È una ridente giornata estiva tra i pioppi del New Mexico. I fisici Edward Teller, Herbert York ed Emil Konopinski si incamminano per andare a pranzo a Fuller Lodge, la mensa di Los Alamos. A loro si unisce un distinto signore italiano in visita ai laboratori, Enrico Fermi. Durante il tragitto, la discussione tra i quattro si focalizza su di una vignetta umoristica recentemente apparsa sul New Yorker Magazine, che scherzosamente collega due fenomeni misteriosi che fanno discutere gli americani: la sparizione dei bidoni della spazzatura e i presunti avvistamenti di dischi volanti. In poco tempo la discussione si sposta sulla possibilità dell’esistenza della vita extraterrestre e del viaggio superluminale ed è a quel punto che Fermi sorprende i suoi interlocutori con una domanda:
“Where is everybody?”
cioè “Dove sono tutti?”1.
Eh già, dove sono tutti? Riflettendoci un attimo, la Via Lattea contiene svariati miliardi di stelle simili al nostro Sole; attorno a molte di queste orbitano pianeti simili alla Terra2; anche ammettendo che la comparsa della vita sia molto rara, e che la comparsa della vita intelligente sia ancora più rara, la galassia dovrebbe essere strapiena di civiltà extraterrestri. E allora dove sono le loro astronavi? Dove sono i loro messaggi radio? O i loro artefatti, sonde, rovine? Dove sono, insomma, gli alieni?
Per quanto possa far sorridere pensare a questi grandi scienziati perdere tempo e capelli dietro a domande (perlomeno in apparenza) tanto frivole, la semplicità e solidità del ragionamento rendono il mistero qualcosa di un po’ più serio di una chiacchiera da bar. Tutto quello che sappiamo ci porta a pensare che gli alieni debbano esistere, eppure non osserviamo prove della loro presenza. Il paradosso di Fermi (che prende il nome proprio da questa conversazione) ci rivela l’esistenza di una falla nel nostro modo di pensare e intendere l’universo: c’è qualcosa che non abbiamo capito, ma cosa?
La nostra presunzione di non essere soli discende da due preconcetti fondamentali: il primo è un semplice fattore statistico (quella che viene di solito chiamata, un po’ impropriamente, la legge dei grandi numeri): anche ammettendo che la probabilità dello sviluppo di civiltà aliene avanzate sia molto scarsa, l’incommensurabile dimensione dell’universo osservabile fa sì che ci sia un numero enorme di pianeti in cui potrebbe svilupparsi la vita; è come giocare alla lotteria con svariati miliardi di biglietti. Il secondo preconcetto è un’assunzione nota come principio di mediocrità: non c’è ragione di credere che le condizioni in cui la civiltà umana si è sviluppata siano in qualche modo speciali o rare. La Terra, del resto, è un pianeta tipico, in orbita attorno a una stella tipica, situata in una regione normalissima di una galassia tipica.
Frank Drake provò per primo, nel 1961, a quantificare questo ragionamento scrivendo un’equazione, nota come equazione di Drake: il numero di civiltà extraterrestri presenti nella nostra galassia con cui sarebbe (teoricamente) possibile comunicare (per esempio usando onde radio), è dato dal numero di pianeti abitabili moltiplicato per la probabilità che un pianeta abitabile effettivamente ospiti una civiltà avanzata. Mentre, anche grazie ai recenti avanzamenti nello studio di esopianeti (pianeti situati al di fuori del Sistema Solare), il numero di pianeti abitabili nella galassia può essere stimato, non abbiamo la più pallida idea di quale sia la probabilità che una civiltà extraterrestre si sviluppi in un pianeta abitabile. A seconda di quanto ottimisti siano gli approcci a questa stima, il numero di civiltà aliene nella galassia può variare da zero a diverse decine di milioni.
