Dune è vita. È il battito che pulsa fra le sabbie, che indica la via al Verme. È un canto beduino che, trasportato dai venti caldi del deserto di Arrakis, giunge fino agli accampamenti più lontani, alle tende più remote dove scuote le coscienze, annebbiate dal sole allo zenit.
Dune è quel pianeta aranciato, fatto di rocce, caldo e sangue, dove la vita di molti è sopravvivenza e quella di pochi è eccesso. Nel miraggio della rivalsa si compie un’antica profezia, un mito dai colori ocra, oro, e bruno; un moto di rivoluzione di un pianeta che a lungo è stato nell’ombra di altri: più forti, uniti, determinati. Giedi Primo è uno di questi pianeti.
Quando, il 28 febbraio, è uscita in Italia la seconda parte dell’opera di Denis Villeneuve, Dune, non mi è stato possibile non notare, durante la visione, una scelta stilistica forte e audace. Nel bel mezzo degli intrecci che riguardano il pianeta della sabbie si inserisce una parentesi, totalmente distaccata atmosfericamente dal resto della pellicola. Tale inciso specifica un background fino a quel punto immaginato, il mondo in cui agiscono e da cui provengono gli Harkonnen, e che attraverso poche scelte stilistiche è in grado di donare uno spessore incredibile ai membri della casata e agli intrecci di potere che la riguardano. Questo articolo, allora, vuole essere un approfondimento sulle modalità registiche che Villeneuve adotta per restituire un mondo distante ma allo stesso tempo vicino, in bianco e nero ma colorato dalla Storia.
Non appena l’attenzione della pellicola si sposta sul pianeta che gli Harkonnen chiamano casa, non possiamo che percepire una sensazione complessa, un disagio radicato in una visione alienante e non del tutto razionalizzabile. A primo impatto notiamo il biancore. La stella che illumina il pianeta emana una luce nera, incapace di restituire quello spettro luminoso caldo e coinvolto a cui eravamo abituati su Arrakis. Al suo posto, il sole nero di Giedi Primo forma un ambiente freddo e asettico, tinto da un bianco e nero purissimo. Poi, notiamo le ombre.
La presenza e l’assenza di luce lascia spazio a ombre, a un pianeta fatto di spazi da colmare, da ridisegnare. Perché in fondo cosa rende il bianco freddo o asettico, candido o sacro? Cosa rende il nero pauroso o luttuoso o elegante? Il colore è tante cose; è trasparente come l’acqua se non incontra una sostanza dura, calcarea da trascinare via con sé. Esso allora diventa opaco: finalmente concretizzato in un’occorrenza di sé, trae forma e significato dalla roccia antica che ha mineralizzato lungo il suo cammino. E a seconda dei minerali che incontra, dei sentieri che scende, delle montagne che scava, il colore acquista differenti sfumature e qualità.
Se, dunque, dalla superficie del pianeta alieno eruttano aggettivi quali freddezza, asetticità e indifferenza, lo fanno in virtù di un’atmosfera opaca in cui rinvenire, in sospensione, i resti di un passato disciolto, mineralizzato. Un’atmosfera tinta di un colore che ha scavato la roccia del tempo, rubando detriti, rendendolo, infine, un’amalgama di citazioni e riferimenti e analogie.
È necessario scavare, quindi, poco al di sotto della superficie di Casa Harkonnen per scovare il primo fossile. Al di là della pellicola trasparente e incolore intravediamo un mondo fatto di arene di marmo candido, folle in visibilio e un tiranno pronto a essere acclamato. Un mondo vicino iconograficamente ad un altro più familiare e, per questo, terrificante che è giunto fino ai nostri occhi grazie ad un altra pellicola fatta di ombre. Non serve rivisitare Olympia, il documentario di Leni Riefenstahl sulle olimpiadi di Berlino del ‘36, perché le immagini contenute in essa tornino alla memoria dinanzi allo schermo in bianco e nero di Dune.
Tra le molte somiglianze iconografiche riscontrate tra la sequenza in questione di Dune e Olympia, mi preme sottolineare la vicinanza delle due pellicole nella rappresentazione del potere. In particolare, i palchi reali vengono ripresi più volte nella loro totalità. Questo evidenzia la loro ubicazione e conformazione: alti sopra la folla, permettono una visione d’insieme del popolo su cui il potere si esercita. Simboli e strumenti dell’autorità, vengono dipinti come luoghi inaccessibili; torri che elevano il sovrano sopra ogni tipo di coinvolgimento terreno.
