Ciao, mi chiamo Vittoria e domenica 3 marzo 2024 ho ospitato uno swap party di vestiti a casa mia, organizzato con l’aiuto di un’amica e il contributo di tutte le mie invitate.
Per chi non lo sapesse, uno swap party è un evento nel quale i partecipanti portano i propri capi che non vogliono più indossare per qualsivoglia motivo e, in base al numero di questi, possono scambiarli con un uguale numero di nuovi vestiti portati da altr*. L’obiettivo è prettamente eco-friendly, un modo per alimentare il riciclo e la circolazione di vestiti che altrimenti finirebbero in un cassonetto o a riempire qualche discarica. In realtà, dopo aver partecipato a diversi swap e averne organizzato uno, ho capito quale sia il vero spirito che muove questa iniziativa, ma andiamo con ordine.
Io e la mia amica Virginia siamo patite di slow fashion, vintage e vestiti usati. Adoriamo usare l’abbigliamento come forma di espressione artistica personale e come modalità di appartenenza a una comunità che mette al primo posto l’ambientalismo, oltre che l’avere un’estetica super personalizzabile e senza alcun giudizio. La nostra amicizia si è rinforzata proprio grazie alle frequenti incursioni nei mercatini: quando uso questa parola non intendo necessariamente il mercato con cadenza settimanale che c’è in praticamente ogni paesino e zona di grandi città. Da qualche anno seguo diverse pagine Instagram di ragazze e persone queer in generale che vendono vestiti di seconda mano o le proprie creazioni artigianali: uncinetto, gioielli, ceramiche, ricami, anche zine e illustrazioni. Una di queste in particolare (@mays.creatures) è stata il mio riferimento per i mercatini che io e Virginia amiamo, ovvero delle situazioni molto indipendenti e creative in cui ci si ritrova in un luogo pubblico (solitamente un giardinetto all’esterno o anche degli edifici occupati) e una manciata di persone mettono su il proprio banchetto di creazioni e portano relle e scatoloni di vestiti in cui “ravanare” finché non si trova qualcosa che attira l’attenzione.
La maggior parte di questi “negozietti improvvisati” vende questi capi, ma molte volte c’è un angolo dedicato allo swap, quindi al baratto di essi. Questa situazione rende potenzialmente partecipe di questo circolo di vestiti chiunque abbia qualche vecchio capo da donare e che voglia dare una ripulita o una scossa al proprio armadio. Persone d’ogni tipo portano tote bag o sacchettoni pieni di vecchi vestiti e le organizzatrici dello swap danno un gettone per ogni capo. In questo modo, è molto più semplice quantificare gli abiti coinvolti dallo scambio, poiché ci si basa non tanto sul valore economico del vestito ma sul baratto: ad esempio, io ho portato tre vestiti, quindi ho diritto a prenderne altri tre. E se, nonostante questo, non se ne trovano altrettanti tre ma solo due, non è un problema: puoi sempre lasciare lì i tuoi vestiti indesiderati (pur di fare spazio nel tuo armadio) e questi contribuiranno a formare la base per il prossimo swap. Insomma, c’è un ricambio continuo di capi e, ovviamente, più persone vengono, più riuscirà. Per fortuna mia e di Virginia, abbiamo sempre trovato qualcosa che facesse al caso nostro perché i partecipanti a ogni swap condividono, più o meno, la nostra estetica. Mi rendo conto quindi che non sembri un ambiente per “tutti tutti”, ma non nego che spesso trovo abiti sportivi, di marca o, banalmente, di Shein. Quindi, il mio incoraggiamento a partecipare è rivolto a chiunque.
Insomma, vedendo quanto riescono bene queste iniziative, un bel giorno mi è venuto in mente di organizzarne uno tutto mio. La mia partner in crime Virgi, ovviamente, si è trovata d’accordo e l’entusiasmo di entrambe viene man mano alimentato dall’immaginazione. Casa mia viene subito scelta come “luogo del delitto”: ho la fortuna di avere un salotto spazioso abbastanza per poter ospitare un buon numero di persone, oltre che una quantità importante di vestiti. La realizzazione deve aspettare il mese di febbraio, dopo la fine della sessione, ma la motivazione rimane forte come dal primo momento. Ci mettiamo subito in azione: postiamo entrambe una story su Instagram in cui spieghiamo cosa vogliamo fare e aggiungiamo anche un link a un gruppo Whatsapp in cui verranno decisi i dettagli man mano che arriveranno le conferme degli invitati. La prima ondata di affluenza è composta soprattutto dai nostri amici più stretti, che ormai sanno che al complimento “che bel vestito!” 9 volte su 10 la risposta sarà “grazie, l’ho preso al mercato!”. Per fortuna, il passaparola si espande e i nostri amici chiedono di portare dei +1, coinquilini, fidanzati, altri amici. Decidiamo tutti insieme la data con un mega sondaggio: domenica 3 marzo risulta la più gettonata. Purtroppo non esisteva il giorno perfetto per tutti i nostri invitati, perciò alcuni tristemente devono dirci addio ed esprimono la speranza di poterci essere al prossimo. Alla menzione già di un “prossimo” ancora prima di realizzare il primo, la mia euforia second-hand schizza alle stelle: non sembrava, ma la gente già credeva tantissimo in questo progetto, sarà magari l’entusiasmo che io e Virgi abbiamo dimostrato nel convincimento e nell’organizzazione, o semplicemente il fatto che io e Virginia andiamo sempre in giro con indosso almeno un capo di seconda mano e quindi tutto ciò risulta estremamente plausibile.
