“Riesco a scrivere di tutto, anche dei miei amici, del mio matrimonio, tutto. Ma le mie figlie sono un tabù; cerco di non intromettermi nei loro affari personali. Non voglio che si sentano esposte, come se io mi fossi impossessato delle loro vite. Credo di esserci riuscito, finora. Adesso loro fanno a gara per chi legge prima le mie storie, ma immagino sia strano leggere qualcosa che espone il mondo interiore dei propri genitori…”
Eshkol Nevo mantiene un tono scherzoso per tutta la conferenza e mette tutti a proprio agio. Non si direbbe che davanti a noi ci sia uno dei più famosi autori israeliani del momento. L’opportunità è stata offerta dall’Università Cattolica di Milano: il 7 maggio, nella sede in via Olona, si è tenuto l’incontro “Meeting the author” in occasione della pubblicazione da parte della casa editrice Neri Pozza della traduzione italiana (di Raffaella Scardi) di Legami. Quest’ultimo titolo è stato a lungo dibattuto, ci racconta Daniela Pagani, giornalista pubblicista e professoressa in Cattolica di Editoria: la traduzione letterale sarebbe stata “cuori famelici” (dalla canzone di Bruce Springsteen “Hungry Hearts, presa intenzionalmente a riferimento da Nevo), ma si è optato per un titolo che richiamasse le connessioni umane che il libro affronta.
Grazie alla moderazione da parte di Arturo Cattaneo, professore di Letteratura Inglese in Cattolica, il ghiaccio viene rotto proprio con un cenno a questa traduzione. Nevo mette subito in chiaro che per lui è più importante far arrivare i libri alle persone, piuttosto che concentrarsi su formalità come la copertina o la traduzione (più o meno aderente all’originale) del titolo. La conferenza si è poi svolta con tranquillità: Nevo ha accolto con molta disponibilità tutte le domande degli studenti della laurea magistrale di Art and Industry of Narration, curiosi di conoscere i ferri del mestiere da un professionista, e dei professori lì presenti ad ascoltare.
Come comincia a scrivere una storia?
Prendi un evento della tua vita, per quanto possa sembrare piccolo o insignificante. [ci racconta un aneddoto: una volta, a Torino, è andato nella chiesa vicino alla stanza che la casa editrice gli aveva prenotato, per chiedere al prete se si potesse abbassare il volume delle campane, perché data la vicinanza e l’alto volume del suono delle campane, non è riuscito a chiudere occhio. Dunque, ha seguito la messa e subito dopo si è messo in fila per il confessorio: “confesso un po’ di peccati e poi glielo chiedo”. Tuttavia, alla fine ha deciso di andarsene] Esplora le opportunità della “strada non presa”: ho iniziato a pensare a una storia in cui il protagonista si trova in questa stessa situazione e, al contrario di me, riesce a chiederlo al prete. Questa è una delle storie di Legami. Le storie di solito cominciano con un problema, o qualcosa di strano o curioso della vita vera, o una questione che non riesco a risolvere: attraverso la finzione, provo a risolverla o immaginare “Cosa succederebbe se…?”. Per renderlo effettivamente una storia, poi lo porto all’estremo.
Mentre scrive, pensa più ai lettori o a se stesso?
Cerco di non pensare ai lettori mentre scrivo. C’è il rischio di diventare troppo “piacione” [ride, per aver usato questo termine del dialetto romano]. Voglio essere puro quando scrivo. Scegliere le parole giuste, o il giusto finale, a volte può farti impiegare secoli. C’è un lungo processo di stesure su stesure: è un processo molto personale, nessuno legge le mie storie finché non sono pronte. Inizio a pensare al lettore solo quando il libro sta per essere pubblicato ed entra in gioco la parte più “industriale” [dell’editoria]. Vorrei che le persone si sentissero quasi “invitate” a leggere i miei libri, ed è in quel momento che inizio a pensare al titolo. Ad ogni modo, si parla molto apertamente dell’aspetto commerciale, ma non del contenuto.
