Adrian Piper, artista concettuale e filosofa analitica, nasce il 20 settembre 1948 a New York. Attualmente vive e lavora a Berlino (dove si è trasferita nel 2005), a capo dell’Adrian Piper Research Archive (APRA) Foundation Berlin. Il sito http://www.adrianpiper.com/ permette di reperire tutte le informazioni sulla vita e la carriera dell’artista-filosofa e dimostra la sua profonda attenzione verso la definizione della propria identità e radici culturali. Tantoché nel 2013, a causa della sua insoddisfazione per le numerose imprecisioni riportate sulla piattaforma, aveva contatto Wikipedia per far rimuovere la pagina a lei dedicata. Nonostante le modifiche apportate dopo la sua richiesta, Piper decise di crearne una propria versione sul suo sito. La prima sezione di questa autobiografia racchiude il tema fondamentale della sua pratica artistica, ovvero l’esplorazione della propria identità, personale e culturale, strettamente legata al concetto di “razza”: «Piper publicly identifies as an American woman of acknowledged African ancestry. Like all Americans, she is “racially” (that is, ethnically) mixed. She is 1/32 Malagasy (Madagascar), 1/32 African of unknown origin, 1/16 Igbo (Nigeria), and 1/8 East Indian (Chittagong, India [now Bangladesh]), in addition to having predominantly British and German family ancestry»1.

Proprio Race Traitor è il titolo della prima retrospettiva europea dedicata all’artista, in mostra al PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano fino al 9 giugno 2024. L’esposizione si apre con una sala che presenta i primi lavori dell’artista realizzati all’inizio degli anni Sessanta, nei quali si delineano i principali fili conduttori della sua ricerca artistica. Alcuni dipinti caratterizzati dalla presenza del termine LSD nel titolo si concentrano sul soggetto che viene frammentato attraverso forme psichedeliche e colori sgargianti: LSD Self-Portrait from the Inside Out rappresenta un diagramma di forze del quale l’artista è centro irradiatore di cui lo spettatore è chiamato a prendere parte.
Parallelamente a questo tipo di ricerca, si sviluppa una riflessione concettuale incentrata sull’elemento della griglia e sulla variazione in rapporto alla materialità della pagina e alle possibilità di suddivisione che essa offre: Drawings about Paper and Writings about Words (1967) è una serie di collage e disegni incentrata sulla scrittura, sui segni e sulle relazioni che si instaurano tra essi e il foglio, fino ad oltrepassare il limite della carta raggiungendo la tridimensionalità in opere come Recessed Square (1967) e Double Recessed (1967).
Tra il 1967 e il 1970, Piper si avvicina alle tecniche di meditazione yoga, approfondendo la sua spiritualità e riflettendo sulla propria percezione del mondo. Questo tipo di ricerca viene affrontato attraverso un nuovo mezzo, la performance, che le permette di documentare il cambiamento degli oggetti e del corpo quando sono sottoposti a cambiamenti spazio-temporali2. Concrete Infinity Documentation Piece (1970) comprende una serie di testi nei quali l’artista documenta per più di un mese ciò che le accade durante la giornata, ognuno accompagnato da un autoscatto.
L’anno seguente, nella serie di autoscatti Food for the Spirit, Piper si ritrae completamente o parzialmente nuda in una penombra che diventa progressivamente un’oscurità totale portando lo spettatore continuamente in una condizione di partecipazione e distacco rispetto all’identità dell’artista. Coerentemente con queste serie di opere, è presentata nella medesima sala una pagina della Critica della Ragion Pura di Kant, incentrata sul concetto di realtà e di negazione della realtà in relazione al concetto di tempo, con appunti dell’artista stessa: infatti, bisogna tenere sempre presente il retroterra filosofico su cui si muove Piper, laureata in filosofia e prima professoressa di ruolo afroamericana in questo campo presso la Georgetown University nel 1987.
Dalla dimensione privata della performance, svolta nell’intimità della propria casa con l’obiettivo di approfondire il rapporto del suo corpo con il tempo, lo spazio e il mutamento che queste dimensioni provocano, Piper passa progressivamente a quella pubblica. Nelle Catalysis, l’artista diventa oggetto catalizzatore delle reazioni di un pubblico inconsapevole: la donna cammina per le strade indossando abiti ricoperti di vernice con un cartello che recita “Wet Paint” (Catalysis III) oppure con un asciugamano che le penzola dalla bocca (Catalysis IV).

A destra: Catalysis III (1970).

