Quella volta che scivolai sull’olio all’Eredità
Vi sarà capitato, spesso, di essere presi dalla noia, di vivere quelle giornate lente e senza avvenimenti, in cui ci si domanda se stiamo usando al meglio il nostro tempo. Ebbene, in una di quelle giornate nella mia mente è palesata un’idea, pazza quanto classica: “ma se andassi in tivù?”.

Nonostante le ultime generazioni se ne siano allontanate gradualmente, la televisione rimane il mezzo di comunicazione per antonomasia, o per lo meno il più iconico. Questa iconicità ha portato tanti a sognare, un giorno, di finirci dentro, quello schermo piatto o tubo catodico (a seconda del tempo).
Così, all’inizio dell’anno, ho iniziato con frequenza a pensare a questo desiderio: superfluo dire che il pensiero divenne talmente insistente da doverlo mettere a tacere una volta per tutte. Avendo seguito innumerevoli programmi, ho optato per quelli più semplici ai quali partecipare: i quiz show. Nati insieme alla televisione prima con Corrado e Mike Bongiorno, poi evolutosi con Gerry Scotti e Carlo Conti, il quiz show, per anni, è stato il baluardo del preserale di Mediaset e Rai: questi programmi hanno cresciuto generazioni, acculturando tanti italiani e, allo stesso tempo, dando anche grande spazio al trash (tanto caro al nostro paese).
Tra tutti i quiz show, L’eredità è stato quello a cui mi sono più legato. Ricordo le sere a seguire fino alla fine ogni singola puntata, a familiarizzare con i concorrenti tifando per loro, e tentare di azzeccare la risposta corretta. Rammento la stagione lunghissima di Carlo Conti, poi quella di Fabrizio Frizzi, conclusa tristemente con la sua scomparsa, che all’epoca mi colpì molto. Fino all’ultimo anno di liceo, L’eredità ha fatto parte delle mie serate e, con lei, Flavio Insinna, il presentatore odierno.

Preso il coraggio, mi è bastato inviare una candidatura alla produzione e aspettare la loro chiamata. Non vi sorprenderà come, dopo poco tempo dall’invio, abbia pensato “ma chi me l’ha fatto fare?”. Arrivata la chiamata, il pentimento è svanito. Mi aspettava ora un provino, dove oltre alla presentazione, mi attendevano domande di prova. L’ansia inizia a salire piano piano lungo i giorni poco prima del casting. La mattina del provino, accedo su Zoom e sono pronto per la chiamata.
Potevo aspettarmi di tutto tranne che una signora in casa sua, circondata da gatti e dai peli che questi lasciavano in giro. L’informalità della cosa mi rilassò e feci il provino con meno tensione. Concluso, aspettai due settimane, nelle quali pensai anche di essere stato scartato.
Mentre stavo camminando all’università, verso un’esame di latino, mi chiamarono da Milano: il 23 marzo si registra una puntata e io ci sarò. Inizialmente non ci credevo, ma con il passare delle giornate, l’adrenalina è salita alle stelle e l’ansia in parte calata.
Mi sono accorto che ciò che mi spingeva non era tanto apparire sullo schermo, ma scoprire il dietro le quinte della televisione: vedere gli studi, osservare la produzione all’opera, entrare per poco nel mondo Rai.
Il 23 marzo è stata una delle giornate più lunghe della mia vita. L’alba bolognese mi portò in stazione, poi sul treno che, tra un tunnel e un monte, mi portò a Roma. Trovai una Roma calda, gremita e un pochetto stanca della sua frenesia: salito in taxi, parlai con l’autista, che mi raccontò della vita a Roma, del fare il taxista nella Capitale, mentre, quasi da stereotipato, io parlai solo di cibo romagnolo.
Tra un condominio e una chiesa, arrivammo agli studi “Fabrizio Frizzi”. Presi la tessera d’ingresso con il mio nome (che conservo avidamente) ed entrai in Rai. Gente truccata, tecnici al lavoro, macchine che entrano ed escono: mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Poco dopo, una ragazza della produzione introdusse me e gli altri concorrenti al programma del giorno. Andammo nei camerini, vissuti e vecchio stile, in cui vidi grandi nomi su ogni porta (da Malgioglio a Gabbani). Dopo aver firmato innumerevoli fogli, mi truccarono, scelsero quali vestiti avrei dovuto indossare in base a ciò che mi ero portato e mi sistemarono i capelli. Feci amicizia con uno dei concorrenti, il più anziano, un poeta milanese che, da anni, campa della propria arte e pochi giorni dopo sarebbe andato a Napoli a leggere delle sue poesie.
Dopo aver mangiato il pranzo offerto dalla produzione, andammo in studio: millemila rumori sentivano le mie orecchie: lo studio vicino in cui suonavano una canzone, le urla di alcuni tecnici, l’aprirsi e il chiudersi di porte.
Un passo ed entro in una stanza fatta di schermi al led: lo studio de L’Eredità. Lo studio mi sembra minuscolo, come se la tivù avesse il potere di rendere tutto grande e spettacolare sullo schermo.

Tutto è velocissimo: mi attaccano addosso la targhetta con il nome e il microfono, entro nello studio, mi posiziono, arriva Insinna, prove audio, prove video, musica pre-registrazione, inizio registrazione, primo gioco, Insinna dice a tutta Italia che assomiglio a Carlo Conti da giovane (non so che si fosse bevuto prima), prima eliminazione, secondo gioco, sbaglio e vengo eliminato cadendo sulla parola oleario.
Il tutto fu talmente veloce che in un batter d’occhio mi ritrovai sul treno di ritorno verso Bologna, soddisfatto di ciò che avevo appena vissuto.
Per qualche giorno pensai fosse stato un sogno, un’ipnosi o qualcosa del genere, poi una settimana dopo mi vidi in tivù: una sensazione strana che fatico a esprimere a parole.
Certe volte nella vita alcune esperienze sono talmente fugaci da sembrare sogni pochi chiari, e quella che ho cercato di raccontarvi è una di quelle. Non posso dare un giudizio sulla tv solo con questa esperienza, ma posso dirvi che il mondo dentro a quello schermo è magico, talvolta straniante, nel bene e nel male.
Ora aspetterò due anni, studierò tutte le tipologie d’olio esistenti, e tornerò a L’Eredità per vincere i soldi per la retta universitaria.