Femminismo da tastiera
Autodefinizione: dalle madri alle figlie
Sono nata nel 1998 e, che mi piaccia o no, faccio parte della Generazione Z. Da circa 2-3 anni, mi definisco con consapevolezza femminista. Parlo di consapevolezza in quanto necessaria – ma non sufficiente – per autodefinirmi. Per poter arrivare ad usare questa etichetta in modo quantomeno “degno”, infatti, ho dovuto leggere, studiare, assimilare, “ruminare” e comprendere che cosa significhi femminismo, quali siano i suoi cardini, i suoi ambiti di ricerca, i suoi metodi. I suoi metodi, sì, perché spesso, soprattutto i detrattori, dimenticano che il femminismo non sia solo un movimento nato, sviluppatosi e consolidatosi come tale, ma che, a partire dagli anni Ottanta, con l’avvento in ambito accademico dei Woman’s Gender Studies, sia stato definito come uno dei possibili approcci critici della società, della cultura e dei suoi prodotti.
Fin dalla mia infanzia, sono stata femminista: una bambina che si batteva per il rispetto e la valorizzazione della diversità, per la collaborazione e la parità tra “femmine e maschi”, che, nel suo piccolo, decostruiva gli stereotipi di genere giocando in modo assolutamente paritario con pentolini e martelli. Ha aiutato soprattutto una madre compartecipe, che la vestiva di ogni colore e non necessariamente di rosa, che le ha insegnato ad usare con naturalezza il termine mestruazioni e non quelle patetiche perifrasi icastiche come “la zia di Forlì”. Mia madre, a sua volta figlia delle lotte operaie del padre e del femminismo settantottino (anno di tre leggi fondamentali, la 180, ovvero legge Basaglia per la chiusura dei manicomi, la 194 per l’interruzione volontaria di gravidanza, e la 833, istituzione del Servizio Sanitario Nazionale pubblico e universale), ha solo spianato il terreno e gettato un semino, che sarebbe poi diventato una gemma, per la mia “educazione” prima, riflessione e militanza poi. Tutto questo avveniva in un lasso di tempo singolare: parallelamente alla terza ondata femminista, quella che ha avuto il suo sviluppo proprio a partire dagli anni Novanta, un’ondata che ha raccolto i successi della seconda, i diritti conquistati e che, all’insegna di un nuovo approccio intersezionale, ha iniziato un dialogo nuovo con altre esperienze sociali e politiche, in particolare il femminismo queer della comunità LGBTQ+ e quello delle figlie del post-colonialismo.
Nel 2010 sono entrata ufficialmente nell’adolescenza e il mondo intorno a me ha iniziato a cambiare. Il mio femminismo è iniziato in quella data (anno delle mobilitazioni in tutta Italia, iniziate a Roma, a seguito del noto “Scandalo Ruby” che vide coinvolto il fu Silvio). O meglio, il femminismo della mia generazione, perché, e vi spiegherò il perché, il femminismo della quarta ondata non lo percepisco come mio e non riesco a riconoscermi al suo interno.
Femminismo mediatico: #feminism
Con la mente torno agli anni della mia adolescenza, e penso alla mia educazione femminista. C’è stato un anno zero, per quanto mi riguarda, ovvero il pre-Virginia Woolf e il post-Virginia Woolf. Alla lettura di Una stanza tutta per sé non arrivavo completamente a digiuno. Sapevo già qualcosa del femminismo e delle sue battaglie, nozioni che avevo acquisito con la lettura di qualche post della pagina facebook di Freeda, uno spazio digitale che diffondeva pillole di femminismo sotto forma di post colorati con grafiche accattivanti in grado di rimanere a lungo impresse, o con l’ascolto di qualche puntata del podcast Senza rossetto di Giulia Cuter e Giulia Perona, o leggendo gli articoli del loro omonimo blog . Avevo, quindi, l’illusione di sapere già molto ma, nel momento in cui mi sono immersa dentro il pensiero di Woolf, mi sono resa conto non solo di sapere poco e nulla, ma di avere anche una visione superficiale ed erronea del femminismo. Quello in cui ci troviamo immerse ed immersi oggi è un movimento nuovo, direi quasi fluido e in via di definizione, che vede la sua diffusione ed imposizione in modo pressoché mediatico. Lo slogan stesso di Freeda ne è la dimostrazione: “Una realtà 100% social con articoli e contenuti rivolti a donne tra i 18 e i 34 anni progettati per essere fruiti direttamente come Instant Articles”.