Bando alle ciance: io e la mia partner ci sentiamo in lunghe telefonate per scambiarci idee su dettagli pratici dell’organizzazione. Decidiamo di preparare un piccolo rinfresco, dato che sarà pomeriggio, e di usare i soldi del Monopoly come “gettone” per ogni capo, il che aggiunge un ulteriore fattore di divertimento. La vera svolta è stata una rella espandibile generosamente prestata dal mio migliore amico, che è subito stata montata e piazzata nel mio salotto. Già solo iniziando ad appendere lì i miei vestiti, l’idea che avevamo avuto solo in testa ora iniziava a prendere forma. Mia madre mi dà una grossa mano ad appendere grucce e piegare il resto sul tavolo. Dato che non abbiamo 200 grucce in casa, l’idea è che ognuno porti le proprie, ma distinguendole per dei particolari: io ho preso dei nastrini colorati e li ho annodati intorno al “collo” delle grucce, facendo dei fiocchi. Un’altra differenza con gli swap a cui sono abituata è che stavolta i capi rimasti “invenduti” dovranno essere riportati a casa dai rispettivi proprietari, dato che né io né Virginia possediamo (ancora) un magazzino per tenerli tutti.
Il grande giorno arriva e sono un po’ nervosa oltre che emozionata. E se poi nessuno dei miei amici trova dei vestiti nuovi e si rivela solo una grande delusione? Sento un po’ la pressione del momento. La gente inizia ad arrivare. Con l’aiuto di mia madre e di mia sorella, prendo i loro vestiti e li distribuisco nel mio salotto in base al tipo, e ben presto la rella inizia a colorarsi di camicie, abiti lunghi, giacche. Il tavolo è sommerso di tessuto: pantaloni, jeans, pantaloncini, minigonne, t-shirt, felpe e maglioni. Dopo un momento di panico iniziale in cui Virginia è bloccata in auto, prendo in mano la situazione e senza aspettare i soldi del suo Monopoly inizio a distribuire i soldi di Barbie Reginetta del Ballo (gioco in scatola degli anni ‘80 che mia madre ha gelosamente custodito e protetto dai vari traslochi e che ha contribuito ad alimentare la mia passione per la bambola più celebre del mondo). La gente inizia a guardarsi in giro e con l’arrivo dell’auto di Virginia (che porta con sé non solo due sacchettoni di vestiti e i fatidici soldi del Monopoly, ma anche altre 4 persone con altrettanti sacchetti) la situazione si sblocca e ufficialmente lo swap parte!
Da questo momento in poi, vivo delle ore di euforia di cui faccio fatica a ricordare ogni dettaglio. Mia madre assume pienamente il ruolo di commessa e shopping assistant con entusiasmo, aiutando le persone a scegliere vestiti e ritirando fiammanti banconote rosa per ogni capo scelto. Sarà complice la playlist che io e Virginia abbiamo curato (“okay, pensa a musica che metterebbero da Humana Vintage”, e poi ci siamo ritrovate ad avere in coda su Spotify prima Charlie XCX e poi Gianni Morandi. Però lo spirito è quello giusto!), ma l’atmosfera ha completamente trasformato il mio salotto in un negozio di abbigliamento. Ma c’è di più: rispetto a un tradizionale negozio (che per qualche motivo, o magari sono solo io, è sempre affollato, con luci al neon, musica house insistente che manda in catalessi, commesse stanche ma insistenti e camerini piccoli con specchi deformanti), casa mia sta riuscendo a dare una forte dimensione di comunità. Al posto dei camerini, le persone si cambiano in bagno o in camera mia direttamente e data l’affluenza è sempre più frequente che entrino anche 5 o 6 persone tutte insieme a svestirsi, guardarsi allo specchio e scambiarsi complimenti. Credo che stia qui il valore aggiunto. È vero, le invitate provengono dalle conoscenze mie e di Virginia, ma non necessariamente si conoscono tra di loro; eppure, noto ad esempio che delle mie compagne di teatro non si fanno problemi a stare in camera con amiche d’infanzia di Virgi. Non c’è praticamente imbarazzo: chiacchiere e risate di sconosciute riempiono l’aria sulle note di canzoni indie. Mi diverto così tanto a distribuire piccole banconote e a osservare cosa prendono le mie amiche (e qua, ormai, considero tutte le invitate mie amiche) che quasi mi dimentico di partecipare io stessa allo swap, e allora inizio a fare il mio giretto.
