Abbiamo raccolto tutte le canzoni in un’unica playlist: ascoltala su Spotify!
Se siete fan sfegatati della musica anni ‘80, potete gridarlo a pieni polmoni: l’esibizione dei Depeche Mode durante la serata finale del Festival di Sanremo, alcuni mesi fa, è stata una comparsata che non ha fatto giustizia a quarantatré anni di onorata carriera. Diciamo anche che Ghosts Again, il singolo presentato, è una spanna sopra a molte altre canzoni in gara e un ottimo apripista per Memento mori, il primo disco dopo la morte di Andy Fletcher, lo storico tastierista. E diciamo pure che Personal Jesus è un brano immortale, come, del resto, lo è Violator, l’album consacrazione del 1990; nessuno avrebbe voluto esibirsi dopo questa canzone. Perché? Perché non erano degli ospiti qualunque. I Depeche Mode, nati esattamente nel 1980 a Basildon, ad una quarantina di chilometri da Londra, sono uno dei gruppi di maggiore successo nel Regno Unito, capaci di spaziare dalle allegre tastiere pop degli inizi alle sonorità più oscure del rock elettronico e della dance. Pensate: sette album pubblicati in soli dieci anni. Praticamente dei mostri.
Insomma, le cose da dire sarebbero tante, ma ciò che più ci preme farvi notare è come la Rai non abbia saputo dare il giusto spazio a un gruppo così importante per il mondo della musica. Qualcuno avrebbe dovuto riferire ad Amadeus che è inutile professare un amore risalente ai tempi della radio, se poi non c’è nemmeno il tempo per un’intervista, cosa che, probabilmente, l’entourage aveva presagito, dal momento che soltanto una storia Instagram, registrata all’ultimo minuto, è stata dedicata all’ospitata sanremese. Per farvi capire: hanno suonato di più i Pooh, con materiale vecchio almeno di trent’anni, che i Depeche Mode, che portavano un inedito oltre a Personal Jesus. La dimensione della pessima figura fatta, in mondovisione tra l’altro, potete facilmente intuirla.
Personal Jesus, però, non è l’unico pezzo iconico nella tracklist di Violator. Tre tracce più tardi, alla numero 6, compare quello che è il maggiore successo della band in termini di vendite e popolarità. Il pubblico un po’ ci sperava, da casa era pronto a ballare sul divano, ma Enjoy The Silence, purtroppo, non è stata eseguita. “Mai una gioia!”, direte, se avete provato una cocente delusione.
Ecco, allora, sette cover più una per consolarvi.
L’originale (1990)
ovvero “il Capolavoro”.
Il riff di chitarra dell’inizio, così pulito, eppure così malinconico, passerà alla storia come uno dei motivi più famosi di sempre. È un invito a lasciarsi andare, a rifugiarsi tra le braccia di qualcuno, proprio come il testo di Martin Gore: il tema della canzone, infatti, è l’abbandonarsi a quel silenzio che si crea quando due persone sono in piena sintonia. Non ci sono gli “I love you”, né cliché sdolcinati, perché Enjoy The Silence canta l’amore esprimendo la consapevolezza del peso delle parole.
“Words like violence/break the silence”, “words are meaningless/and forgettable”: perché rovinare un momento di perfetta connessione con qualcosa di improvvisato, compiacente, magari già sentito? Tutto quello che l’io lirico desidera è già lì, lo canta nel ritornello, per cui le parole sono inutili, persino triviali e squallide, se confrontate con dei sentimenti così sinceri e intensi. Enjoy The Silence è una canzone d’amore per chi non vuole nascondersi dietro a frasi trite e ritrite, ma trova più intimità in un silenzio condiviso che in una dichiarazione esplicita. Inoltre, l’arrangiamento synth pop di fine anni ‘80 si combina perfettamente con il testo: cupo nelle strofe principali, ma quasi luminoso nel ritornello, in cui la bellissima voce di Dave Gahan canta “All I ever wanted/all I ever needed/is here in my arms”, esprimendo quello che le parole non riescono a veicolare correttamente.