Ho preso come esempio Freeda perché, quando eravamo adolescenti noi, quello c’era ed era uno spazio appena nato, ma oggi gli spazi digitali dove fruire del femminismo mediatico e le personalità di spicco del movimento sono molti e molte di più: alcuni ben costruiti e ben informati, altri con enormi problemi strutturali. Roba da donne, thePeriod, NarrAzioni Differenti, Tlon, My Secret Case, nomi come Jennifer Guerra, Carlotta Vagnoli, Francesco Cicconetti, Giulia Zollino, Valeria Fonte, il podcast di Francesca Michielin, Maschiacci, o quello di Miss_Conosciute, sono spazi e nomi di chi fa divulgazione femminista, occupandosi di tematiche specifiche, coerenti e parallele con tematiche di interesse contemporaneo, e lo fanno in modo mainstream, pop, social, appunto mediatico. Sicuramente, in tutti i nomi da me riportati ci sono delle tematiche ricorrenti, ad esempio la questione sulla body positivity, che va dal rispetto del proprio corpo e alla lotta perché esso venga rispettato anche nel mercato e mondo della moda, o il dichiarare il proprio posizionamento attraverso gesti di rottura. Penso, ad esempio, alla riabilitazione del movimento No Bra, o al decidere di non radersi o usare prodotti per la cura del corpo perché visti come strumento di controllo e oppressione maschile del corpo femminile o di chi si identifica come tale. Oppure una crescente attenzione per l’inclusività di ogni esperienza di vita, o una maggiore informazione per tutte le tematiche riguardanti il genere, la fluidità e l’orientamento sessuale e di genere, così come la missione di sdoganare i tabù, ancora così radicati, sulla sessualità, da quello mestruale (che, soprattutto negli ultimi anni, sembra andare a braccetto con le lotte ambientaliste, ed ecco che quindi si parla di ecofemminismo) a quello relativo alla sfera del piacere sessuale femminile, dalla costruzione di un dialogo col proprio partner alla narrazione più naturale e quotidiana della masturbazione femminile. Poi sì, c’è anche la narrazione sui femminicidi, sulla pornografia del dolore nella narrazione di essi, sulla disparità salariale, sull’aborto continuamente minacciato, sulla lotta al patriarcato e su una subdola – e neanche troppo lenta – sparizione delle donne dallo spazio pubblico e sociale, ma l’interesse è rivolto soprattutto alle prime, di tematiche.
Femminismo mediatico = femminismo liberale
Ci tengo a fare una precisazione. Ritengo le tematiche del femminismo mediatico importanti, soprattutto alla luce dei recenti cambiamenti – soprattutto politici – dove avverto sempre più presente il revival del Ventennio. L’aspetto su cui mi focalizzo è che, definire la divulgazione di queste tematiche femminismo, a mio parere, è erroneo. Potrei definirmi quasi una “femminista radicale”: pertanto, per me, queste tematiche dovrebbero essere non il focus, bensì un aspetto importante del dibattito femminista. Nei dibattiti contemporanei, quando sento parlare di corpo, di identità, di spazio situato, raramente sento parlare di lotta, di movimento, di classe. Onestamente, ciò non mi sorprende più di tanto, è assolutamente coerente con i cambiamenti sociali in atto da quando hanno fatto la loro comparsa e si sono imposti i social. Non sto dicendo che i social siano la causa di tutti i mali: per come oggi è strutturata la società, per quanto sia imperniata sulla globalizzazione, questi mezzi ci permettono di poterci informare più rapidamente e scambiare opinioni con il prossimo, ma, anche dietro a questi semplici due aspetti, è evidente un bias di fondo in grado di fornire una spiegazione al perché il femminismo mediatico sia ben altra cosa dal femminismo. I social creano individualità, forgiano personalità di spicco in grado di imporsi e imporre un pensiero unico, esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere il femminismo, nato come esigenza di condivisione di esperienze diverse volte ad evidenziare un pensiero comune, ovvero una palese oppressione maschile, patriarcale, sui corpi e gli spazi delle donne. Almeno, quello della seconda ondata è nato contemporaneamente ai moti studenteschi e alle lotte operaie proprio perché, in generale, si è sentito il bisogno di decostruzione un sistema repressivo, classista e sessista.