Nel 1972, intervistata da Lucy Lippard, Piper afferma di sentire questo lavoro come completamente apolitico, tuttavia pensava che «the work is a product of me as an individual, and the fact that I am a woman surely has a lot to do with it. You know, here I am, or was, “violating my body”; I was making it public. I was turning myself into an object»3. Se il suo essere donna è tanto determinante nello sviluppo di queste performance, nel tentativo di ampliare la sua ricerca e approfondire ulteriori possibilità artistiche, Piper inventa, dal 1973, un proprio alter ego maschile: The Mythic Being [a sinistra]. L’artista indossa baffi, parrucca e occhiali da sole, e si fotografa dapprima unendo questo personaggio alla sua storia personale, poi facendolo diventare una persona caratterizzata da una propria identità: l’esposizione al PAC presenta l’intera evoluzione del personaggio, che nel 1975 arriva a pretendere di essere tutto ciò che odiamo e di cui abbiamo paura.
Tuttavia, l’analisi sulla propria identità non si limita ad un discorso riguardo il genere: tra gli anni Settanta e Ottanta, questa riflessione si lega a quella sulla discriminazione razziale. Close to Home [a destra] costringe lo spettatore ad affrontare una serie di domande riguardo eventuali relazioni con persone afroamericane, accompagnate da foto di queste nella loro quotidianità e dall’esplicita domanda “Ti senti a disagio al pensiero di esporre questo tipo di domande sulla parete del tuo salotto?”. Le domande sono banali (“Hai un collega nero sul tuo posto di lavoro?”), accompagnate talvolta da risposte multiple, eppure costringono a riflettere sulla sistematicità con cui la società in cui viviamo esclude e discrimina le minoranze, considerandole al pari di animali esotici che sembra quasi paradossale poter incontrare a lavoro.
What is like, What it is #3 è un’opera immersiva, una sala bianca, intonsa, tanto che gli spettatori devono indossare dei copriscarpa prima di entrare per evitare di sporcare l’ambiente. Le gradinate su cui è possibile sedersi richiamano le arene romane e il loro digradare concentra l’attenzione allo schermo posto al centro della sala: è proiettato un video in cui un afroamericano nega una serie di stereotipi legati alla propria identità. Il nero della sua pelle e i toni scuri del video creano un netto contrasto con l’ambiente puro e asettico in cui si muove lo spettatore, costringendolo a riflettere sui concetti di purezza e contaminazione: egli deve assistere a questa litania senza possibilità di ignorare la situazione di discriminazione a cui sono costrette le persone nere. La necessità di una presa di coscienza è il tema ricorrente della serie di opere Pretend, costituite da immagini di violenza contro persone afroamericane accompagnate dalle parole “pretend not to know”: violenza, morti e stereotipi saturano lo spazio, portando lo spettatore a perdersi in un percorso di brutalità le cui tappe sono scandite da opere quali Why guess? e Black Box / White Box.

Piper dimostra, in queste opere, l’importanza della “razza”, in quanto insieme di stereotipi che portano alla discriminazione, e di questa in relazione alla propria identità nella sua ricerca artistica. La consapevolezza di tale realtà di disillusione è espressa nella serie iniziata nel 2003, e ancora in corso, Everything: lavagne in cui è ripetuta ossessivamente la scritta “everything will be taken away”, la stessa che si ritrova sui volti cancellati dei soggetti delle fotografie che fanno parte dello stesso complesso di opere. Questo gruppo di opere rappresenta un monito verso una presa di coscienza rispetto alla transitorietà della vita e si carica di un significato ancora più profondo nel dialogo con la serie di fotografie I Am Some Body, The Body of My Friends (1992-95) che rappresenta l’artista insieme ai suoi amici più stretti. Una sorta di memento mori che costringe lo spettatore a rapportarsi direttamente alla limitatezza della propria vita oltre che all’instabilità e labilità delle convinzioni sociali a cui ci aggrappiamo.

Piper mette lo spettatore nella condizione di riflettere sulle basi della propria identità e sul modo in cui essa si costruisce spesso per opposizione rispetto a minoranze discriminate oppure per accondiscendenza verso norme sociali condivise passivamente: dubitare delle verità imposte sovvertendo un sistema implica anche il riflettere sulla transitorietà di una vita, la cui unica certezza rimane la consapevolezza che ogni cosa sarà portata via nel tentativo di riconoscere se vi sia qualcosa che possa resistere all’inevitabilità dello scorrere del tempo.
Note
- «Piper si identifica pubblicamente come una donna americana dall’ascendenza africana riconosciuta. Come tutti gli americani, è “razzialmente” (ovvero “etnicamente”) mista. È per 1/32 Malagasy (Madagascar), 1/32 africana di origini sconosciute, 1/16 Igbo (Nigeria) e 1/8 dell’India Orientale (Chittagong, India [ora Bangladesh]), oltre ad avere un lignaggio familiare predominantemente britannico e tedesco». http://www.adrianpiper.com/removed-and-reconstructed-en.wikipedia-biography.shtml
- Il tema viene affrontato in un breve e significativo video: https://adrianpiper.weebly.com/adrian-piper.html.
- «l’opera è un prodotto mio come individuo, e il fatto che sono una donna vi ha sicuramente molto a che fare. Sai, io sono qui, o ero qui, a “violare il mio corpo”; lo stavo rendendo pubblico. Mi stavo auto-convertendo in un oggetto». Lucy Lippard, Catalysis: An Interview with Adrian Piper, The Drama Review: TDR, Mar., 1972, Vol. 16, No. 1 (Mar., 1972), pp. 76-78.

di Greta Beluffi
Laureata in Lettere classiche e studentessa di Storia e Critica d’Arte a Milano: mi chiamo Greta e ho 22 anni. Vivo di arte e di Spritz ma, si sa, “mens sana in corpore sano”, e lungo i moltissimi km di corsa giornalieri amo pensare al marxismo, alla psicanalisi lacaniana e alle letture post strutturaliste delle opere d’arte, di cui spero di poter scrivere senza far storcere il naso a chi, come me, non si intende di filosofia.