All’alba dei tempi, quando l’uomo era scimmia e la terra un ignoto incontaminato, il sole, l’erba, gli alberi e i giorni erano versi accennati, e tutto ciò che popolava il piccolo pianeta non erano che suoni affamati e spaventati. Era la terra del “auegh” attraversata dagli “uuhgg” figli di “uuuuhm” a caccia dei “eeaaammh”. Era il pianeta dell’istinto, della sopravvivenza, sfocato perché altrettanto indistinti erano i suoni e le parole che riecheggiavano tra le vallate fumose o gli abissi restii alla luce. Poi, d’un tratto, si sentii per tutto il piccolo sassolino cosmico un verso differente: “azzurro”. Allora la luce squarciò le nubi grigiastre, illuminò le vallate verde smeraldo, i mari cristallini, i candidi picchi alpini, per svelare un cielo color dei lapislazzuli, celeste: un cielo “azzurro”.
In questo breve cappello introduttivo un po’ favolistico, a tratti biblico, un pizzico calviniano e di sicuro mitico, ho cercato di porre e risolvere un quesito: cos’è e a cosa serve una lingua? Credo che, per rispondere a questa domanda, ci si debba porre, innanzitutto, un ulteriore quesito: quanto siamo immersi nella realtà che percepiamo esterna, fattuale? Quanto dell’Io è immerso nel Noi? Una lingua, che sia scritta o parlata o trasmessa attraverso un universo simbolico o, ancora, visivo, viene utilizzata, da millenni oramai, per registrare la realtà, ma questa è agganciata inevitabilmente a colui che la coglie, contaminandola con un punto di vista puramente visivo, ma anche, e soprattutto, culturale. Attraverso i millenni la realtà che ci circonda si è modificata drasticamente, e non solo perché le gole delle montagne sono diventate dighe che alimentano turbine o perché i campanili sono diventati grattacieli, ma soprattutto perché si sono trasformati gli intenti con cui guardiamo il mondo che ci sta intorno. Il bosco non è più fonte di sostentamento e paura dell’ignoto ma area verde a rischio per la preservazione della flora e della fauna, e la terra oltre quella collina non è un possibile terreno sconosciuto dove recarsi per non morire di fame, ma Capdenac, una cittadina francese nota perché vista su ogni video del tikToker con cui interagiamo quotidianamente. La realtà muta forma, cambia aspetto a seconda di come ci poniamo verso di essa, e di conseguenza il linguaggio. Se all’alba dell’umanità si parlava di “fame”, “paura”, “fuoco”, “animale” era perché, questi, erano i campi d’interesse che investivano quel magma confuso quale è il mondo che ci circonda. Certo, se l’uomo moderno avesse la capacità di viaggiare nel tempo e potesse catapultarsi nelle grotte di Lascaux, sarebbero esistiti i cumulonembi, i nembostrati e i cirri come le foci a delta e a emissario, ma queste non sono parole che fuoriuscivano dalla bocca del tempo perché semplicemente non esistevano per gli occhi. Interesse, cultura e dinamiche sociali plasmano il punto di vista sulla realtà che ci circonda e, di conseguenza, plasmano il linguaggio che leggiamo, parliamo o scriviamo. E come i primi uomini cercarono di registrare la loro realtà attraverso il loro linguaggio, un linguaggio abbozzato, fatto di simboli e disegni, di prede e cacciatori su una parete rocciosa illuminata da un falò, oggi facciamo lo stesso: la pagina la parete rocciosa, la parola scritta la moderna pittura murale e il dizionario la nostra caverna, archivio della nostra lingua e specchio della nostra realtà.
«Non si può discendere due volte nel medesimo fiume»1
disse Eraclito e, se pensiamo alla vita che hanno vissuto i nostri nonni o addirittura i nostri genitori, alle scoperte scientifiche, tecnologiche, ai cambiamenti sociali e culturali notabili col passare delle generazioni, credo sia necessario ammettere come viviamo in un mondo nuovo: il fiume del tempo è scorso e noi non possiamo che essere immersi in un’acqua fresca di sorgente. Un mondo ridefinito, rivisto e, per certi versi, rimodellato dalla globalizzazione e dall’era digitale, dei social, dello smartworking o, per citare un avvenimento recente, dalla pandemia. E allora perché la nostra lingua non dovrebbe cambiare di pari passo col mondo e le sue rivoluzioni? Questo il quesito che si pongono Valeria della Valle e Giuseppe Patota e- che porta al concepimento del nuovo vocabolario Treccani.