Nonostante ciò, non esistono al momento prove dell’esistenza degli alieni. O almeno, non esistono prove convincenti. Per quanto molti umani siano convinti non soltanto della loro esistenza, ma anche delle loro ripetute e frequenti visite sulla Terra (le cui prove, secondo queste teorie, ci verrebbero nascoste dai governi), le argomentazioni portate a supporto di questa tesi sono raramente soddisfacenti. L’osservazione di una misteriosa luce nel cielo è sicuramente una cosa suggestiva e affascinante e il fatto che le nostre attuali conoscenze scientifiche non sempre siano in grado di spiegare questi fenomeni stuzzica la nostra curiosità, ma non basta per provare l’esistenza degli alieni. A fronte dei numerosissimi libri, documentari e seminari tenuti su UFO, cerchi nel grano, dischi volanti, rapimenti e incontri ravvicinati di tutti i tipi, le “prove” a supporto di queste speculazioni sono tipicamente filmati amatoriali, foto sbiadite, testimonianze più o meno (in)credibili e poca ciccia. Dove sono le astronavi? Le onde radio provenienti dai loro pianeti? Le sonde (come la nostra Voyager 1) che attraversano lo spazio? Fino a che non ci saranno prove concrete, che non hanno bisogno di bislacche teorie del complotto per stare in piedi, il paradosso di Fermi rimarrà.
La ricerca attiva di civiltà extraterrestri è guidata dal SETI Institute, dove SETI (che sta per Search for Extra-Terrestrial Intelligence) è un programma di ricerca di onde radio inviate da altri mondi. Il consenso della comunità scientifica è che il modo di gran lunga più semplice per comunicare tra mondi lontani sia semplicemente quello di trasmettere onde elettromagnetiche, nello specifico nella gamma di frequenze del radio. Quindi, se gli alieni esistono e vogliono comunicare con noi, dobbiamo ascoltare i segnali radio che ci stanno inviando. Al momento questo sforzo non ha captato alcun segnale riconducibile ad una civiltà aliena.
Una spiegazione (o, per meglio dire, famiglia di spiegazioni) molto gettonata è che gli alieni esistano, ma che non possano comunicare con noi. Immaginiamo che attorno a ogni stella nell’universo ci sia un pianeta abitato da una civiltà con il nostro stesso grado di avanzamento tecnologico: nonostante questa abbondanza di alieni, non saremmo in grado di comunicare con loro. Al momento in cui questo articolo viene scritto, gli umani hanno inviato nello spazio interstellare appena tre sonde, non stanno trasmettendo onde radio captabili da altre stelle3, e non hanno costruito niente che sia visibile da altri mondi. Se il viaggio interstellare si dovesse rivelare tecnologicamente impossibile, così come le comunicazioni interstellari, potremmo non essere mai in grado di accorgerci dell’esistenza di civiltà extraterrestri.
È anche possibile che le civiltà extraterrestri non vogliano comunicare con noi, o espandersi nello spazio interstellare. La fantascienza ci ha abituati all’idea che le vastità del cosmo siano ricche di opportunità, risorse naturali, meraviglie di ogni tipo che rendono ovvio il desiderio della nostra specie di andare a colonizzare nuovi mondi. Ma è davvero così? L’esplorazione spaziale, che ricordiamo essere in questo momento al di fuori della nostra portata tecnologica, e quindi puro oggetto di speculazione, potrebbe rivelarsi molto dispendiosa in termini di risorse anche per una civiltà avanzata, e quindi non avere senso economicamente.
L’astronomo serbo Milan Ćirković, nel suo libro The Great Silence (che potrebbe, come non potrebbe, aver ispirato il titolo di questo articolo), immagina due tipi di civiltà extraterrestri: le civiltà che seguono un modello “imperiale” e le “città-stato”; mentre le prime investono tutte le loro risorse nel tentativo espandersi nella propria galassia (e oltre) alla massima velocità possibile, puntando sulla quantità, le seconde si espandono lentamente, concentrandosi sulla stabilità della loro struttura sociale ed economica, sulla ricerca scientifica e sulla qualità della vita dei cittadini. L’assenza degli alieni sarebbe quindi semplicemente indicazione dell’inevitabile fallimento del modello imperiale. Chissà, è possibile che il paradosso di Fermi sia semplicemente una questione di priorità.
