C’è chi li ha visti e chi mente, forse senza saperlo: gli anime non sono un fenomeno recente per la televisione italiana, ma anzi, dagli anni Settanta in poi hanno fatto parte dei pomeriggi di milioni di giovani spettatori grazie a robottoni, giocatrici di pallavolo dalle abilità sovrumane, criceti parlanti, spadaccine al servizio del re di Francia – e chi più ne ha più ne metta. Non è un invito casuale, perché non c’è limite a quello che può succedere negli anime. Chi li guarda da molto tempo sa bene come anche l’idea più assurda possa trasformarsi in una serie animata. Chi, invece, per mille motivi non è mai andato oltre al dopo pranzo con Dragon Ball o Detective Conan, spesso si trova spaesato quando fa zapping e si trova altri titoli sullo schermo; altre volte si limita a denigrarli e basta. L’obiettivo di questa guida è rispondere alle domande più comuni sul tema e, perché no, incuriosirvi, se il mondo di anime e manga vi ha sempre lasciato qualche perplessità.
- Perché si chiamano ‘anime’? E cosa c’entrano con i manga?
Generalmente, il termine “anime”, pronunciato [ˈanime], viene considerato come l’abbreviazione di “animēshon”, a sua volta pronuncia dell’inglese “animation”, oppure del francese “animé”. La caratteristica principale a livello linguistico è che, in Giappone, “anime” designa tutti i tipi di animazione, mentre in Occidente indica “i cartoni giapponesi”, sottolineandone la provenienza orientale. In italiano, è un sostantivo maschile invariabile, perciò non cambia al plurale – in barba a chi non guarda “le anime” e non riesce a usare l’articolo corretto (tratto da una storia vera). L’anima è una cosa, gli anime un’altra: è più semplice di quanto sembri. Altrettanto semplice è spiegare il rapporto tra anime e manga: spesso e volentieri, i primi sono la trasposizione televisiva o cinematografica dei secondi, soprattutto quando si tratta di fumetti molto popolari tra il pubblico.
- Perché tutti i personaggi hanno gli occhi così grandi e colorati?
Gli anime si riconoscono a colpo d’occhio, è proprio il caso di dirlo: dagli anni ’60 in poi, lo stile giapponese si è distinto nel panorama televisivo e cinematografico d’animazione per i propri character design (a volte abbreviato in chara). Che sia ambientato nel mondo reale o meno, in genere, i personaggi di un anime hanno pettinature stravaganti e coloratissime, occhi sbrilluccicanti, variopinti, semplicemente meravigliosi – e difficilissimi da ricopiare su un foglio, provare per credere. Sì, ma come mai?
Dipende in parte dall’influenza occidentale sui manga prima e, di conseguenza, sui cartoni animati (pensate agli occhioni di Betty Boop negli anni ’30), e in parte dall’esigenza di una migliore resa per quanto riguarda l’espressività dei personaggi. Occhi e capelli colorati sono una costante nell’animazione giapponese, eccezion fatta per le serie di carattere storico o che, per scelta, aderiscono maggiormente alla realtà, come in molti film dello Studio Ghibli (citiamo Una tomba per le lucciole, Pioggia di ricordi, Si alza il vento).
- Perché Naruto non è un cartone per bambini?
Ne avevamo già parlato in Salvate l’animazione e Molto più che “cartoni animati”: l’animazione in Occidente non sempre gode della considerazione che meriterebbe, venendo generalmente relegata al pubblico sotto i 10 anni. Non è così in Giappone, dove manga (i fumetti) e anime vengono suddivisi per fasce d’età precise. Qui sotto trovate un elenco delle categorie principali:
Kodomo (“bambino/a”) | Bambini in età prescolare e delle scuole elementari |
Shōnen (“ragazzo”) | Adolescenti maschi, spesso sono storie d’azione |
Shōjo (“ragazza”) | Adolescenti femmine, generalmente sono storie d’amore |
Seinen (“giovane uomo”) | Ragazzi dai 18 anni in su |
Josei (“donna”) | Ragazze dai 18 anni in su |
Doraemon è un perfetto kodomo, mentre Dragon Ball è uno degli shōnen per eccellenza, come il fortunatissimo Attack on Titan.
Tutte queste categorie sono molto elastiche per quanto riguarda generi e sottogeneri, si può dire che ce n’è letteralmente per tutti i gusti: ad esempio, le supereroine in gonnella di Sailor Moon e Pretty Cure rientrano nel filone maho shōjo (“ragazza magica”). Esistono anche i porno animati, chiamati hentai, che, a loro volta, si suddividono in più categorie a seconda degli elementi che li contraddistinguono.
E, quindi, perché Naruto non è un cartone per bambini? Perché presenta numerose scene di combattimento e tematiche spesso inadatte, se non poco comprensibili, a un pubblico infantile. In Italia, la “soluzione” a questo “problema” (le virgolette sono d’obbligo) è stata la censura, tagliando o alterando parte degli episodi o dei dialoghi: una strategia che ha contraddistinto gli anime trasmessi sulle reti Mediaset per molto tempo.
- Perché non sono mai riuscitə a finire di guardare Detective Conan? E cosa sono tutte quelle canzoncine?