Dalle riprese aeree dell’arena alla colonna sonora zuppa delle urla di una folla trepidante, tutto a primo impatto riporta a un’iconografia tristemente nota, che ghiaccia gli animi e sostituisce alla mancanza di colore una tinta fatta di ombre e oscurità. Il grande spettacolo della lotta gladiatoria viene così subito associato, nella percezione collettiva, non alla forza dell’antica Roma ma ad una forza più moderna e più enigmatica, più vicina e dunque più terrificante. All’impero degli Harkonnen viene associata quella stessa complessità di giochi, di responsabilità, interessi e potere che possiede la Germania del ‘36. Una Germania dominata da un tiranno che, dal suo palco reale, viene acclamato da una massa sterminata, rappresentata da puntini neri su gradinate bianche, accecanti; ognuno con la sua storia, ognuno con la propria rete di interessi, ognuno con la propria fetta di responsabilità.
In foto è possibile notare un’altra similitudine in termini di scelte registiche tra le due opere. Sia in Dune sia in Olympia colui che detiene il potere viene ripreso più volte dal basso, sottolineandone lo status sociale superiore rispetto all’arena e nei confronti dello spettatore.
L’arena completamente desaturata di Giedi Primo appare allora come una macchina, un organismo complesso fatto di tensioni, alleanze e brame, in cui il potere si mostra nella sua essenza gelida, insensibile. Come a Berlino, e al contrario di Arrakis, qui nulla è umano. Non esiste sentimento o compassione o desiderio che vada al di là della pura spinta egoistica a volere per sé stesso. Qui tutto è premeditazione fredda, calcolata, senza scrupoli.
Le arene di Dune e Olympia vengono anch’esse rappresentate in modo simile. Inquadrate più volte dall’alto, sono shot che tentano un campo totale che inglobi un significato complesso che solo la ripetizione dell’immagine può far emergere. Compaiono in essi, se sottoposti a uno sguardo analitico favorito dalla riproposizione, un complesso di relazioni, di interessi e bisogni. Due immagini, dunque, simili: due campi totali sulle macchine del potere, di cui le arene sono simbolo ed esemplificazione, e sul loro funzionamento.
“Un papavero può essere grigio, una foglia nera, e i verdi non sono sempre erba né i blu sempre cielo“1 diceva Antonioni, riprendendo una citazione del poeta francese Henri Matisse, e credo in questa frase possa essere rinvenuto l’intero approccio che Villeneuve adotta nel dipingere il pianeta degli Harkonnen: un colore al servizio del significato e un significato al servizio del colore. Il bianco e nero in Dune non caratterizza univocamente il testo filmico; esso, al pari di ogni altra tinta, è un bagaglio semantico – culturalmente e socialmente definito – troppo vasto perché possa essere interpretato univocamente. Dunque le parole di Matisse, riprese da Antonioni. Esse trattano del colore come di un elemento caratterizzante ma anche caratterizzato, che si pone al crocevia tra immagine e significato. Nell’infinita complessità semantica che il colore ci apre è bene studiare ciò che esso, nel caso analizzato, attrae; le immagini, icone, emozioni che gravitano nella sua orbita. Solo così esso può diventare espressione di un significato uno e unico.
Un esempio spero possa chiarire definitivamente quanto detto. Non si può dire che ogni volta che il colore rosso viene utilizzato in un’opera esso rappresenti la passione amorosa e non si può nemmeno dire che ne In the mood for love, per citare un film ben conosciuto, l’amore straziante tra i due protagonisti venga sottolineato dal colore rosso senza un’argomentazione dettagliata del perché. Questo è necessario poiché la tinta rossa è semanticamente non univoca, come d’altronde ogni colore, rendendo quindi imprescindibile uno studio dell’opera a cui è applicata per comprendere a fondo l’occorrenza semantica.
Solo, dunque, in seguito all’immersione nell’universo semantico che la sequenza su Giedi Primo offre, quella che una volta era trasparenza può divenire opacità, e quella che era assenza di colore trasformarsi in una tinta fatta di grigi, in un gioco di rimandi tra immagine e contenuto, superficie e profondità.
Il grigiore di Casa Harkonnen è parte integrale di un processo di costruzione di un significante complesso e ramificato, intriso di rinvii e allusioni; gioca un ruolo fondamentale nella costituzione di un’atmosfera desaturata ma ricca di significato, non meno espressiva dell’atmosfera calda e aranciata del pianeta delle sabbie.
- Michelangelo Antonioni, Il colore non viene dall’america, in «Sequenze», 1949
Matteo Paguri
Matteo Paguri, 10 settembre 1998. Vergine ma, vi prego, non chiedetemi l’ascendente. Già troppe volte l’ho “calcolato” e già troppe volte me lo sono scordato. Profondo amante dell’astrologia, come si può dedurre. Del resto che dire? Non amo troppo descrivermi. Frequento il corso che detiene il record per la quantità di persone che hanno provato a pronunciarne il nome ma sono svenute senza fiato nel mentre. Non mi credete? Proviamo! Un bel respiro e… Laurea Magistrale in Scienze dello Spettacolo e Produzione Multimediale. Record esteso.