L’urlo dei giovani arabi
Essere giovani tredici anni fa non doveva essere facile. Nel 2008, una profonda crisi finanziaria ed economica lasciò tantissimi giovani e neolaureati senza speranze per un futuro simile a quello dei loro genitori. Ma non fu facile, soprattutto, per i giovani arabi dell’area MENA (Medio Oriente e Nord Africa). Corruzione, assenza di libertà individuali, violazione dei diritti umani e mancanza di interesse da parte della classe dirigente per le condizioni di vita della popolazione erano ciò con cui la generazione nata tra gli anni 1980 e 1990 si trovò a convivere quotidianamente. La rabbia e la frustrazione dei giovani arabi fu decisiva tra il 2010 e il 2011, comportando un’ondata di proteste in tutta la zona: la Primavera Araba.
Il 17 dicembre 2010 – quasi 13 anni fa – il fruttivendolo tunisino Mohamed Bouazizi (27 anni) decise di darsi fuoco per protestare contro i maltrattamenti e le violenze subite da parte della polizia. Infatti, la polizia gli aveva chiesto una tangente sulla sua merce per entrare al mercato (Bouazizi era un venditore ambulante), ma egli si rifiutò: fu picchiato e preso a manganellate.
Quel giorno, il giovane cercò di contattare il suo governatore locale per denunciare le violenze e i soprusi, ma non trovò risposta: la sua frustrazione e umiliazione lo portarono a cospargersi di benzina e darsi fuoco. Il gesto estremo, ma forse necessario, di Mohamed Bouazizi scatenò un effetto domino di proteste nell’area, che portarono alle dimissioni di quattro capi di stato tra il 2010 e il 2011: Ben Ali in Tunisia, Gheddafi in Libia, Mubarak in Egitto e Saleh in Yemen.
Ma chi manifestava? Se guardiamo alle caratteristiche demografiche di queste proteste, si nota una tendenza molto chiara: giovani tra i venti e i trent’anni in media. Questo è giustificato dal fatto che in questi paesi vi era (e in alcuni paesi ancora è) una forte presenza di youth bulge, ovvero un rigonfiamento della fascia giovanile nella piramide dell’età. Secondo l’Arab Barometer, il 40% dei giovani tra i diciotto e i vent’anni, e più del 30% dei giovani tra i diciotto e i trent’anni hanno preso parte alle manifestazioni. Tenendo conto che questi paesi avevano (e hanno ancora) una popolazione molto giovane – con più del 30% formata da persone tra i quindici e i ventiquattro anni – presero parte alle manifestazioni veramente tante persone. L’importanza dell’età è, quindi, di vitale importanza per capire il fenomeno della Primavera Araba.
La partecipazione fu più alta soprattutto tra gli studenti e i giovani disoccupati. La Primavera Araba non è un fenomeno portato avanti dai più poveri: la maggioranza dei partecipanti aveva un’istruzione superiore (spesso universitaria), aveva un lavoro o stava ancora studiando. Il clientelismo, la corruzione, la violazione di diritti individuali (e collettivi) e politiche autoritarie scatenarono la frustrazione, la rabbia e l’umiliazione di moltissimi giovani arabi. Avevano studiato (e tanto), stavano lavorando (molto e pagati pochissimo) e non avevano alcun tipo di speranza di avere uno stile di vita soddisfacente rispetto a ciò che gli era stato promesso dai governi. Quest’ultimi erano stati totalmente incapaci di implementare riforme concrete contro la disoccupazione e l’analfabetismo. I giovani erano stanchi di essere sovra-preparati rispetto al reale bisogno di skills nel mercato del lavoro. Erano stanchi di essere sfruttati sul posto di lavoro e pagati pochissimo, senza riuscire a crearsi una famiglia. Le politiche di scolarizzazione non corrispondevano agli standard qualitativi internazionali e la mancanza di opportunità lavorative si sono ritorte contro gli stessi governi.
Le massicce politiche in ambito educativo implementate negli anni ‘70 e ‘80 non avevano, quindi, creato persone effettivamente preparate per lavorare: ciò che veniva richiesto dal mondo del lavoro non corrispondeva a ciò che i giovani avevano studiato. Praticamente, chi aveva studiato tanto aveva meno probabilità di trovare un posto di lavoro soddisfacente. Qualcosa che anche noi oggi riusciamo a comprendere.
