio, quello che va dal 1981 al 1990, la cui influenza non è mai scomparsa, e che ora viene indagata con più forza e tramite categorie culturali differenti, anche nei suoi prodotti più strani o di nicchia. Un fenomeno, questo, che dovrebbe farci riflettere sull’importanza storica e culturale di un periodo e di uno stile che forse erano stati sottostimati.
di Tommaso Castello
Tommaso Castello ha 21 anni, studia all’Università Statale di Milano e scrive occasionalmente per L’Eclisse. Si interessa di Giappone, Stati Uniti e cultura pop.