Una fantastoria in una cittadina desertica e immaginaria nell’America del 1955, che allude alle varie Area 51 e Los Alamos di Oppenheimer: è questa l’ambientazione dell’ultimo film di Wes Anderson, che si configura come un raffinato pastiche estetico, narrativo e metanarrativo. Sono celeberrimi il passatismo e la belatedness che scorrono nelle vene di tutta l’opera del regista. Il primo consiste nell’affetto nostalgico che Anderson dimostra per gli usi, i costumi e gli oggetti dell’America nell’epoca che segue la Seconda Guerra Mondiale e precede l’era Reagan, idealizzata e costantemente rievocata. La seconda, più sottile, è come un velo malinconico che si posa su ogni sua pellicola, coincidendo con la consapevolezza di essere nato nell’epoca sbagliata, un po’ troppo tardi.
Entrambe le caratteristiche hanno fatto del regista uno dei punti di riferimento della cultura hipster, resuscitata e diffusasi anche grazie all’estetica Andersoniana, che, anche in questo film, non mancano e coinvolgono anche i generi in gioco. Western, fantascienza e Broadway sono le tre anime di Asteroid City, ma i confini tra di esse sono labili: la maestria di Wes Anderson sta proprio nel dinamismo con cui fonde queste atmosfere narrative, per poi procedere con la sua riflessione metanarrativa sul significato di linguaggi come il cinema, il teatro e la fotografia.
Fin da subito, la pellicola si presenta come un racconto nel racconto: l’inizio in bianco e nero ci annuncia che assisteremo a un documentario sulla genesi e l’allestimento teatrale dell’opera Asteroid City, ideata dallo scrittore Conrad Earp, e ambientata in una città immaginaria del deserto. Sarà questa distinzione tra bianco/nero e colore che ci permetterà di non confondere i due piani narrativi: una trovata molto elegante, vista anche l’estrema bellezza della scala di grigi utilizzata, che non sfigura affatto accanto alle classiche tonalità pastello.
Per il Junior Stargazer, un concorso scientifico per giovani brillanti menti, si radunano ad Asteroid City i ragazzini che verranno premiati, con i loro genitori e le loro famiglie. Il colpo di scena, necessario in ogni storia che si rispetti, è l’apparizione, per ben due volte, di un alieno: la prima per raccogliere il meteorite esposto al concorso e che ha, tempo addietro, formato il cratere presente in città; la seconda per restituirlo catalogato (un particolare che io reputo fortemente autoironico, vista la spiccata vocazione museale e inventariatrice del regista).
I temi affrontati sono molteplici, ma soffermiamoci sui principali. Innanzitutto, c’è la perdita, ossia il lutto: Augie Steenbeck, fotografo di guerra, arriva alla cittadina con le sue tre bambine e il figlio maggiore Woodrow, che il padre sta accompagnando per ricevere il premio. Sarà ad Asteroid City che il padre confesserà ai figli che la madre, da tempo assente, è in realtà morta. Anderson sviluppa il tema in maniera assai acuta e sensibile, dando dimostrazione di conoscere e apprezzare il pensiero magico entro cui opera la mente dei bambini, che proietta sugli oggetti, anche inanimati, emozioni, volontà e pensieri. Una sorta di animismo che li aiuta a proteggersi dall’ansia e dalla paura ma anche a conoscere il mondo, di dare un senso agli eventi di cui non capiscono il significato. Così i bambini possono trovarsi a cucinare usando foglie, legnetti e pietre o, come nel caso del film, a operare riti con le ceneri della loro madre.
C’è poi l’amore che sboccia tra Woodrow e Dinah, e che, invece, stenta a sbocciare tra i loro genitori, Midge e Augie: come se un certo tipo di connessione, più immediata e caratterizzata da un romanticismo idealizzante, fosse impossibile tra i due adulti, entrambi piuttosto cinici e giunti alla consapevolezza che si è soli nella vita, seppur con il bisogno sempre presente di essere toccati dagli altri.