I giovani arabi avevano deciso di far sentire la loro voce: lo fecero per quasi due anni consecutivi, protestando, creando disagi nelle città, manifestando e, in certi casi, commettendo atti estremi come suicidi simbolici. Le politiche fallimentari in ambito scolastico portarono alla creazione di uno spirito critico e di una coscienza comune, soprattutto nei confronti della classe dirigente e dei governanti. L’aver studiato diede ai giovani arabi la possibilità di canalizzare la loro frustrazione e il loro disorientamento causato dai politici nelle manifestazioni e proteste in piazza.
Il dramma dei giovani riguardava anche il livello di disoccupazione: tra il 25 e il 30% dei giovani manifestanti non trovava lavoro. Dall’altra parte, chi lo aveva trovato era sottopagato e sfruttato. Anche qui, i politici monolitici non erano stati in grado di sobbarcarsi il peso di creare politiche anti disoccupazione che fossero efficaci. Come descrive M. Chloe Mulderig in un paper pubblicato per la Boston University, “le manifestazioni della Primavera Araba sono state un’opportunità per i cittadini di chiedere il rispetto dei contratti sociali stipulati con i loro leader autocratici” (An uncertain future: youth frustration and the Arab Spring, 2013[4] ). La disoccupazione, quindi, era il risultato sia di politiche scolastiche inadeguate, che di una mancanza di posti di lavoro effettivi. E i giovani decisero di farsi ascoltare, introducendo tecniche di resistenza civile comuni tra i diversi paesi, moltiplicando il fenomeno in modo sistemico in tutta l’area.
Proteste, manifestazioni, cortei, scioperi e atti estremi simbolici furono i duri colpi inflitti dai giovani alle élite autocratiche. Ciò che, però, i governi non si aspettarono fu l’uso massiccio di Internet e delle reti indipendenti. Per la prima volta nella storia recente, le manifestazioni si organizzarono sui social network come Twitter e Facebook. I manifestanti li utilizzavano per organizzarsi, diffondere eventi e obiettivi comuni, e anche per comunicare informazioni importanti. Molti accademici sostengono come il ruolo dei social network fu cruciale per la riuscita delle proteste, perché la televisione e i media tradizionali erano fortemente controllati dallo Stato e soggetti a forti censure. Fino a quel momento, l’informazione era stata monopolizzata dalle televisioni di Stato, le quali diffondevano notizie e dati a favore dei regimi. I nuovi media e Internet, invece, furono un medium efficace sia per quanto riguarda l’organizzazione pratica delle manifestazioni, che per la formazione di un’opinione critica e indipendente. Durante i movimenti del 2011, le TV satellitari diventarono sempre più popolari, portando una pluralità di informazioni e punti di vista mai visti in precedenza. Sia i social network che l’allargamento dei media tradizionali fecero sì che l’organizzazione di manifestazioni e la diffusione di informazioni fossero più semplici, rapide e immediate.
I giovani arabi decisero di mettere fine ai soprusi portati avanti quotidianamente sia dalla polizia (come nel caso di Bouazizi), sia della politica ai livelli istituzionali. Decisero che erano finiti gli anni delle umiliazioni, dei sacrifici senza ottenere risultati e della frustrazione. Non vollero più subire le conseguenze di anni di governi autocratici, i quali sopprimevano qualsiasi tipo di diritto umano, non incentivando il progresso, ma solo disuguaglianza. La situazione era per molti – troppi – diventata insostenibile e decisero di farsi sentire. La Primavera Araba fu quindi possibile proprio grazie ai giovani.
Ma cosa è successo esattamente durante le proteste? Dopo il suicidio di Mohamed Bouazizi nel 2010, il movimento si diffuse velocemente per il resto del paese e arriva nella capitale, Tunisi. Qui iniziarono a manifestare, come spiegato prima, soprattutto studenti, laureati, giovani disoccupati: protestarono, vennero picchiati dalla polizia, ma non si fermarono. Il presidente Zine El-Abidine Ben Ali – salito al potere nel 1987 a seguito di un golpe – fece un discorso in TV promettendo libertà di stampa. I giovani non si fermarono con le proteste, non volevano promesse fatte da politici autocratici, volevano i fatti. Il 14 gennaio 2011, solamente un mese dopo l’inizio delle proteste, Ben Ali scappò a Jeddah in Arabia Saudita, dove vi rimase fino alla sua morte.