Quando era un principiante, a chi mostrava le sue storie e come ha affrontato il rifiuto?
La giovane età che voi avete [fa un cenno a noi studenti] è così piena di dubbi. Ho ricevuto tantissimi no. Ho iniziato a lavorare al mio manoscritto, una raccolta di storie brevi, quando mi sono laureato in Psicologia a 26 o 27 anni, in Israele. Sono andato a un workshop di scrittura creativa e il feedback che ho ricevuto era positivo, quindi ero convinto che il manoscritto fosse buono. L’ho concluso e ho dovuto decidere se continuare con un master in Psicologia o continuare con le mie storie. Alla fine ho deciso di non reiscrivermi e ho mandato il mio manoscritto in tutte le 12 case editrici d’Israele, pieno di speranza… e ho ricevuto no su no. È stato il periodo più brutto dei miei vent’anni, se non della mia vita. Questa situazione andò avanti per metà anno. Il mio consiglio: non vi disperate per questi no. Avete bisogno solo di un sì. E alla fine l’ho ottenuto! Eppure, il mio primo libro è stato un fallimento: ho venduto solo 2000 copie, di cui metà sono state acquistate da parenti e amici. Ma mi è piaciuto il processo! Ci sono stati pochi (ma buoni) casi in cui degli sconosciuti hanno trovato un significato e una connessione con queste storie e mi hanno mandato delle mail o mi hanno approcciato per strada per parlare di questo libro. Questo è abbastanza. Commercialmente, questa esperienza è stata un fallimento, ma ho capito che volevo concentrarmi su [questa carriera]. Quindi ho cambiato l’impostazione della mia vita, ho smesso di lavorare in pubblicità. Non è stato un inizio semplice.
Ha mai sentito la necessità di scrivere in inglese o in altre lingue?
Mi piacerebbe inserire delle parole italiane nei miei scritti, come “boh” o “ma dai!” [ride]. Sto collezionando espressioni da ogni lingua che incontro, però scrivo in ebraico, non riesco a farlo in altre lingue. Una volta nel 2020, poco prima del Covid, ho incontrato una persona a Panama durante un booktour e ho voluto mostrarle una mia storia; però, questa persona non conosceva l’ebraico, quindi ho scritto una storia in inglese sul volo di ritorno. È stato straniante, come se qualcun altro la stesse scrivendo, ma è l’unica cosa che io abbia mai scritto in inglese. Alla Scuola Holden insegno in una classe internazionale, con studenti italiani e stranieri, e tutti devono scrivere in inglese, ma a volte sento come se mi mancasse qualcosa di cruciale per poter capire il loro stile o personalità. Ad esempio: il titolo originale di Le vie dell’Eden è Gever Nichnas Ba-Pardess. La parola “pardess”, tradotta letteralmente, significa “frutteto”, ma contiene molte implicazioni religiose (“Un uomo entrò nel giardino divino”, dove solo Mosè poté entrare), e “frutteto”, a confronto, non significa niente. Quindi, come si fa a trasmettere la profondità di una cultura in un’altra lingua? Per il titolo italiano abbiamo optato per “Eden”, a metà strada tra pardess e frutteto.
Ha mai un’immagine in testa quando pensa alla copertina dei suoi libri?
Non sono così talentuoso [ride]. Sono un uomo di parole. Al tipo che fa le mie copertine, un mio caro amico in Israele, non piace nemmeno leggere. Siamo amici da vent’anni. Funziona così: gli scrivo, ci vediamo per un caffè, parliamo intimamente e a lungo, e poi gli mando cinque o sei pagine del mio manoscritto. Ed è come un miracolo! Lui è capace di trovare immagini che sono davvero rilevanti o adatte poeticamente per le mie storie, e ogni volta mi stupisco, ma da dove vengono? Non esce sempre giusto al primo tentativo, ma penso che la sua sia un’abilità miracolosa, specialmente perché io non la possiedo. Quando il libro ha una bella copertina, ti aiuta ad amare di più il libro. A volte escono delle copertine molto strane, come una versione russa (di cui non mi hanno neanche chiesto un’opinione). Ma mi è piaciuta subito la copertina italiana di Legami, è sensuale e misteriosa.