E poi ancora una certa malinconia, dai tratti anche ironici, verso un’America che non c’è più (e, forse, mai esistita), che un po’ assomiglia all’Italia di oggi, dove l’inconsapevolezza della propria condizione ancora permette una sincera goffaggine, e dove la malizia è subito smascherata dal sentimento del grottesco.
Il film mi è piaciuto assai, soprattutto per un dettaglio in particolare, che, però, è anche una prova di poetica importante: tutti i personaggi sono delle isole, delle monadi che non fanno il minimo cenno a spostarsi per incontrare l’altro. Non c’è people-pleasing, ovvero non ci sono azioni fatte per soddisfare le aspettative degli altri. L’affetto, l’amore e l’empatia possono anche avvenire oppure no, non è rilevante.
In questo senso, sono personaggi sovrumani quelli di Wes Anderson, incredibilmente consci della loro identità e incredibilmente aderenti a se stessi. E il regista, a mio avviso, è conscio che questa condotta sia impossibile una volta che le persone sono calate nel mondo reale, perciò utilizza la funzione narrativa del personaggio per dimostrare cos’è la libertà. Anderson costruisce personaggi che sono una sorta di modello a cui aspirare per nessuna capacità, se non quella di essere se stessi. Così, un padre come Steenbeck può permettersi di confessare ai figli che è suo desiderio abbandonarli; una madre come Midge può parlare apertamente con la figlia adolescente dei suoi incontri sessuali; le sorelle di Woodrow possono giocare a fare le streghe con le ceneri della madre per resuscitarla (scriverebbe qualcun altro per elaborare il lutto, ma questa è una definizione terribilmente religiosa e sociale per questo film).
I comportamenti di tutti varcano le colonne d’Ercole della norma, del socialmente accettabile, del sano, e prendono il volo verso il vero, l’istintivo, l’intuitivo e il sentito puro. Non è un caso, quindi, che, nelle ultime porzioni di bianco e nero, l’autore della pièce teatrale si trovi in una scuola di recitazione e parli ai futuri attori di come varcare la soglia di coscienza e abbandonarsi all’onirico: si stabilisce un preciso nesso di funzione tra l’atto di recitare un ruolo e la libertà. Stare nel personaggio significa vivere in un’aderenza più netta tra conscio e inconscio, riducendo il proprio super-io ad un vago ricordo. Questa è proprio la lezione più importante che traggo dal film: la vita ha senso di essere vissuta solo aspirando ad una completa aderenza a se stessə. L’incontro con gli altri avverrà poi, se deve avvenire. L’amore si trova per strada, non si cerca.
O forse è possibile acquistarlo in uno dei distributori che ci aspettano all’inizio della mostra che Fondazione Prada dedica al film. La mostra include allestimenti di scena, costumi e modellini in scala di elementi della scenografia originale, che è stata interamente realizzata in grandi dimensioni e, nel corso delle riprese, disposta in modo da accogliere la troupe e ricreare delle vere giornate in una cittadina perfettamente funzionante. Il percorso espositivo rispetta fedelmente la cronologia dei fatti narrati e gli oggetti ricreano scene chiave del film, come l’arrivo della famiglia di Steenbeck, la premiazione delle invenzioni dei ragazzi geniali e la discesa dell’alieno dalla sua astronave. Un vero Eldorado per chiunque sia anche solo vagamente interessato alla creazione di mondi e alla narrazione: cartelli, staccionate, distributori automatici color pastello, copione originale, macchine da scrivere, costumi e ancora costumi , oggetti posseduti dai personaggi o di uso comune, come libri, quaderni scritti a mano, strumenti musicali, coperte, bottiglie di birra, valigie. Ci sono anche oggetti di scena come tavoli dalle tovaglie quadrettate, megafoni, una lavagna, balle di fieno e persino una cabina telefonica. C’è davvero tutto, o quasi.