Spesso si dice che, oggi, il femminismo sia divisivo. Purtroppo è vero, in quanto non è abbastanza coeso se non in fortunati ambienti, come i collettivi o i laboratori di studio, nei quali ancora sopravvive la logica dell’auto coscienza e del self-help, spazi dove la rete delle donne e la sorellanza è forte, in quanto concepisce il femminismo come pratica di condivisione volta ad una causa comune, ossia i diritti delle donne, in grado di oltrepassare i limiti ideologici, politici, religiosi, razziali. I social questo non lo permettono, anzi, generano proprio un certo individualismo costituito da singoli punti di vista che si spacciano per self-made woman/men che, dietro una pseudo causa femminista, in realtà coltivano la propria autocelebrazione tramite strategie di marketing come il pinkwashing, ovvero «il promuovere un prodotto o un ente attraverso un apparente atteggiamento di apertura nei confronti dell’emancipazione femminile».
Un po’ come succede a giugno, che per il mese del Pride i negozi si riempiono di prodotti arcobaleno, o la schiera di nuove e nuovi femministe/i che, nelle loro stories instagram, di tanto in tanto, spacciano codici sconto da spendere in prodotti di cura personale o sex toys. Ovviamente ciò è frutto di un modello estremamente liberista capitalista (il principio per cui, negli anni Ottanta, ha avuto tanto successo la moda), che non vale solo per il femminismo, ma un po’ per tutto. Ciò avviene perché chi parla lo fa da una condizione privilegiata, rivolgendosi ad un uditorio altrettanto privilegiato: il solo fatto di avere uno smartphone, se ci pensiamo bene, è e genera una condizione di privilegio. Vi faccio un paio di esempi, uno teorico e uno pratico.
Effetti “collaterali”
Lo scorso Sanremo si è verificata quella che potremmo definire l’apoteosi del femminismo mediatico: da Chiara Ferragni che è venuta ad impartirci una lezione di emancipazionismo, convincendoci che “sì, si può portare facilmente avanti vita lavorativa e vita privata”, o Paola Egonu che, all’insegna di una buona dose di populismo, è venuta a declamare il tanto atteso monologo sul razzismo e sulla discriminazione. È evidente come il problema, qui, sia la credibilità, perché, a parlarci, non sono donne comuni. ma donne privilegiate, una come la millennials che ce l’ha fatta, che ha sfondato nel suo campo diventando, come stima Forbes, una delle imprenditrici della moda più influenti del mondo, l’altra come ragazza che vanta l’essere la migliore pallavolista della Gen Z.
Inoltre, negli ultimi anni, sulla scia delle proteste di Ultima Generazione e sulla maggiore consapevolezza della mia generazione in merito alle tematiche ambientaliste, c’è stata un’esplosione di interesse a proposito dei dispositivi mestruali più ecosostenibili: così, da che le mestruazioni erano un tabù, ora, ovunque si “scrolli” sui social, compaiono pagine o inserzioni su coppette mestruali, mutandine mestruali, assorbenti lavabili. Ad oggi, questa tipologia di dispositivi risulta ancora proibitiva (per quanto il possibile acquisto possa essere un investimento a lungo termine, il semplice prezzo medio di un paio di mutandine mestruali, ad esempio, oscilla tra i 20 e i 30€), risultando quindi prodotti “di classe”. A prescindere dal buon intento, io mi preoccuperei più concretamente dei più comuni assorbenti classici che, nonostante la tampon tax del 2022, risultano ancora troppo spesso una spesa gravosa da sostenere per una famiglia/donna media.