Il numero di episodi di una serie animata, nel corso del tempo, è andato accorciandosi: negli anni ’70 e ’80 le serie superavano anche le 60 puntate (Hello! Spank ne ha 63, Occhi di gatto 73), ma anime più famosi come Rossana o Bleach superano le centinaia, indipendentemente dal genere. Tra gli anni ’90 e 2000 è andata stabilendosi la regola generale di circa 26 episodi a stagione, che corrisponde a sei mesi di programmazione, anche se produzioni più celebri come InuYasha hanno sforato senza troppi problemi. Più un manga (e il suo relativo adattamento) è popolare, più a lungo rimarrà in televisione, anche quando il fumetto è in pausa. In questo caso, non sono rari i filler, cioè degli episodi riempitivi, a volte autoconclusivi, che permettono alla storia di raggiungere la quota prevista dal palinsesto – anche se i filler non sono sempre all’altezza della trama originale e molto spesso abbassano la qualità di un anime. Dalla seconda metà degli anni 2000, però, il numero di puntate per stagione si è nuovamente ridotto, abbassandosi a 12/13, il che da un lato permette la produzione e trasmissione di molti più anime, dall’altro ne accelera il ritmo, talvolta a scapito della trama.
La struttura base di un episodio generalmente dura una ventina di minuti e prevede:
Sigla di apertura (da un minuto e mezzo) |
Prima parte |
Intermezzo pubblicitario, spesso introdotto graficamente da disegni e/o animazioni varie |
Seconda parte |
Sigla di chiusura (anche questa dura un minuto e mezzo) |
Anticipazioni della prossima puntata |
Le cosiddette “canzoncine” sono frequentemente vere e proprie canzoni trasmesse in radio, a differenza di quanto accadeva in Italia con i brani di Cristina D’Avena e Giorgio Vanni.
Per tornare alla domanda di partenza: Detective Conan è una serie ancora in corso, sia su carta che in TV, e conta più di mille episodi. Mano alla calcolatrice e fatevi un paio di conti per sapere quanto tempo vi servirebbe per mettervi in pari!
- Espressioni predefinite
Qui sotto, vi proponiamo una carrellata delle espressioni tipiche che troverete in qualsiasi anime:
[1 rabbia]
L’arrabbiatura standard prevede: occhi triangolari – possibilmente privi di iridi e pupille -, bocca stilizzata, vene che si contraggono sulla fronte (anche dal vivo fanno paura) e quei quattro segnetti dal colore variabile. Edward Elric, il protagonista di Fullmetal Alchemist, ci aggiunge pure un pugnetto tremante.
[2 pikachu ko]
“Non ce la faccio più”, e subito gli occhi diventano due spirali nere che girano, girano, girano… Povero Pikachu, in questo caso!
[3 pauraaa]
Panico, pa-panico, paura: i personaggi di Ouran Host Club sono uno più terrorizzato dell’altro.
[4-5 lacrime]
Ci sono mille e più modi per piangere, in Giappone: la tristezza è una delle emozioni con la resa più variegata. Quella dello Studio Ghibli, in genere, combina realismo ed emozione, con grandi bolle azzurrine che scendono lungo il viso. Si può dire che Sophie (Il castello errante di Howl) e Anna (Quando c’era Marnie) stiano letteralmente piangendo come due fontane.
[6 sangue dal naso]
L’epistassi, accompagnata da uno scatto fulmineo del collo che, per ora, non ha decapitato nessuno (anche se nella vita reale probabilmente fa malissimo), indica l’eccitazione di un personaggio, come in questo caso Sanji, il biondo pirata di One Piece.
[7-8 shock]
Due puntini e una bocca spalancata, come Hiyori e Yuki di Noragami: lo shock è una delle emozioni più facili da individuare in un anime.
La passione per serie e fumetti giapponesi non di rado si trasforma in un interesse più profondo per il Paese del Sol Levante, i suoi costumi e la sua mentalità. Anime e manga sono più di un passatempo di nicchia: entrare nel loro mondo equivale ad immergersi in una cultura nuova, affascinante, talvolta inafferrabile, e non si può ridurre a una semplice bambinata – sfido io a definire Neon Genesis Evangelion un cartone per bambini. Fermarsi ai disegni, magari ignorando l’alta qualità delle animazioni, è superficiale, quando magari gli anime sono uno dei tanti mezzi per raccontare uno scorcio della natura umana, che siano le storie d’amore tra i banchi di scuola (Toradora!, Arrivare a te), la vita di tutti i giorni, belli e non (uno su tutti, Nana) o l’eterna lotta tra Bene e Male, che si rivelano molto più sfaccettati e ambigui di quanto non sembrino, e qui la lista si fa lunga, ma così lunga… Tipo Demon Slayer, certo, ma anche InuYasha, oppure l’infinito Hunter x Hunter, Soul Eater, Noragami. E questa è solo la punta dell’iceberg.
Titolo
Sono Joanna, senz’acca e con la J di Just Dance, per quanto sia un pezzo di legno. Non sono molto brava a parlare di me seriamente, perciò preferisco che lo facciano gli altri. Essendo nata nel ’98, dovrei avere più di vent’anni, ma ho iniziato a contarli al contrario perché la gente non me ne dà più di quindici. Pare che a quaranta sia una bella cosa. Si spera di arrivarci, apocalisse permettendo. Spero anche di finire la magistrale in traduzione prima che sia lei a finire me, ma ride bene chi ride ultimo…
Non fiori, ma cioccolatini (a un primo appuntamento)