Il culmine delle proteste in Egitto fu tra il 25 gennaio e l’11 febbraio 2011, passando alla storia come la “rivoluzione del Nilo”. I moti egiziani partirono dagli stessi presupposti di quelli tunisini e si concentrarono al Cairo. Come in Tunisia, anche in Egitto numerosi uomini si diedero fuoco, seguendo l’esempio di Bouazizi. Qualche giorno dopo l’inizio delle proteste, il presidente Hosni Mubarak licenziò l’esecutivo e nominò ʿUmar Sulaymān (ex capo dei servizi segreti egiziani) come suo vice. A inizio febbraio fu proprio Sulaymān ad annunciare le dimissioni del presidente Mubarak, mentre le manifestazioni infuocavano in tutto il paese. Di conseguenza, l’Egitto fu lasciato in mano ad un governo ad interim (una giunta militare, sostanzialmente) fino alle elezioni presidenziali del 2012, vinte da Mohamed Morsi (supportato dai Fratelli Musulmani). La presidenza di Morsi fu però interrotta da un colpo di stato portato avanti dall’attuale presidente Abdel Fattah al-Sisi.
In Libia, le manifestazioni iniziarono a febbraio 2011, a Bengasi, contro l’arresto arbitrario di un attivista per i diritti umani. Le proteste si diffusero in maniera capillare per tutto il paese contro il regime dittatoriale di Mu’ammar Gheddafi, il quale era al potere dal 1969. In tutto il paese, ma soprattutto nella città di Bengasi, si registrarono dure violenze da parte della polizia, definite dai ribelli (e non solo) delle vere e proprie esecuzioni di massa (molte di esse rimaste impunite secondo Amnesty International). Con la diffusione delle proteste anche nella capitale Tripoli, le milizie iniziarono ad usare anche raid dell’aviazione sui manifestanti. Nell’ottobre del 2011, Gheddafi venne catturato e ucciso a Sirte e il suo cadavere sepolto nel deserto vicino alla città di Misurata.
In Yemen, le rivolte si svilupparono tra gennaio e febbraio del 2011 contro il presidente ʿAlī ʿAbd Allāh Ṣāleḥ, al potere da 33 anni. I giovani yemeniti si ribellarono non solo contro la dittatura di Saleh, ma anche contro la dilagante povertà. Le manifestazioni si inserirono in un contesto più particolare rispetto a quello dei paesi Nordafricani, poiché vi era già in atto un conflitto interno tra lo Stato e le milizie di al-Qaeda da un lato, e dall’altro le milizie sciite zaidite Houthi (finanziate dall’Iran). A seguito dell’intensità violenta delle rivolte, Saleh lasciò il ruolo di presidente nel febbraio 2012 e fu ucciso in seguito nel 2017 da un cecchino (atto rivendicato dai ribelli Houthi).
Nonostante le dimissioni dei capi di Stato di Libia, Tunisia, Egitto e Yemen, la situazione nell’area MENA non è poi effettivamente migliorata, sebbene l’unico dei paesi ad aver visto un leggero processo di democratizzazione è stata la Tunisia. Negli altri Stati si è caduti in guerre civili, oppure in ricostruzioni di Stati all’apparenza democratici, ma, nel concreto, molto simili alle autocrazie precedenti.
Secondo l’ONG Freedom House – che ogni anno analizza lo stato delle democrazie, libertà politiche e diritti civili – nel 2023, tra i paesi protagonisti della Primavera Araba, solo la Tunisia è considerabile “parzialmente libera” (quindi, una semi-democrazia). La stessa ONG ha anche analizzato lo status di libertà di Internet: in Tunisia e in Libia è parzialmente libero, mentre in Egitto è considerato non libero.
In conclusione, la Primavera Araba è stata possibile grazie alle grida dei giovani, che, a differenza delle generazioni precedenti, non vedevano i loro sforzi minimamente ripagati. L’efficacia del gesto di Bouazizi non fu il gesto in sé, ma il fatto che lui impersonificava una grandissima fetta della popolazione dell’area MENA, la quale ha deciso di organizzarsi e scendere per le strade, facendo sentire la propria voce. A distanza di quasi 15 anni, non possiamo dire che ci sia stato un cambio radicale nelle istituzioni, ma non possiamo neanche dimenticare e minimizzare la portata delle proteste portate avanti con coraggio e determinazione dai giovani arabi in nome della democrazia e della libertà.