In definitiva, da questi semplici esempi, ciò che si può dire di questo “femminismo” è il suo essere un femminismo di parole e ben pochi fatti, in quanto le parole, come ci insegnano i latini nel panem et circenses, distolgono l’attenzione da fatti gravi o importanti.
Mentre noi parliamo – spesso senza agire o trovare reali soluzioni ai problemi – probabilmente, in qualche parte del mondo o d’Italia, l’ennesima donna è stata vittima di femminicidio (dal 1° giugno, data in cui è iniziata la narrazione tossica sull’uccisione di Giulia Tramontano, si hanno certificate altre quattro vittime, per un totale di 39 donne vittime di femminicidi dall’inizio del 2023).
Mentre noi parliamo, il diritto all’aborto viene continuamente attentato: basti pensare a come, da quando si sia insediato questo nuovo governo, le proposte di legge siano volte a svuotare la legge 194 dall’interno (l’ultima proposta è arrivata lo scorso gennaio da FdI e punta a dare capacità giuridica al feto all’insegna dellì’art. 1 del codice civile1), o al ribaltamento, nel 2022, della sentenza Roe vs Wade del 1973, che sanciva il diritto costituzionale all’aborto negli Stati Uniti, in 13 Stati2.
In conclusione…
Lo scenario è tragico in quanto, con l’intento di lavorare per il raggiungimento di nuovi diritti si rischia, da un lato, di perdere i diritti già conquistati, dall’altro di escludere qualcuna, qualcuno. C’è una soluzione a questa situazione? Sì, si chiama coscienza critica. So che ha un melenso sapore gramsciano, ma perché le cose cambino non possono rimanere “così come sono”, anche se Tomasi Di Lampedusa sosteneva il contrario. La coscienza, in questo specifico caso quella femminista, deve essere riabilitata e alla svelta, ovvero tirata fuori dai social e riportata sulle strade, nei cortei, nei sottoscala, per rimettere in moto lo stato di agitazione permanente, il fronte comune di cui parlavo prima, per tornare così a quel “femminismo per il 99%”, che «abbraccia la lotta di classe e combatte contro il razzismo istituzionale, che trova il proprio centro negli interessi delle donne lavoratrici di ogni tipo […]»3. Perché il femminismo per il 99% è di e per tutte e tutti.
Note
- https://www.repubblica.it/politica/2023/01/18/news/fdi_proposta_concepimento_aborto_194-384170584/
- https://www.adnkronos.com/aborto-usa-roe-vs-wade-cosa-dice-sentenza-cancellata-da-corte-suprema_6gBTtOqJXXI4VWkohuLbPQ
- Femminismo per il 99%. Un manifesto, Arruzza, C., Bhattacharya, T., Fraser, N., p. 17, trad. di A. Prunetti, Laterza, 2019
Giovani d’oggi
Editoriale · L’Eclisse
Anno 3 · N° 3 · Giugno 2023
Copertina di Maria Traversa.
Hanno partecipato alla realizzazione di questo editoriale: Greta Beluffi, Bianca Beretta, Ludovica Borelli, Matteo Capra, Michele Carenini, Ginevra Cesati, Anna Cosentini, Joanna Dema, Clara Femia, Eugenia Gandini, Marta Gatti, Chiara Gianfreda, Nikolin Lasku, Rosamaria Losito, Matteo Mallia, Erica Marchetti, Laura Maroccia, Marcello Monti, Valentina Oger, Alessandro Orlandi, Erika Pagliarini, Matteo Paguri, Luca Ruffini, Arianna Savelli, Tommaso Strada, Vittoria Tosatto, Marta Tucci, Marta Urriani.