Presentato al Salone del Libro di Torino, l’ultima edizione del vocabolario Treccani comprende, nel titolo, l’aggettivo nuovo non esclusivamente in quanto ultimo in ordine cronologico di pubblicazione, ma perché infuso di uno spirito di innovazione e rottura con una tradizione dizionaristica e lessicografica che, dai tempi dell’Accademia della Crusca, ingabbiava e cristallizzava la lingua accademico-”ufficiale”. Infatti, se abbiamo sottolineato lo stretto legame tra lingua e panorama sociale cui questa riflette, nei secoli si riscontra un sempre maggiore divario tra un linguaggio ufficioso, fatto di neologismi, inglesismi, slang, termini giovanili e provenienti dalle sotto e controculture, che affastella la lingua parlata e, in parte, la lingua scritta di quotidiani e periodici, e un linguaggio ufficiale, alto, da utilizzare in documenti burocratici, articoli scientifici e quant’altro, e che si epura della carne viva linguistica per utilizzare l’osso duro e fossilizzato. Il processo descritto viene poi appoggiato da una serie di vocabolari che, nel corso della storia della lingua italiana, forniscono ufficialità ad una forma linguistica arcaica, attempata, che ha poco o nulla a che fare con la lingua del tempo. Il progetto in questione ha, allora, come obiettivo quello di ribaltare questo meccanismo, riportando il dizionario alla sua funzione di registratore della modernità a partire da un processo di democratizzazione, riscontrato negli anni in cui viviamo, di stampo femminista, interclassista e socialista. Cosa vuol dire? I curatori sottolineano come si senta la necessità di un linguaggio che vada a spianare le diversità di genere, etnia, classe o religione: questo giustifica uno dei cambiamenti più significativi apportati, ovvero la specificazione del lemma nelle sue declinazioni maschile e femminile riportate in ordine alfabetico. La scelta dell’ordine alfabetico, per quanto possa in prima battuta spaesare il fruitore, abbatte ogni gerarchia linguistica fondata sul genere e apre le porte a una parità linguistica. Non si deve tuttavia pensare che, come in alcuni fatti di cronaca all’attenzione di tutti, questo sia un prodotto del politically correct e, dunque, dell’epurazione: se c’è stato un impegno improntato alla guerra alle discriminazioni linguistiche questo si basa sull’informazione e non sulla censura o la cancellazione. Termini offensivi o misogini o omofobi o razzisti sono dunque presenti ma è anche presente una spiegazione del perché il termine risulta ingiurioso, corredato di esempi d’uso e derivazione storico-linguistica del termine.
Infine, oltre ad essere stati aggiunti una serie di termini, in particolare lemmi tecnico-scientifici derivanti dal periodo epidemiologico, si è reso necessario un lavoro di individuazione ed eliminazione di termini ereditati di vocabolario in vocabolario ma quasi mai utilizzati nella lingua parlata e scritta. Termini puri esistenti unicamente su carta accademica e che, nessuno o quasi aveva, nel corso di cinquecento anni, sporcato col fango dell’uso comune.
Ci tengo a sottolineare, e con questo mi appresto a chiudere la mia breve riflessione, che è pur sempre vero che un dizionario sia uno sguardo sul mondo e, dunque, l’occhio sia di un osservatore, di un’Io. La particolarità dello sguardo preclude l’asetticità che più e più volte si cerca di associare al vocabolario rendendo, in maniera variabile, condivisibili i presupposti e le constatazioni registrate dall’occhio dei due curatori. Si deve tenere conto di ciò in quanto, nonostante per Noi alcuni presupposti possano essere dati di fatto, per un Voi queste potrebbero risultare solo prese di posizione, assunti ideologici o sogni utopici. Credo, allora, l’autorialità di quest’opera abbia voluto registrare una tendenza, più o meno costante nel corso del secolo scorso, e, con un assunto di stampo positivista, ci si sia voluti porre al termine dell’arcobaleno, forti di una visione progressiva della storia. Condivisibile o meno, questa spinta ideologica nasconde una pulsione, una trazione verso un qualcosa di desiderato, una speranza. Il dizionario allora si posiziona a un crocevia tra quello che è e quello che forse sarà, tra il mondo che c’è e il mondo che si vorrebbe ci fosse: è una grotta di Lascaux dove, in un angolino, qualcuno, un sognatore aveva disegnato un recinto e dentro al recinto degli animali così che la parola “fame” potesse essere legata ad un’altra: “allevamento”.
Note
- Citazione proveniente dal frammento 91 contenuto nell’opera filologica Die Fragmente der Vorsokratiker (I Frammenti dei Presocratici) di Hermann Diels e Walther Kranz.
Titolo
Matteo Paguri, 10 settembre 1998. Vergine ma, ve ne prego, non chiedetemi l’ascendente perché non me lo ricordo: già troppe volte l’ho “calcolato”, “cercato” e già troppe volte me lo sono scordato. Profondo amante dell’astrologia, come si può dedurre. In realtà non amo troppo descrivermi, quindi che dire? Studio l’arte del cinema all’Università di Padova: in particolare frequento il corso di Scienze dello Spettacolo e Produzione Multimediale. Laureato al DAMS di Bologna, il motto della mia vita è “sarà quel che sarà”.