Passeggiando per l’allestimento, in effetti, colpisce la meravigliosa e maniacale cura per il dettaglio: ogni ambiente e personaggio si corredano di tutti gli oggetti necessari alla loro creazione. Ogni cintura maschile è caratteristica e possiede una fibbia che si allinea all’aura di chi la possiede; il tavolo dove i bambini fanno lezione presenta, sopra la tovaglia a quadretti rossi e bianchi, i disegni e le descrizioni dei bambini riguardanti l’alieno;
il treno merci include una serie di vagoni che scatenano l’ilairtà di chiunqui osservi, incluso quello dell’ordigno nucleare che riporta la scritta “DO NOT DETONATE without presidential approval”;
e il divertimento prosegue quando le sagome raffiguranti l’alieno montate perchè gli agenti si esercitino a sparare vengono allestite a fianco al merchandising che mira a sfruttare l’indotto che l’episodio dell’atterraggio ha improvvisamente creato;
la cabina telefonica che riporta incisi nella sua struttura metallica nomi, dediche e numeri; una stanza interamente dedicata all’alieno e al meteorite che ingenuamente tiene in mano;
La Galleria si presta ad essere lo spazio ideale per un’esperienza immersiva ma anche di riflessione profonda sul rapporto tra medium come il cinema e l’esposizione museale.
Un aspetto cruciale che l’esposizione tematizza ed esplora è la trasformazione del linguaggio. Tutto ciò che componeva la lingua del film, comprese le parole che il regista ha utilizzato (se si considerano gli oggetti di scena come oggetti linguistici, e lo sono, a parer mio), viene trasposto in un contesto museale: la Galleria Nord di Fondazione Prada diventa come una tomba egizia o etrusca, che raccoglie tutto il necessario per far proseguire la vita dei personaggi del film anche dopo la fine. Come dell’ideazione di un romanziere sopravvive, a testimonianza, il suo romanzo, così nel caso di un regista rimangono tutti gli elementi fisici che sono stati utilizzati per scattare e girare. È molto chiaro Wes Anderson quando, come riportato nel comunicato stampa della mostra, dice che vorrebbe che tutti i suoi set venissero trasferiti a Fondazione Prada, vicino ad uno dei suoi cinema preferiti. Ciò che è più oscuro ma non meno importante è il messaggio, decisamente anacronistico: gli oggetti non sono ciò che siamo, ma parlano di noi, ci rappresentano. Nel suo caso, parlano delle creazioni che ha portato in vita e che spera continuino a vivere il più a lungo possibile, nel contesto di un museo. Non ci si può troppo fidare delle pellicole, né del digitale, ma nei musei c’è ancora speranza.
E c’è anche una lezione da trarre dal film e dalla mostra. C’è uno stadio in cui ci si dota di tutta una serie di oggetti per i propri bisogni elementari, ma, col passare del tempo e col soddisfacimento di questi bisogni, ogni nuova acquisizione dovrebbe essere frutto di una scelta consapevole. Al giorno d’oggi, si compra molto sulla base di bisogni che ci sono stati indotti e speranze illusorie mal riposte. Perché non c’è nessun oggetto che possa redimere qualsivoglia condizione vogliamo redimere: al più, gli oggetti possono servire, esprimere ed evocare. Prima di acquistare, raccogliere, collezionare, accettare regali e regalare – perché no, anche rubare – bisognerebbe sempre chiedersi “chi sono?”, e provare a verificare se l’oggetto desiderato è in un rapporto di comunicazione con noi e può metterci in comunicazione con gli altri. La mostra e il film portano alla luce personaggi ideali, che sono sempre in comunicazione con se stessi, la cui aderenza estetica e stilistica è così chiara, che appare come un faro di speranza per tutti.
La mostra si trova presso la Fondazione Prada di Milano (Largo Isarco, 2). Sarà possibile visitarla fino al 7 gennaio 2024.

di Nikolin Lasku
Studiavo medicina, mi sono perso e ritrovato a lettere moderne. Leggo di critica sociale da un iPhone lilla. Mi piace scrivere in stile advanced pop e ascoltare l’hyper-pop. Sono su Instagram @lsknkln