Il video, diretto dal regista olandese Anton Corbijn, si ispira al Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Corbijn alterna sequenze in bianco e nero della band (all’epoca un quartetto, con Alan Wilder), immagini della copertina di Violator e una curiosa passeggiata in montagna: Dave Gahan veste i panni di un sovrano che, pur avendo tutto ciò che desidera, vaga nel suo regno alla ricerca di un posto in cui mettersi comodo e godersi il silenzio. Un video a metà tra fiaba e parabola in cui, a differenza della traccia dell’album, si sente la voce di Gahan alla fine che riecheggia, cantando “Enjoy the silence” nel silenzio più totale.
Lacuna Coil (2006)
ovvero “Silenzio metal”.
Passione: è la prima cosa che trasmette questo rifacimento così diverso dall’originale, eppure così riuscito. Se la prima Enjoy The Silence sembra eterea, a tratti schiva, questa è un turbinio di chitarre, un vento travolgente al quale arrendersi. L’arrangiamento abbandona i sintetizzatori tipici del synth pop di fine anni ‘80 e vira verso le sonorità più dure del metallo pesante, ma non troppo, rimanendo piuttosto orecchiabile anche per un pubblico meno esperto. Il merito va ai Lacuna Coil, nati a Milano nel 1994 e diventati una delle più importanti band nella scena gothic e alternative metal. L’album Karmacode, che contiene questa versione di Enjoy The Silence, apre al successo internazionale, con più di 200mila copie vendute solo negli Stati Uniti.
Due video vengono realizzati per il singolo: uno per il mercato britannico, ormai introvabile in rete, e l’altro per quello statunitense, ambientato a Portland (Oregon), in un magazzino dove il gruppo suona. Belli i primi piani sulle voci principali, Cristina Scabbia e Andrea Ferro, e i cambi di colore nella fotografia, che passa dal blu, al verde, all’arancione come un incendio, o una passione, che divampa.
Anberlin (2006)
ovvero “Silenzio punk emo”
Punk Goes 90’s: questo il titolo di un album compilation che rientra nella serie Punk Goes…, progetto dell’etichetta statunitense Fearless Records. L’obiettivo? Riarrangiare le canzoni più famose di sempre in chiave punk rock e derivati, come il punk emo dei primi anni 2000 – superficialmente ricordato più per l’estetica che per la musica, nonostante il successo di gruppi come i My Chemical Romance o i Paramore. Chi vi scrive non è una fan del punk in generale, ma ne riconosce l’importanza nello sviluppo di generi come l’alternative rock e la new wave.
Dopo questo preambolo, parliamo della cover degli Anberlin, band americana che partecipa a Punk Goes 90’s. L’arrangiamento riesce ad essere coinvolgente durante tutto il brano, mantenendo la tonalità originale, e la prima strofa comincia bene dal punto di vista vocale; il primo ritornello, invece, funziona poco proprio perché la voce di Stephen Christian rimane bassa, quasi sottotono. Se il secondo si rianima, il terzo, cantato con un misto tra effetti vocali e timbro naturale, non convince proprio. Il testo, oltretutto, sembra perdere intensità a causa del ritmo accelerato, che, pur essendo una caratteristica propria del genere, qui non funziona molto, anche perché non stiamo parlando di punk puro al livello dei Sex Pistols.
Forse era meglio puntare su un altro cavallo di battaglia degli anni ‘90, però qualcuno ha comunque creduto nel riadattamento degli Anberlin: la canzone, infatti, compare nella serie TV The Vampire Diaries.
Nada Surf (2010)
ovvero “Silenzio indie rock”.