Lo swap si prolunga fino alle 17, finché alcune delle mie amiche non devono andare a casa. Il ritmo concitato di prima adesso scende piano piano, ma l’entusiasmo rimane alto: io e mia mamma ci inventiamo un giochetto, l’asta flash, per aiutare chi sta per andarsene a “sbolognare” anche gli ultimi capi invenduti. Quest’ultima operazione di convincimento funziona a metà, ma io ho una strana passione per le aste quindi mi sembra un’idea geniale e riesco addirittura ad accaparrarmi qualche maglietta in più. Sarà vero che quando un commerciante ti mette fretta per una svendita allora è più probabile che comprerai qualcosa perché in fondo “conviene”. Man mano che le invitate se ne vanno, riportano a casa le proprie grucce e alcuni capi, ma in media ognuna di loro si è riportata a casa almeno 7 o 8 capi nuovi. Per me, è un grande successo.
Dopo aver salutato tutti, aiuto mia mamma a mettere via i nostri vestiti avanzati, prima di uscire nuovamente. Ma mentre sono sui mezzi, sul gruppo dello swap arriva un messaggio che è in realtà il vero catalizzatore di questa piccola riflessione/pagina di diario. Ve lo riporto qui di seguito per intero senza menzionare il nome per privacy:
Heyy, Oggi sono stata davvero bene allo swap party. È stato un bellissimo esperimento di comunità per rimettere al centro le relazioni e una cosa così intima, come i nostri vestiti. Scambiarceli. Vedere i tuoi, che non usi più, riprendere vita su qualcun altro e scoprire i gusti dei tuoi amici incrociarsi. O vedere capi che pensi non andranno mai bene, combaciare con qualcuno nella stanza. Poi cambiarsi tutti assieme, darsi suggerimenti, farsi dare pezzi che non sceglieresti mai ma vedere come gli altri ti percepiscono ed innovare. Grazie per averlo organizzato così bene
Questo piccolo paragrafo esprime perfettamente il sentimento che non avevo ancora messo a parole ma che mi frullava in testa da tutto il pomeriggio. Queste persone sono rimaste così entusiaste e soddisfatte dallo swap non (o almeno, non solo) per una ragione magari “materialista” di rifarsi l’armadio, o per una forte svolta ambientalista, ma per la comunità che si era temporaneamente formata in poche ore. Certo, l’esperimento forse avrebbe avuto esito diverso se fossimo tutti stati completi sconosciuti, ma in generale l’unica caratteristica che accomunava tutte le mie invitate era la volontà di trovare del “nuovo” in qualcosa che altr* considerano “vecchio”, e nel fare ciò si sono create delle relazioni tra le partecipanti. Il vestito non è quindi solo un pezzo di stoffa cucito e pronto a essere venduto e generare profitto, ma diventa così un veicolo per la conoscenza di qualcun altro. Chissà che adesso non siano nate delle nuove amicizie… grazie a una gonna!
Ora, il mio entusiasmo trasuda da questa pagina di “diario”, come se fossi una recycler incallita, ma non ho sempre avuto questo atteggiamento propositivo. Per colpa di problemi di autostima, credo di essermi portata a pensare ai vestiti solo come a una sorta di seccatura, a cui cercare di non pensare troppo, pena precipitare in una spirale di insicurezze. La parola d’ordine per me era “comfort”, anche a costo di sacrificare un po’ l’estetica; ancora adesso se devo tenere dei jeans troppo stretti per tutto il giorno, non faccio altro che pensare al momento in cui li potrò scaraventare per terra quando arriverò a casa.
Solo negli ultimi 3 anni ho cominciato a pensare ai vestiti come un mezzo di espressione artistica personale. Non so dire con precisione cos’ha scatenato questo cambiamento (le ore passate su Pinterest? O il fatto che negli anni ‘10 del Duemila trovavo i trend dell’epoca francamente terrificanti, mentre dagli anni ‘20 in poi li ho considerati sempre più gradevoli? Chi può dirlo), ma sono felice che questo rapporto sia cambiato. I vestiti rimangono comunque l’espressione di uno status symbol, inevitabilmente, e quindi credo che genereranno sempre delle differenze sociali o economiche. Sento, però, che di recente si stia risvegliando qualcosa di più spensierato nella coscienza della mia generazione, in riferimento ai vestiti: è una corrente, quindi non potrà certo investire tutt*, ma almeno nella mia bolla social fatta di contenuti second-hand e di upcycling, vedo davvero tante persone felici di aver trovato nell’usato il proprio stile da comporre senza stare a pensare a etichette o categorie.
Il riscontro di questo swap mi ha fatto capire che sotto sotto siamo tutti uguali, che ci vogliamo bene anche senza conoscerci e che un vestito non è mai solo un vestito: è un legame, una connessione, un’amicizia condivisa con sconosciuti. Avete presente Quattro amiche e un paio di jeans? Ecco, sono contenta che i miei pantaloni (ma non solo) stiano girando “per il mondo” indosso a persone che li apprezzano davvero.
Illustrazioni di Maria Traversa
“L’altra faccia della Luna” è la nuova rubrica de L’Eclisse, una rubrica personale, in cui vogliamo mettere a nudo le ansie e la vita quotidiana di noi giovani.