L’inevitabile fallimento del modello imperiale proposto da Ćirković ci porta a considerare un’altra possibile soluzione (o famiglia di soluzioni) al paradosso di Fermi: l’estinzione. È possibile che da qualche parte, nel lungo percorso che va dall’abiogenesi (la formazione spontanea della vita in un pianeta abitabile) al raggiungimento dello status di civiltà interplanetaria, ci sia un Grande Filtro che porta all’estinzione della suddetta specie intelligente (se non di tutta la vita sul pianeta)4. Questo filtro potrebbe essere un’inaspettatamente alta improbabilità della stessa abiogenesi, oppure dello sviluppo di forme di vita complesse o intelligenti.
Ma questo filtro potrebbe anche trovarsi nel nostro futuro: l’umanità potrebbe essere destinata a estinguersi in una guerra nucleare o in un disastro ecologico. È possibile che tutte le forme di vita intelligenti che si formano nell’universo finiscano per sviluppare tecnologie così potenti da non poterle controllare e che basti un piccolo incidente diplomatico (o ecologico) per scatenare l’apocalisse. Se il Grande Filtro è davvero la risposta al paradosso, ci conviene sperare di averlo già superato. Contemplare un universo che sappiamo vuoto, per quanto deprimente, è comunque meno spaventoso della consapevolezza di essere diretti verso un inevitabile Grande Filtro che potrebbe causare la nostra estinzione, magari in maniera violenta e traumatica. Se mai trovassimo batteri su Marte, o pesciolini che nuotano sotto la superficie ghiacciata di Europa, non sarebbe quindi una così buona notizia.
Dobbiamo quindi sperare che l’universo sia vuoto? Effettivamente non abbiamo ancora affrontato la spiegazione più semplice, forse perché è di gran lunga la più noiosa e triste. Gli alieni potrebbero effettivamente, semplicemente, non esistere. Questa risposta (o, nuovamente, famiglia di risposte) prende il nome di Rare Earth hypothesis, dal libro Rare Earth di Peter Ward e Don Brownlee. All’inizio di questo articolo vi ho chiesto di considerare il principio di mediocrità, secondo il quale la Terra sarebbe un pianeta normalissimo e che non ci sia ragione di credere che non esistano numerosi altri pianeti nella nostra galassia con caratteristiche simili. Però, a pensarci bene, nel nostro sistema solare ci sono altri due pianeti a una distanza potenzialmente abitabile dal Sole: Venere e Marte. Nessuno dei due è lontanamente vicino a essere abitabile: Venere è un inferno di anidride carbonica a 92 atmosfere, con giorni lunghi un anno, nubi di acido solforico e intensa attività vulcanica; Marte è un deserto privo di atmosfera e campo magnetico, e quindi indifeso dal continuo bombardamento di radiazioni provenienti dal Sole. Forse la Terra è davvero un po’ speciale.
I sostenitori di questa ipotesi rifiutano il principio di mediocrità, sostenendo invece che il nostro mondo abbia una serie di caratteristiche rare che, anche se a prima vista possono apparire ininfluenti, sono determinanti per lo sviluppo di vita intelligente. Per esempio, il Sistema Solare è molto ordinato: ci sono dei pianeti rocciosi con orbite stabili e quasi perfettamente circolari nelle zone interne, e giganti gassosi con larghe orbite stabili e quasi perfettamente circolari nelle zone esterne. Questi ultimi, con i loro campi gravitazionali, “proteggono” i pianeti più interni dagli asteroidi provenienti dall’esterno, restando a una distanza sufficiente da non interferire con le loro orbite. La Terra è inoltre dotata di una Luna relativamente grande, almeno rispetto alle dimensioni del pianeta, che funge da stabilizzatore e mantiene costante l’angolo di inclinazione dell’asse di rotazione terrestre, garantendo un costante ciclo di quattro stagioni. Queste caratteristiche, almeno secondo la nostra conoscenza attuale di esopianeti, sono abbastanza rare5.