Restiamo negli States con la versione tratta da If I Had a Hi-Fi dei Nada Surf, attivi dal ‘92 e noti principalmente grazie alla hit Popular (1996). Il loro arrangiamento cambia moltissime cose, a partire dalla velocità: a primo impatto, sembra una canzone completamente diversa, eccetto per il riff – sarebbe un sacrilegio eliminarlo. Ma, se la velocità rappresentava un punto a sfavore per gli Anberlin, qui diventa un ulteriore modo per personalizzare la canzone, adattandola ad uno stile indie rock. C’è un’impronta adolescenziale in questa reinterpretazione, come il “pa-pa-pa” cantato sul riff, che la rende perfetta per la colonna sonora di un film di formazione, magari incentrato sul primo amore visto il tema. Immaginatevi due ragazzini in motorino che sfrecciano per strada, con questa Enjoy The Silence in sottofondo, ridendo come scemi, rossi in viso…
Fareste uno sforzo immaginativo che i Nada Surf, purtroppo, non hanno fatto: il video promozionale è un semplice raggruppamento di esibizioni dal vivo e scene nel backstage in bianco e nero. Che facciamo, diamo la colpa al budget?
Denmark + Winter (2014)
ovvero “Silenzio nel mistero”.
Parlando di immaginazione, è giusto citare la versione dei Denmark + Winter, progetto musicale che da una decina d’anni si occupa di “re-immaginare” canzoni già note al grande pubblico. Usiamo la parola “progetto”, perché dei Denmark + Winter non si sa nulla: il sito Internet e le pagine social non mostrano mai foto dietro le quinte, né nomi, viaggi, concerti e via dicendo. Sappiamo solo che questa Enjoy The Silence è cantata, quasi mormorata, da una voce femminile e che la base elettronica è molto più cupa e scarna dell’originale. Se dovessimo ricreare un’immagine per questo adattamento (o magari un video, visto che non esiste), vedremmo due persone sdraiate una di fianco all’altra, a guardarsi senza sosta, mentre l’oscurità le avvolge.
L’appunto che ci preme fare riguarda giusto la voce della sconosciuta cantante, che risulta un po’ troppo sottile e liscia rispetto all’arrangiamento. Una voce diversa avrebbe emozionato di più.
Lotte Kestner (2015)
ovvero “Silenzio indie pop”.
Torniamo nell’indie americano con Lotte Kestner, pseudonimo solista di Anna-Lynne Williams, cantante dei Trespassers William. Una band di nicchia, lo avrete capito, di cui difficilmente avremmo sentito parlare senza la rete, e lo stesso vale per Lotte/Anna-Lynne e il suo EP interamente dedicato ai Depeche Mode, chiamato, guarda caso, Covering Depeche Mode. Il brano che più ci interessa viene poi ripubblicato nella compilation Covers del 2017.
Questa versione di Enjoy The Silence si spoglia dell’aura oscura dell’originale, trasformandosi in una dolce ninnananna, nel sospiro di sollievo che segue una grande paura. La voce chiara della Kestner scandisce le parole, mentre la tastiera trema e la chitarra in sottofondo, presumibilmente acustica, sembra imitare il rumore della pioggia. L’immagine finale – e l’ispirazione per un video – potrebbe essere quella di due innamorati sdraiati l’uno tra le braccia dell’altro, che guardano le gocce di pioggia scorrere sul vetro, in un pomeriggio di fine inverno.
Carla Bruni (2017)
ovvero “Silenzio francese”.
Alzi la mano chi non sapeva che l’ex Première Dame di Francia, tra le sue mille carriere nel mondo dello spettacolo, è anche cantante. Evidentemente, non siete mai capitati su Deejay TV o VH1, in pieno ozio domenicale, mentre passavano il videoclip di Quelqu’un m’a dit e un uomo fuori dalla finestra urlava “Carlà! Carlà!”, disperato. Messa da parte l’aura da femme fatale, è giusto ricordare che Carla Bruni ha sette album all’attivo, di cui uno di sole cover, ossia French Touch.
In effetti, nella sua personale resa di Enjoy The Silence il tocco francese si sente. Sarà nel riff suonato alla tastiera o nel ritmo complessivamente rallentato? Oppure nella “r” anglofona un pochino troppo enfatizzata? L’arrangiamento, comunque, funziona, la voce roca della Bruni anche – e regge il confronto in live, sebbene la cantautrice non sia certo un soprano lirico che copre cinque ottave. Forse, il French touch si trova nell’atmosfera nostalgica che tutto questo riesce a creare, anche nel video, la cui unica pecca probabilmente è di concentrarsi esclusivamente sulla Bruni. Va bene il passato da modella, ma non siamo in un photoshoot senz’anima.