Ha mai preso parte nell’adattamento teatrale dei suoi libri?
Solo una volta. Di solito non ho tempo, e poi non penso che sia utile per il processo. L’unica eccezione è stata per un mio carissimo amico del liceo. Ora lui è un attore famoso in Israele, ma al liceo io scrivevo e lui recitava le mie parole, ma non abbiamo mai avuto l’occasione di mettere in scena qualcosa di nostro. Quando ha letto Tre piani, ha pensato che si potesse adattare il “Primo piano” per il palcoscenico. E per amore della nostra amicizia lo abbiamo fatto! Abbiamo scritto insieme il copione e lui recitava nella parte del protagonista. Abbiamo anche ricevuto il supporto di un importante teatro nazionale. Ho anche lavorato con dei drammaturghi e ho imparato molto; abbiamo fatto stesure e stesure del testo fino all’ultimo momento, prima di andare in scena. Di solito non vedo la reazione dei miei lettori, ma a teatro lo senti. Mi è piaciuto! Magari un giorno scriverò una sceneggiatura per la televisione o per il cinema, ma è stata una bella esperienza.
Dati i suoi studi in psicologia, che impatto ha avuto la psicanalisi sulla sua vita e opere?
Entrambi i miei genitori sono psicologi, e già a 11 anni leggevo L’interpretazione dei sogni. Però non analizzo i miei personaggi in una luce freudiana o junghiana. È più un modo “inconscio” di concepirli [ride]. Cerco di pensare a un personaggio come un essere umano unico, non come un paradigma o uno schema.
Quando scrive storie brevi, sa esattamente dove andrà a parare? Pensa che sia più importante sapere già il finale quando scrive una storia breve, rispetto a un romanzo?
Scrivere romanzi è come guidare senza un navigatore. Non sai davvero dove stai andando la maggior parte del tempo. Con le storie brevi, devi arrivare a un certo punto in cui capisci dove stai andando e qual è la tua visione, abbastanza in fretta. Ci sono state diverse storie che ho cominciato senza sapere dove finire, solo con un’immagine in testa, o un’espressione. E da lì c’è sempre spazio per delle sorprese, anche per le storie brevi. Cerco di non essere blando quando scrivo. Un modo di scrivere che mi piace molto è pensare come se mi trovassi in un’auto di notte e vedessi solo ciò che i fanali illuminano davanti a me. Vedo solo il paragrafo che si trova davanti a me, non quello dopo.
Per concludere la conferenza, il prof. Cattaneo ha decretato, nel consenso generale, che noi lettori non abbiamo mai l’impressione che Nevo scriva solo per se stesso. Le sue parole ci tengono insieme. E penso che sia proprio questo l’obiettivo di Nevo: tradurre su carta il non-detto, la parte di vita tenuta nascosta per proteggerla. “Il desiderio, nella sua inaccessibile oscurità, è insomma ciò che fa sì che la narrativa di Nevo assolva il compito proprio della scrittura capace di avvincere il lettore: «parlare», come indica Sebald, «in maniera chiara di cose oscure»”. Lasciamo, dunque, che le nostre “cose oscure” escano alla luce, che Eshkol Nevo esponga i nostri “legami”.
Vittoria Tosatto
ata a Vimercate nel 2001 e cresciuta nei meandri della Brianza, frequento il corso di Lingue, Comunicazione e Media all’Università Cattolica di Milano, e ancora mi chiedo perchè ho scelto la vita da pendolare. Le mie “guilty pleasures” sono i musical, le aste e i libri che finiscono male. Assieme a Alessandro Orlandi gestisco la sezione di scrittura articoli, e spesso mi troverete a scrivere pezzi su letteratura, donne sconosciute della storia, e la cultura pop.