Matti, siamo tutti matti
Cosa vi salta alla mente quando vi dicono “televisione italiana”? Le risposte sono potenzialmente infinite. Vi viene da pensare Maria De Filippi o Barbara D’Urso? Amadeus o Fabio Fazio? La RAI o Mediaset? E quale canale? Quale telegiornale? E i giochi a premi? Durante la cena preferite avere come sottofondo L’Ereditào Avanti un Altro?
Quando sento “televisione italiana”, il programma che subito vi associo è uno e uno soltanto: Ciao Darwin. Paolo Bonolis che sorride alla telecamera, grida “Italiani! Italiane!”, Luca Laurenti in costume da dinosauro e cento concorrenti divisi in due squadre, pronti a sfidarsi eroicamente per stabilire le categorie vincenti fra “nord” e “sud”, “uomini” e “donne”, “gay pride” e “family day”, “freak” e “chic”, con Enzo Miccio a capitanare la squadra della gente “chic”.
Questa è la prima immagine che mi balza in mente: forse il programma più infimo e culturalmente basso che sia mai stato prodotto in questo paese (anche se gli intenditori ricorderanno con piacere l’unica stagione di Tamarreide, condotta da Fiammetta Cicogna). Programma che è nato nella stessa forma attuale, mai evolutosi dal 1998 e che nel 2023 vedrà la messa in onda della sua nona edizione. Trasmissione bassissima sì, ma che da bambino, non lo negherò, guardavo perché semplicemente faceva ridere nella sua ridicolezza.
L’idea di Bonolis per il programma fu semplice quanto geniale, ossia mettere a sfidarsi due categorie umane contrapposte, per vedere quale delle due sarebbe stata favorita dalla teoria dell’evoluzione di Darwin (e da qui il nome del programma) e avrebbe vinto. La delicatezza e la correttezza non sono mai state caratteristiche di Ciao Darwin, tanto da portare alla nascita di episodi in cui a scontrarsi erano i “normali”, ossia persone eterosessuali, e i “diversi”. Provate a mostrare un episodio di Ciao Darwin a uno straniero. Le domande che vi farannopresumibilmente saranno due. La prima sarà: “Perché ci sono così tante donne seminude?”; la seconda invece: “Perché la gente comune si presta a mettersi in ridicolo in questo modo in un programma televisivo?”. Già, perché qualcuno decide consciamente di mettersi in prima serata su Canale 5 alle 21:10 per essere ricordato in saecula saeculorum come “l’ignorante che non sa la capitale della Francia”? Le stesse domande si potrebbero fare per molti altri programmi, come il già citato Avanti un Altro, trasmissione demenziale mascherata a gioco a premi, oppure Temptation Island, Uomini e Donne, Forum e così via.

Tutti questi programmi hanno setting e funzionamenti estremamente diversi, che vanno dall’isola tropicale all’aula di tribunale, ma in comune hanno una cosa sola: i protagonisti, cioè la gente comune. Comuni sono anche le situazioni presentate: vengono infatti inscenate le storie e i drammi del vicino di casa, non si tratta di persone irraggiungibili e neanche famose. Forse non lo saranno neanche dopo questa apparizione televisiva, sempre che qualcuno non faccia diventare virale un meme su di loro. La mediocrità è il filo rosso della televisione generalista italiana e ciò vale anche (o soprattutto) per i programmi che hanno a fine titolo l’aggiunta di “VIP”, come il Grande Fratello VIP o Temptation Island VIP. Intanto, in questi programmi i vip sono, per la maggior parte, dei vip “minori”, nel senso che una Sophia Loren o un Luca Guadagnino non si sognerebbero mai di finire lì dentro; si tratta soprattutto di personalità di internet, gente famosa da poco tempo, a solo un passo di fama in più del cittadino comune. Inoltre, non vengono mai raccontati i motivi della loro fama, o il fatto che siano personaggi più o meno riconosciuti, bensì si parla della loro vita privata, con l’attenzione morbosa dell’Alfonso Signorini di turno ai dettagli più intimi e scabrosi. Questo meccanismo rende i suddetti “vip” avvicinabili e simili allo spettatore seduto sul divano di casa.