È quindi possibile che la vita sia qualcosa di esclusivo al nostro mondo? Che la Terra sia un giardino dell’Eden in un universo freddo e inospitale? È anche vero che l’ipotesi della Terra rara soffre un po’ di antropocentrismo: l’unico pianeta uguale alla Terra è la Terra stessa. Tutti i pianeti hanno peculiarità e non è difficile trovare per ogni dato pianeta, in questo Sistema Solare o meno, una caratteristica distintiva unica o molto rara. Quello che bisogna capire è se queste peculiarità sono essenziali per lo sviluppo della vita in generale o solo per come la conosciamo.
Ci sono molte altre soluzioni al paradosso che sono state proposte nel corso degli anni, come lo scenario dello zoo, o l’ipotesi della foresta oscura. In questo breve articolo mi sono voluto soffermare sulle soluzioni che stuzzicano la mia immaginazione e che non mi sembrano eccessivamente bislacche. Tuttavia, se mi permettete, vi raccomando un ultimo libro sull’argomento per saziare la vostra curiosità: If the Universe is Teeming with Aliens … WHERE IS EVERYBODY? di Stephen Webb, che esplora ben 75 possibili soluzioni al paradosso di Fermi. Chissà, magari potreste trovare la vostra preferita tra queste 75.
Alla fine il paradosso di Fermi, come anticipato all’inizio, riflette una falla nel nostro modo di pensare. La domanda da porsi non è quindi “Dove sono tutti?” ma “Dov’è la falla?”. Per i sostenitori della Terra rara, la falla sta nell’assumere mediocrità; per i sostenitori del Grande Filtro, la falla sta nell’assumere che il viaggio dall’abiogenesi all’esplorazione interstellare sia privo di ostacoli; per gli scettici del viaggio interstellare, sta nell’assumere che lo sviluppo tecnologico andrà oltre i limiti dell’immaginazione. La realtà è che non lo sappiamo. Pochi problemi aperti sono al tempo stesso così esistenzialmente importanti per l’intera umanità e così poveri di informazioni con cui provare a formulare una risposta come questo.
C’è solo una cosa che sappiamo per certo: noi. La nostra esistenza, se non altro, è prova del fatto che lo sviluppo di una civiltà intelligente è possibile. Anche se è vero che non è possibile estrapolare una stima di probabilità dalla nostra esistenza, per il bias del sopravvissuto, sappiamo per certo che questa probabilità non può essere zero. E forse questo è abbastanza per sdraiarci su un prato la notte di San Lorenzo, ad ammirare il cielo stellato e continuando a sperare, un giorno, di captare un segnale.
Note
- Eric M Jones, “Where Is Everybody?” An Account of Fermi’s Question, 1985: http://www.fas.org/sgp/othergov/doe/lanl/la-10311-ms.pdf
- Buchhave, L., Latham, D., Johansen, A. et al. An abundance of small exoplanets around stars with a wide range of metallicities. Nature 486, 375–377 (2012): https://doi.org/10.1038/nature11121
- SETI at 50. Nature 461, 316 (2009). https://doi.org/10.1038/461316a.
- Questa ipotesi è stata proposta nel ‘96 in questo post: https://mason.gmu.edu/~rhanson/greatfilter.html.
- Batygin, Laughlin, Morbidelli, The Violent Biography of Our Solar System, 2016: https://www.scientificamerican.com/article/the-violent-biography-of-our-solar-system/.