Molto più che “cartoni animati”
Sono colorati, sono allegri, sono fantasiosi e ne conosciamo a memoria tutte le canzoni: i cartoni animati ci hanno fatto compagnia nei pomeriggi della nostra infanzia, dopo la scuola, e per qualcuno sono stati forse una fonte d’ispirazione, talvolta un modello di riferimento. Da Carosello alle Winx, ogni generazione ha avuto un cartone-simbolo (o anche più d’uno) che è entrato nella valigia dei ricordi di ogni bambino e, da lì, nell’immaginario collettivo; giusto durante il Festival di Sanremo 2016, gli Zero Assoluto si esibivano cantando la sigla italiana di UFO Robot Goldrake in occasione della terza serata della kermesse. Al di là del magro risultato conseguito (né il televoto, né la sala stampa apprezzarono particolarmente la rivisitazione del brano), è lecito pensare che tale scelta cercasse di cavalcare l’onda di una tendenza oggi molto in voga, in Italia, ovvero la reinterpretazione delle sigle dei cartoni più amati dal grande pubblico.

Una moda dal sapore nostalgico, si potrebbe dire, e un po’ amaro (bambini certo non si torna), che sta tuttavia contribuendo allo sviluppo di una nuova percezione nello spettatore medio italiano nei confronti del genere d’animazione: fino a venti, venticinque anni fa, quasi nessun appassionato ne avrebbe apertamente parlato, se non in occasione delle manifestazioni dedicate o su qualche sito specializzato, per evitare l’etichetta di “bambinone” o “sfigato”, se non “nerd”. Per la mentalità dell’epoca (neanche troppo lontana), i cartoni animati erano un prodotto destinato ai più piccoli ed esistevano, perciò, delle rigide linee guida da rispettare, in materia di forma e contenuti; la censura (non solo italiana) delle serie animate giapponesi trasmesse negli anni Ottanta e Novanta è stata fortemente criticata per avere spesso modificato nomi e scene, in alcuni casi giungendo ad alterare in maniera significativa la trama. Ma perché trasmettere in fascia protetta dei cartoni visibilmente inadatti a degli spettatori così giovani?
Si tratta di un circolo vizioso, fondato sul concetto che accosta il disegno animato alla semplicità dell’infanzia, fatta di omini stilizzati e colori vivaci, di casette bidimensionali con un camino che, ingenuamente, fuma in piena estate; un’ingenuità che deve, quindi, essere tutelata con i dovuti mezzi, i quali rientrano nell’adattamento forzato del prodotto. Nel caso dell’animazione nipponica, però, è necessario ricordare che esiste una precisa suddivisione degli anime (e dei manga da cui molti di essi vengono tratti) che varia a seconda delle fasce d’età e dei temi affrontati: un intervento di questo tipo costituisce una sorta di “quadratura del cerchio”, contro la quale gli appassionati hanno regolarmente protestato, negli anni, adducendo a tale pratica (e, di conseguenza, alla mentalità che la applica) la caparbia resistenza del pubblico italiano alla trasmissione di nuovi anime sulle reti generaliste. I cartoni animati occidentali si sono spostati sui palinsesti dei canali tematici e lì rimangono, salvo rare eccezioni.

Quella italiana è, senza dubbio, una visione piuttosto limitata, se non addirittura erronea, dell’animazione, perché tende a ignorarne qualsiasi scopo che esuli dall’intrattenimento educativo e, dunque, dalle potenzialità espressive. È sufficiente pensare a I Simpson per rendersene conto: la principale opera di Matt Groening vanta ben trent’anni di onorata carriera nel settore televisivo, con più di cinquecento episodi all’attivo e un successo di ascolti che le ha permesso non soltanto di entrare nel background culturale statunitense, ma anche di farsi conoscere nel resto del mondo, e di spianare la strada a serie come I Griffin, American Dad!, South Park, Beavis & Butthead, Daria, sdoganando il genere della sit-com di stampo satirico. Niente che abbia a che fare con Pimpa e Calimero, insomma, o con una qualsiasi fiaba Disney.

Oltre alla satira politica e di costume, anche la Storia trova spazio nell’animazione, senza che gli avvenimenti messi in scena vengano per questo edulcorati, e guadagnandosi il plauso della critica. Il documentario israeliano Valzer con Bashir (2008), per esempio, tratta di un tragico evento storico, ovvero la serie di conflitti che sconvolsero il Libano nei primi anni Ottanta; il film Persepolis (2007) è, invece, la brillante trasposizione dell’omonima graphic novel autobiografica, che esplora la vita quotidiana in Iran dopo la Rivoluzione del 1979 attraverso gli occhi dell’autrice, Marjane Satrapi, prima bambina, poi adolescente (e immigrata) e, infine, adulta. Un altro lungometraggio che affronta le conseguenze della guerra sull’infanzia è Una tomba per le lucciole (1989), prodotta dal celeberrimo Studio Ghibli: la storia di due fratellini scampati al bombardamento della città di Kōbe, nel 1945, ad opera degli americani.
Ad esclusione del Giappone, che rappresenta un mondo a sé stante, il mercato dell’animazione (così come quello del fumetto) rimane ancora pervaso da un’ostinata connotazione infantile, rotta ogni tanto da qualche eccezione (tra le ultime, Anomalisa e Sausage Party). È comunque importante osservare come le case di produzione stiano prendendo in considerazione la varietà che compone il pubblico in sala, al telecomando o davanti allo schermo: oltre all’utilizzo delle più moderne tecniche di realizzazione, che al disegno tradizionale hanno ormai visto subentrare la CGI, è possibile notare un approfondimento della trama del cartone animato, insieme a un allungamento della durata complessiva, che in origine si basava sulla soglia di attenzione dei bambini, di per sé piuttosto breve. L’impronta del ricambio generazionale di registi, sceneggiatori e animatori (e spettatori) lascia sicuramente il segno nel settore dell’intrattenimento e preannuncia un nuovo sguardo al genere animato. Si potrebbe, quindi, auspicare una nuova presa di coscienza anche in Italia, dove i talenti di certo non mancano.
di Joanna Dema