In un certo senso, credo che la televisione generalista, quella che chiamiamo trash, modellata su aspettative bassissime e su modelli ripetitivi e sicuri, funzioni un po’ come il teatro greco.
Il cittadino ateniese andava a teatro certamente perché era un dovere civico, una chiamata a rispettare la propria lealtà verso le istituzioni; sussistevano però motivazioni psicologiche e antropologiche che lo portavano a sedersi per ore sotto il sole a vedere inscenato Edipo Re o Baccanti. Il teatro greco, in particolare la tragedia, funzionava grazie a due sentimenti basilari dell’essere umano: la pietà e la paura. La prima portava lo spettatore in un contesto mentale di comunanza con l’attore, gli permetteva di riconoscerlo come suo simile, qualcuno con cui condivideva qualcosa, che fosse la sembianza o dei sentimenti umani. Era una pietà per un destino che lo spettatore conosceva già: non c’erano particolari novità nelle trame, visto che tutto si basava sul mito classico, ampiamente diffuso. Stava tutto nella capacità del drammaturgo, degli attori e del coro di portare il pubblico non solo dentro la storia, ma ad esserne protagonisti. Lo spettatore doveva diventare non osservatore di Edipo che si acceca, ma essere egli stesso Edipo.
Da questa pietà così forte e così intima scaturiva la paura primordiale di diventare così, di finire come Edipo, nella realtà fuori dal teatro e dalla vicenda.
La televisione generalista funziona sugli stessi meccanismi. Lo spettatore si riconosce nel cittadino comune che risponde alle domande di Bonolis, risponde insieme a lui, oppure tifa per una squadra a Ciao Darwin, si immedesima nel racconto di un divorzio sofferto a Forum. Ha pietà del suo destino, perché in fondo sa quasi sempre che il concorrente perderà, che a Ciao Darwin tutti cadranno innumerevoli volte nella piscina e conosce già la sentenza dell’aula del tribunale di Mediaset. Si immedesima così tanto e si rassicura della somiglianza. Questo accade anche con ivip, perché in fondo non sono veramente tali o così diversi, hanno solo qualche migliaio di follower in più. La paura nasce quando lo spettatore si accorge dell’estrema somiglianza col concorrente e se ne vergogna un po’. La televisione però qui fa un passo aggiuntivo rispetto alla tragedia greca e fornisce un sollievo, che arriva quando lo spettatore si accorge di saperne di più del concorrente e si dice “io non sono così, questo è il livello più basso”, e se ne compiace.
Il compito della tragedia era raccontare storie conosciute da tuttiper tramandarle e i protagonisti erano sempre divinità, eroi e re;non c’era spazio per gli altri, la gente comune, che però veniva accolta e narrata dalla commedia, esattamente come ora vengono accolti dalla tv generalista, che funziona come una tragedia, con i protagonisti di una commedia.
Ciò che allo spettatore sfugge è un semplice fatto storico. La televisione, come le altre forme di intrattenimento e l’arte in senso lato, è sempre specchio di una società, e se ora una ampia percentuale di share è costituito dalla messa in ridicolo del cittadino comune, dalla pornografia del dolore e dalla pornografia “sussurrata” da veline seminude, da giochi demenziali e storie giudiziarie create a tavolino, forse un motivo c’è. Ai giochi di Mike Bongiorno i concorrenti arrivavano preparati, si richiedeva gente con ampia cultura generale e al pubblico piaceva vedere sullo schermo anche qualcuno che ne sapeva di più. Ora, invece, richiede il sollievo di vedere chiunque, purché il livello sia inferiore. Ma se questo è ciò che il pubblico reclama, forse non è poi così diverso da quel livello rappresentato.
di Luca Ruffini