Tulia (2018)
ovvero “Silenzio folk pop”.
Mettete delle ragazze tra i 20 e 30 anni che, su indicazione della più grande, incidono una personalissima versione di Enjoy The Silence, la diffondono in rete e, dopo due anni, si ritrovano alle semifinali dell’Eurovision. Quando la cover del gruppo di Stettino (Szcszecin) viene pubblicata su YouTube, la Polonia va in visibilio e le critiche positive si sprecano. Nel video, le quattro ragazze in colorati abiti tradizionali dondolano, come bambole di porcellana, in mezzo alla foresta innevata, dando l’impressione in alcune sequenze di essere all’inizio di un cortometraggio horror. La resa vocale di questo adattamento si può definire altrettanto inquietante, perché le Tulia cantano secondo lo śpiewokrzyk, letteralmente il “canto urlato”, tipico del folk polacco.
Tuttavia, inquietante non significa brutto. L’arrangiamento è ben curato: verso la fine si può sentire persino uno scacciapensieri nascosto dagli altri strumenti, e le voci delle Tulia si sovrappongono alla perfezione – anche dal vivo, abbiamo verificato. Insieme al video, l’effetto complessivo riporta all’inquietudine delle fiabe dei fratelli Grimm, come se l’invito a godersi il silenzio provenisse da una strega, nel cuore di un bosco maledetto.
Mike Shinoda (2004)
ovvero “Silenzio inaspettato”.
Sì, è lui: la mente dei Linkin Park. Nel 2004, Mike Shinoda realizza un remix dell’iconica hit dei Depeche Mode, mentre il successo di Meteora (album della celebre Numb) segue quello di Hybrid Theory (che contiene In The End), portando la popolarità della band a picchi elevatissimi. La versione di Shinoda aggiunge molti effetti sonori che ai fan dei Linkin Park suoneranno familiari, ma anche azzeccati in questo particolare contesto. C’è qualcosa nell’arrangiamento che trasmette disperazione e abbandono, come se la canzone diventasse un invito a tuffarsi nel buio. Persino la voce di Gahan rende in maniera diversa, sebbene la traccia vocale rimanga la stessa del 1990. Che dire, sperimentazione riuscita!
Il video animato, al contrario, è colpa delle sperimentazioni del suo tempo. Una strana pianta rossa scatena il panico all’interno di un edificio (forse un ospedale), richiedendo addirittura l’intervento dell’esercito, mentre sui monitor degli uffici si alternano spezzoni dei Depeche Mode (in diversi concerti), con una specie di fotografia color seppia che lascia il tempo che trova. Un videoclip così orrendo che andrebbe rigirato da capo.
Naturalmente, ci sono decine di cover che questa lista, per ragioni di spazio, non ha potuto inserire, come quella di Tori Amos (sarebbe stata bocciata, ndr), degli HIM, del gruppo a cappella Cluster, dei Keane e così via. Questo per dimostrare come un capolavoro possa essere declinato in più generi musicali – a volte con successo, altre meno. Il che ci riporta all’invettiva di cui sopra: come si fa a dare dieci minuti scarsi per un’esibizione dal vivo ai Depeche Mode? A voi l’ardua sentenza.
di Joanna Dema
Sono Joanna, senz’acca e con la J di Just Dance, per quanto sia un pezzo di legno. Non sono molto brava a parlare di me seriamente, perciò preferisco che lo facciano gli altri. Essendo nata nel ’98, dovrei avere più di vent’anni, ma ho iniziato a contarli al contrario perché la gente non me ne dà più di quindici. Pare che a quaranta sia una bella cosa. Si spera di arrivarci, apocalisse permettendo. Spero anche di finire la magistrale in traduzione prima che sia lei a finire me, ma ride bene chi ride ultimo…
Non fiori, ma cioccolatini (a un primo appuntamento)